Che cosa prevede la riforma sull’autonomia differenziata

La legge è stata approvata definitivamente dalla Camera, ma ci vorrà tempo prima che le regioni ottengano maggiori poteri
ANSA/GIUSEPPE LAMI
ANSA/GIUSEPPE LAMI
Nella notte di mercoledì 19 giugno, dopo un lungo esame in aula, la Camera dei deputati ha approvato definitivamente il disegno di legge sulla cosiddetta “autonomia differenziata”, che stabilisce le regole e il percorso con cui alcune regioni potranno chiedere maggiore autonomia nella gestione di specifiche materie.

Il disegno di legge era una delle promesse contenute nel programma elettorale della coalizione di centrodestra per le elezioni politiche del 25 settembre 2022. Il testo era stato presentato in Parlamento dal governo a marzo 2023 e, dopo alcune modifiche, aveva ricevuto il via libera del Senato lo scorso gennaio. 

In questi mesi l’esame in Parlamento è stato agitato: i partiti all’opposizione hanno provato a rallentare i lavori al Senato e alla Camera facendo ostruzionismo e il 13 giugno un deputato del Movimento 5 Stelle è stato aggredito in aula da alcuni parlamentari della maggioranza mentre cercava di consegnare la bandiera tricolore dell’Italia al ministro per gli Affari regionali e le Autonomie Roberto Calderoli (Lega), storico sostenitore dell’autonomia differenziata. 

In questo articolo non ci occuperemo delle posizioni dei favorevoli e dei contrari alla nuova legge, che analizzeremo in un futuro. In breve: i primi sostengono che concedere maggiore autonomia alle regioni permetterà di migliorare i servizi per i cittadini e renderà la spesa delle regioni più efficiente; i secondi, invece, sostengono che concedere maggiore autonomia alle regioni aumenterà le disuguaglianze tra i territori e peggiorerà i servizi già carenti in alcune regioni. Le posizioni, comunque, sono più complicate di così: basti pensare che alcuni partiti sono in linea di principio favorevoli a concedere maggiore autonomia alle regioni, ma non seguendo le regole decise dall’attuale governo.

Punto per punto, vediamo che cosa prevede il disegno di legge sull’autonomia differenziata approvato definitivamente dalla Camera e quali saranno i passaggi futuri.

Che cosa dice la Costituzione

Il rapporto e la divisione dei poteri tra lo Stato e le regioni sono piuttosto complessi. L’articolo 117 della Costituzione stabilisce che lo Stato, e quindi il governo centrale, ha il potere esclusivo di legiferare – ossia di fare le leggi – su 16 materie, dalla politica estera all’immigrazione. Il potere di fare leggi su altre 20 materie è invece definito “concorrente” dalla Costituzione: come suggerisce il nome, questo significa che sia le regioni sia lo Stato possono legiferare sullo stesso ambito. Tra le materie di competenza “concorrente” ci sono la tutela della salute, la valorizzazione dei beni culturali e la protezione civile. L’articolo 117 aggiunge poi che alle regioni spetta il potere di fare le leggi su tutte quelle materie che non sono di competenza «espressamente riservata» allo Stato.

La Costituzione dà la possibilità alle singole regioni di modificare i propri rapporti con lo Stato. Il terzo comma dell’articolo 116 della Costituzione, infatti, stabilisce che le regioni possono chiedere di avere «condizioni particolari di autonomia» nella gestione delle 20 materie su cui può legiferare insieme allo Stato, e nella gestione di altre tre materie tra quelle che sono di competenza esclusiva dello Stato (l’organizzazione della giustizia di pace, le norme generali sull’istruzione, e la tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali). La concessione di maggiore autonomia delle regioni che ne fanno richiesta può avvenire solo con una legge dello Stato, approvata a maggioranza assoluta dal Parlamento (ossia dalla metà più uno dei parlamentari), sulla base di un’intesa tra lo Stato e la regione interessata. Questo procedimento deve avvenire poi nel rispetto dell’articolo 119, che impegna lo Stato a rimuovere le disuguaglianze territoriali.

