Il 20 aprile l’ex presidente del Consiglio e attuale commissario europeo agli Affari economici Paolo Gentiloni (Partito democratico) ha commentato su Twitter il forte calo del prezzo del petrolio di questi giorni, scrivendo che «45 anni fa di fronte alla crisi del petrolio la Comunità europea fece un’emissione di bond comunitari».

Il riferimento di Gentiloni è al dibattito delle ultime settimane, dove alcuni Paesi europei – come Italia, Francia e Spagna – si sono schierati a favore della creazione di obbligazioni a livello europeo (chiamate anche “coronabond” o “eurobond”) per fare fronte all’emergenza coronavirus. Questa ipotesi ha però finora incontrato le opposizioni di altri Stati, come Germania e Paesi Bassi.

Ma è vero, come dice Gentiloni, che già 45 anni fa furono emessi titoli di Stato comunitari? Abbiamo verificato.

Crisi del petrolio ed Europa negli anni Settanta

Alla fine del 1973 i consumi mondiali di petrolio, in crescita costante da diversi anni, subirono un forte rallentamento per una serie di concause, dall’aumento del prezzo del greggio a diversi sconvolgimenti sul piano geopolitico internazionale.

Questo insieme di eventi è meglio noto con il nome di “prima crisi energetica” – seguita a pochi anni di distanza da una seconda crisi, alle fine del 1979 – che ebbe gravi ripercussioni sull’economia mondiale, in particolare sui Paesi membri dell’Ocse.

All’epoca, ricordiamo, non esisteva ancora l’Unione europea così come la conosciamo oggi, che sarebbe stata formalmente istituita solo nel 1992, circa 20 anni dopo.

A metà degli anni Settanta però – il periodo a cui fa riferimento Gentiloni – esistevano le Comunità europee, ossia la Comunità europea del carbone e dell’acciaio (Ceca), la Comunità economica europea (Cee) e la Comunità europea dell’energia atomica (Euratom), nate tra il 1951 e il 1957 per mano di sei Paesi: Italia, Germania Ovest, Francia, Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo. Nel 1973 ci fu poi il primo allargamento, con l’ingresso nelle Comunità europee di Danimarca, Irlanda e Regno Unito.

Nel 1965 era stato invece siglato il Trattato di fusione, con cui vennero istituiti una Commissione unica e un Consiglio unico per le tre comunità europee appena viste, mentre la “Assemblea” – che sarebbe diventata poi il Parlamento europeo nel 1962 – era già un organo comune alle tre comunità dal 1957.

Che cosa decisero i Paesi europei

A metà degli anni Settanta, dunque, è vero che – come dice Gentiloni – tra le misure prese dalle istituzioni europee per aiutare i Paesi in crisi a causa della crisi del petrolio ci fu anche l’emissione di titoli di debito comunitari?

La risposta in breve è sì. Ne parla un recente report, pubblicato lo scorso 6 aprile dal think tank tedesco Kiel Institute for the World Economy (Ifw Kiel), che racconta cosa fece la Comunità europea durante la primi crisi energetica, confrontando quella situazione con quella odierna.

Gli autori del report spiegano che nel febbraio 1975 fu creato un nuovo strumento comunitario per emettere titoli di debito sui mercati privati per supportare gli Stati in difficoltà, il cosiddetto Community loans mechanism (Clm, traducibile in italiano come il “Meccanismo di prestito comunitario”),

Questo Clm affiancava così l’European medium-term financial assistance facility (Mtfa), un altro meccanismo di sostegno monetario creato nel 1971 e basato su prestiti tra governi.

L’obiettivo principale del Clm, si legge nel rapporto dell’Ifw Kiel, «era quello di attutire gli shock esterni attraverso una cooperazione finanziaria intra-europea e di fornire aiuti ai Paesi in crisi in Europa per limitare la loro dipendenza dai prestiti del Fondo monetario internazionale e della Banca centrale statunitense».

Un grafico realizzato dagli autori del report spiega quale era la struttura e la procedura dei prestiti comunitari in questione, erogati dal 1975 in poi dalla Commissione europea.

Su iniziativa di uno o più Paesi, l’allora Consiglio dei ministri che rappresentava gli Stati membri decideva all’unanimità di aiutare un Paese in crisi nella bilancia dei pagamenti – un indicatore che registra gli scambi economici di un Paese con il resto del mondo – e sotto quali condizioni.

