Le affermazioni di Grillo sull’Argentina sono in parte vere e in parte false: il rischio è quindi di restituire un quadro parziale della situazione attuale e di fare confusione. Cerchiamo quindi di fare un po’ di chiarezza, partendo dai fatti.



Come molti sanno, la lunga crisi economica che aveva colpito l’Argentina nella seconda metà degli anni ’90 aveva ridotto il Paese in ginocchio: il Pil si era contratto del 20% in quattro anni; la disoccupazione aveva toccato il 25% e il peso, dopo essere stato disancorato dal dollaro statunitense e lasciato libero di fluttuare, si era deprezzato del 70%. Il governo di Buenos Aires si vedeva così costretto, nel 2001, a dichiare l’insolvenza sul proprio debito sovrano (i celeberrimi “Tango bond”), offrendo un significativo haircut del proprio debito sovrano agli investitori internazionali.



A partire dal 2003 l’attuazione di politiche economiche espansive e l’aumento dei prezzi dei beni di prima necessità (di cui l’Argentina è tra i primi esportatori al mondo, dall’agricoltura all’allevamento) propiziavano una decisa inversione di tendenza del Pil, che cresceva del 9% annuale fino al 2007, per poi subire una decelerazione in occasione della crisi globale del 2008 e infine riprendersi a partire dal 2010, tornando a crescere intorno al 9% annuo. Questo trend permetteva la creazione di circa 5 milioni di posti di lavoro, l’incentivazione dei consumi interni e degli investimenti fissi. Nel 2010, inoltre, il governo argentino intraprendeva l’ultima fase di rimborso nei confronti dei propri creditori, tuttora in corso.



Non è tutto oro quel che luccica, però. Prima di tutto l’Argentina è il primo Paese per numero di cause pendenti presso l’ICSID del Fondo Monetario Internazionale (il Centro Internazionale per il Regolamento delle Controversie sugli Investimenti): il default, infatti, ha isolato per molti anni l’Argentina dal mercato internazionale dei capitali. Per ottenere risorse con cui finanziare la spesa pubblica il governo di Buenos Aires è stato quindi costretto a prelevare circa 6.6 miliardi di dollari dalle riserve della Banca Centrale e a nazionalizzare molte delle aziende che erano state privatizzate nel corso degli anni ’90, come il servizio postale nazionale, l’acquedotto di Buenos Aires e la compagnia aerea nazionale. Non ci risulta, al contrario di quanto sostiene Grillo, che siano state nazionalizzate le banche, bensì i fondi pensione, per un ammontare di circa 24 miliardi di dollari. Numerose, inoltre, le pressioni politiche del Governo Kirchner sulle compagnie multinazioni, “invitate” a non pagare i dividendi ai propri azionisti per frenare l’esportazione di capitali, pena la nazionalizzazione degli asset argentini (è il caso di di Enel-Endesa e del più celebre Repsol-Ypf, conclusosi con la nazionalizzazione).



L’inflazione ufficiosa galleggia intorno al 25%, a differenza di quella ufficiale che risulta intorno al 10%, e la compravendita al mercato nero di dollari statunitensi è tra le attività più diffuse. Le statistiche ufficiali dell’Indec sono tutto tranne che affidabili e l’Economist ha addirittura espunto l’ente statistico nazionale argentino dalle proprie fonti. Per l’anno in corso, inoltre, molti analisti indipendenti prevedono una brusca frenata del Pil, la cui crescita dovrebbe scendere al 2,2%. I conti pubblici sono destinati inoltre a presentare decisi segnali di peggioramento, sia per quanto riguarda il deficit che il debito, a causa delle numerose nazionalizzazioni e della generosa politica di sussidi pubblici a settori come trasporti, energia e housing sociale.



Non ci risulta inoltre che la signora Kirchner si sia presentata di recente presso il Fondo Monetario Internazionale con un assegno da 12 miliardi di euro, per estinguere il debito del suo Paese con un anticipo di 16 mesi. Forse Beppe Grillo confonde due episodi, mischiandoli insieme… Il primo risale al 2006, quando il governo argentino trasferì al Fmi, tramite la Banca Internazionale dei Pagamenti, una somma di circa 9 miliardi e mezzo di dollari, pari a circa l’8% del debito totale allora dovuto. Per altro, all’epoca, la signora Fernandez era “solo” senatrice, mentre era suo marito, Nestor Kirchner, ad essere presidente. Il secondo risale effettivamente all’agosto del 2012, ma riguarda il pagamento della tranche finale di 2,2 miliardi dollari sulle obbligazioni emesse nei confronti dei risparmiatori che, nel 2002, si videro congelare dal Governo argentino i propri conti bancari denominati in dollari. Non si trattava di 12 miliardi di dollari (ma “solo” 2,2) e non si trattava di FMI (Christina Kirchner parlava dalla Borsa di Buenos Aires). Senza contare, per inciso, che la sede del Fmi non è a New York, ma a Washington.



Insomma, la situazione è decisamente complicata e l’Argentina non sembra essere il Bengodi che molti esponenti della contro-Informazione pensano. I governi argentini succedutisi dopo il default del 2001 sembrano aver restituito al Paese una parvenza di normalità (dopo le scene di guerriglia urbana coincidenti con i giorni più bui della crisi economica), ma ricordiamoci che nessun pasto è gratis e che il conto, in questo caso di un menu a base di inflazione e spesa pubblica allegra, non tarda mai ad arrivare…



Beppe Grillo ha fatto un po’ di confusione: lo lasciamo andare con un “Nì”, vista la difficoltà della materia.