Per evitare confusione, è bene ribadire che queste regole non sono state stabilite dalla nuova legge approvata il 19 giugno dalla Camera, che non ha modificato in nessun punto la Costituzione. Quest’ultima, nella parte relativa ai rapporti tra lo Stato e le regioni, è stata modificata dal Parlamento oltre vent’anni fa, a marzo 2001, durante il secondo governo di Giuliano Amato, supportato da una maggioranza di centrosinistra. Successivamente la riforma è stata confermata a ottobre 2001 con un referendum costituzionale. Dunque, a differenza di quanto detto negli scorsi mesi da alcuni politici, se si volesse organizzare un referendum contro la legge approvata dal Parlamento, bisognerebbe organizzare un referendum abrogativo, e non un referendum costituzionale.

Gli obiettivi della nuova legge

Veniamo così al contenuto del disegno di legge appena approvato dal Parlamento (qui è disponibile il testo ufficiale della legge, qui un dossier del Parlamento che spiega nel dettaglio i vari articoli). 

La nuova legge definisce (art. 1) i «principi generali» da seguire per assegnare maggiore autonomia alle regioni che ne fanno richiesta, nel rispetto del già citato articolo 116 della Costituzione. In più, fissa la procedura con cui dovranno essere approvate le eventuali intese tra lo Stato e le regioni che vogliono più autonomia su alcune materie. Come abbiamo visto, l’articolo 116 della Costituzione dice che le regioni a statuto ordinario possono chiedere più autonomia su alcune materie (da qui il nome “autonomia differenziata”), ma dice anche che è compito della legge stabilire i principi e le procedure da rispettare per assegnare questa maggiore autonomia. 

Il comma 2 dell’articolo 1 del disegno di legge approvato dal Parlamento specifica una cosa importante, su cui si discute da anni a proposito di autonomia. La nuova legge stabilisce che alle regioni può essere concessa maggiore autonomia solo dopo che siano stati determinati i cosiddetti “livelli essenziali delle prestazioni”, un’espressione spesso abbreviata con la sigla “LEP”. Tra i LEP, spiega la Costituzione, rientrano tutti quei «diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale». 

In parole semplici, dalla sanità all’istruzione, passando per i trasporti, i LEP comprendono tutti quei servizi che lo Stato deve ritenere indispensabili per tutti i cittadini, senza distinzioni sul territorio in cui vivono, dal Nord al Sud, dal Centro alle Isole.

La questione dei LEP

Ma come si determinano i LEP? Questa è una questione annosa, di cui si parla da parecchio tempo. L’articolo 3 del disegno di legge sull’autonomia differenziata approvato definitivamente dalla Camera stabilisce la procedura per cercare di risolvere questo problema e determinare i livelli essenziali delle prestazioni. 

Entro due anni dall’entrata in vigore della nuova legge, il governo dovrà stabilire i LEP con uno o più decreti legislativi, ossia quei provvedimenti con cui il governo può legiferare dopo aver ricevuto la delega dal Parlamento. In questo caso, la delega è stata data dal Parlamento proprio con l’approvazione definitiva del disegno di legge sull’autonomia differenziata.

Nel determinare i LEP, il governo dovrà seguire i principi e i criteri fissati dalla prima legge di Bilancio del governo Meloni, quella per il 2023, approvata alla fine del 2022. Questa legge di Bilancio ha istituito la “Cabina di regia per la determinazione dei LEP”, presieduta dal presidente del Consiglio e composta da alcuni ministri. Questo organismo ha vari compiti, tra cui l’individuazione delle materie riferibili ai LEP. Per supportare il lavoro della Cabina di regia, a marzo 2023 il ministro Calderoli ha nominato il “Comitato per l’individuazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali” (CLEP), con 61 esperti presieduti dall’ex giudice della Corte Costituzionale Sabino Cassese. 

Alla fine di ottobre 2023 il Comitato ha pubblicato un rapporto, lungo più di 140 pagine, con le conclusioni del proprio lavoro. Nell’introduzione di questo rapporto, Cassese ha sottolineato le difficoltà incontrate dagli esperti nel determinare con precisione che cosa siano i LEP, usando parole che rendono l’idea della complessità dell’argomento. «La scarsa chiarezza, talvolta anche semplicemente linguistica, la frammentarietà degli interventi legislativi e la varietà delle pronunce della giurisprudenza, specie costituzionale, in tema di individuazione dei LEP determinano la difficoltà di operare una definizione completa, materia per materia, ambito per ambito, di ciascun livello essenziale delle prestazioni», ha scritto Cassese. «L’attività svolta può dunque definirsi come un’esplorazione “in terre incognite”, collocate tra previsioni normative più o meno parziali, interpretazioni giurisprudenziali, veri e propri vuoti di disciplina, indicazioni rinvenibili al più solo implicitamente. Esplorazione nella quale si è ritenuto opportuno preferire la valorizzazione del confronto di opinioni, studi, orientamenti diversificati, via via emersi, con l’obiettivo di valorizzare la pluralità dei punti di vista, quale strumento più efficace per adempiere al compito assegnato, quello di offrire un’analisi istruttoria quanto più completa e ampia possibile».

Tra le altre cose, il Comitato guidato da Cassese ha proposto una distinzione tra le materie per cui è necessario determinare i LEP e quelle per cui questa necessità non esiste. Nello stabilire questa distinzione, il Comitato ha deciso di escludere dalla determinazione dei LEP le materie che «non sono configurabili come prestazioni in favore dei cittadini, perché attengono a funzioni regolatorie e di controllo»; le materie che «non sono associabili alla tutela dei fondamentali diritti civili e sociali», e le materie che «non contemplano spazi di autonomia legislativa e funzioni amministrative che possano esigere la determinazione di livelli essenziali». Le materie che secondo il Comitato non hanno conseguenze dirette sui LEP sono nove sulle 23 su cui le regioni possono chiedere maggiore autonomia. Tra le materie escluse ci sono, per esempio, «i rapporti internazionali e con l’Unione europea delle regioni» e la protezione civile. 

Ma al di là del problema fondamentale di definire che cosa rientra o meno tra i LEP, rimane aperta la questione economica. Come ha sottolineato in un’audizione in Senato la Banca d’Italia, «la definizione dei LEP non implica tuttavia che le prestazioni individuate come essenziali siano adeguatamente finanziate ed effettivamente erogate su tutto il territorio nazionale». E la nuova legge sull’autonomia differenziata approvata dalla Camera stabilisce (art. 4) che alle regioni può essere concessa maggiore autonomia se non ci siano maggiori costi a carico dello Stato. Se invece questi costi ci sono, la concessione di maggiore autonomia può avvenire solo dopo l’entrata in vigore di provvedimenti legislativi che stanzino le risorse economiche necessarie a far fronte ai maggiori costi. Per quanto riguarda l’autonomia relativa a materie che non sono collegate ai LEP, invece, questa può essere concessa solo nei limiti delle risorse economiche già a disposizione dello Stato.

La procedura per concedere più autonomia

Ora che la nuova legge sull’autonomia differenziata è stata approvata definitivamente, non significa automaticamente che le regioni che lo vorranno avranno subito maggiori poteri nella gestione di materie a loro piacimento. Come abbiamo anticipato, la Costituzione prevede che le regioni che vogliono più autonomia devono trovare un’intesa con lo Stato. E la legge approvata dal Parlamento stabilisce (art. 2) appunto il procedimento da seguire per approvare queste intese.

Come prima cosa, le regioni a statuto ordinario che vogliono più autonomia devono deliberare la richiesta da presentare al governo centrale. In seguito questa richiesta deve essere presentata al presidente del Consiglio e al ministro per gli Affari regionali e le Autonomie, che ha il compito di avviare le trattative con le singole regioni. Il negoziato inizia al più tardi dopo due mesi e dopo che i ministeri competenti nelle materie su cui è richiesta maggiore autonomia hanno espresso le loro valutazioni. 

Per le materie che riguardano i LEP, il negoziato si svolge su ogni singola materia e, per «tutelare l’unità giuridica» del Paese e l’unità di «indirizzo rispetto a politiche pubbliche prioritarie», il governo può decidere di limitare il negoziato solo su alcune materie. In seguito, il Consiglio dei ministri deve approvare uno schema di intesa preliminare tra lo Stato e la singola regione che chiede più autonomia, che deve essere trasmesso alla cosiddetta “Conferenza unificata”. Questo organismo è composto da rappresentanti delle regioni, delle province e dei comuni ed entro sessanta giorni deve esprimere un proprio parere sullo schema. Successivamente, lo schema dell’intesa passa al Parlamento, dove le commissioni competenti avranno novanta giorni di tempo per esprimersi a riguardo. Dopo questi passaggi, l’intesa preliminare tra lo Stato e la regione torna in Consiglio dei ministri per scrivere l’accordo definitivo. Se il presidente del Consiglio di turno decide di non rispettare, in tutto o in parte, le indicazioni della Camera e del Senato, deve recarsi in Parlamento e motivare la sua decisione. Superati questi passaggi, si ritorna al punto iniziale, con la regione che deve esprimersi sull’intesa raggiunta con lo Stato.

Passati 45 giorni dall’eventuale via libera della regione, il Consiglio dei ministri approva l’intesa finale, il cui percorso non si esaurisce però così. Infatti, in base alla nuova legge sull’autonomia differenziata, serve poi che sia la Camera sia il Senato approvino un disegno di legge per confermare l’accordo siglato tra lo Stato e la regione. Come abbiamo visto, in base alla Costituzione questo disegno di legge deve essere approvato a maggioranza assoluta dei componenti della Camera e del Senato, ossia dalla metà più uno dei deputati e dei senatori. Ma qui si apre un problema di interpretazione. 

In base all’articolo 116 della Costituzione, la legge che dà maggiore autonomia alla regione che ne fa richiesta deve essere approvata «sulla base di intesa fra lo Stato e la regione interessata». Questa formulazione ha però «ampi margini interpretativi», ha sottolineato un dossier della Camera. Secondo alcuni, il disegno di legge approvato dal Parlamento deve recepire semplicemente il contenuto dell’intesa sottoscritta tra il governo e la regione. Questa interpretazione è stata quella più diffusa fino ad alcuni anni fa, quando le regioni Lombardia e Veneto (amministrate dal centrodestra) e l’Emilia-Romagna (amministrata dal centrosinistra) hanno siglato accordi preliminari con l’allora governo Gentiloni (Partito Democratico) per ricevere maggiore autonomia. «Successivamente le posizioni sono divenute maggiormente articolate», ha evidenziato il già citato dossier della Camera, sottolineando quindi che il Parlamento potrà eventualmente modificare il disegno di legge sull’intesa.

La durata degli accordi

Una volta concluso questo lungo percorso, l’intesa tra una regione e lo Stato non ha una scadenza indefinita nel tempo. La legge approvata dal Parlamento, infatti, stabilisce (art. 7) che negli accordi dovrà essere specificata la durata dell’intesa, che in ogni caso non potrà essere superiore ai dieci anni. Gli stessi accordi, una volta approvati, potranno comunque essere modificati o cessati prima della loro scadenza. Se vorrà rinnovare l’accordo, la regione dovrà fare richiesta allo Stato dodici mesi prima della sua scadenza. 

La nuova legge sull’autonomia differenziata ha previsto poi alcune forme di controllo per valutare gli effetti dell’intesa a livello economico. Sarà creata (art. 5) una “Commissione paritetica Stato-Regione-Autonomie locali”, che avrà il compito di fare proposte su come individuare i beni e le risorse umane e finanziarie necessarie per esercitare, da parte della regione, le nuove forme di autonomia concessagli dallo Stato. Ogni anno questa commissione dovrà monitorare (art. 8) gli oneri finanziari che sono derivati dall’intesa tra lo Stato e la singola regione, nel rispetto degli obiettivi di finanza pubblica e garantendo l’equilibrio di bilancio. Anche la Corte dei Conti avrà un ruolo di monitoraggio: ogni anno dovrà riferire in Parlamento sui risultati dei suoi controlli a livello finanziario.

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