I prestiti venivano poi trasferiti alle banche centrali di chi contraeva il debito attraverso la Banca dei regolamenti internazionali (Bis), che esiste ancora tutt’oggi.

«Il Consiglio delibera sul principio e sulle condizioni di erogazione di prestiti a uno o a più Stati membri nonché sulle condizioni di politica economica, atte ad assicurare il risanamento della bilancia dei pagamenti, che lo o gli Stati membri beneficiari dovranno rispettare», si leggeva nel regolamento Cee del 1975 che istituì il Clm.

Da dove venivano le risorse

Chi metteva i soldi? I titoli di debito emessi per raccogliere le risorse da dare in prestito erano garantiti dal budget comunitario, a cui si aggiungeva un meccanismo di garanzie sostenuto dai singoli Paesi membri.

«Se un Paese in crisi non fosse riuscito a rispettare i suoi impegni con la Comunità, gli altri Stati membri avrebbero garantito il ripagamento del debito con i loro creditori privati sulla base di quote fisse», spiega il report dell’Ifw Kiel.

Queste quote erano del 22,02 per cento per Germania, Francia e Regno Unito, del 14,68 per cento per l’Italia, del 7,34 per cento per Belgio, Lussemburgo e Paesi Bassi, del 3,30 per cento per la Danimarca e dell’1,28 per cento per l’Irlanda.

Alla sua nascita il Meccanismo di prestiti comunitari aveva un limite di prestito pari a 3 miliardi di dollari (equivalenti a circa 15 miliardi di dollari dei giorni nostri). Inoltre i Paesi “garanti” potevano sospendere le loro garanzie se si fossero trovati anche loro in difficoltà economica.

Negli anni Settanta Italia e Irlanda furono gli unici due Paesi a ricorrere ai prestiti del Clm, seguiti dalla Francia nel 1983 e dalla Grecia nel 1985. Con una decisione del Consiglio del 15 marzo 1976, il nostro Paese ottenne un prestito di circa un miliardo di dollari, nel rispetto però di determinate «condizioni di politica economica».

Per esempio, in cambio del prestito, il Consiglio aveva stabilito che le spese totali dello Stato italiano a tutto il 1976 dovevano essere limitate a 39.700 miliardi di lire, mentre il «disavanzo delle operazioni del Tesoro» non doveva superare i 13.800 miliardi di lire, «facendo ricorso, se occorre, ad un aumento della pressione fiscale».

Nel 1974, il nostro Paese aveva invece fatto ricorso all’European medium-term financial assistance facility, citato in precedenza, per un prestito di circa 1,4 miliardi di dollari, oltre che e al Fondo monetario internazionale e alla Bundesbank tedesca.

Secondo gli autori del rapporto dell’Ifw Kiel, il Meccanismo di prestito comunitario dimostrerebbe – con i dovuti distinguo – che «l’introduzione dei cosiddetti “coronabond” non sarebbe una cosa senza precedenti».

Quali sono le somiglianze e le differenze con la situazione odierna, a cui fa anche richiamo Gentiloni?

Di che cosa si parla quando si parla di coronabond

Ad oggi non è ancora chiaro nei dettagli che cosa si intenda quando si parla di coronabond, o più in generale di eurobond.

Il 25 marzo, in una lettera inviata dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte al al Presidente del Consiglio europeo Charles Michel, e firmata da altri Paesi come Francia e Spagna, si legge: «Dobbiamo lavorare su uno strumento di debito comune emesso da una istituzione dell’Ue per raccogliere risorse sul mercato sulle stesse basi e a beneficio di tutti gli Stati Membri, garantendo in questo modo il finanziamento stabile e a lungo termine delle politiche utili a contrastare i danni causati da questa pandemia».

Ed è su queste parole che si sono sviluppate le trattative in ambito europeo, che hanno portato il 9 aprile l’Eurogruppo a proporre al Consiglio europeo (che si riunirà il prossimo 23 aprile) di istituire, tra le altre cose, il cosiddetto Recovery Fund, un fondo per la ripresa temporaneo da finanziare con il budget europeo, e una nuova linea di credito del Meccanismo europeo di stabilità (Mes), a condizione di spendere i prestiti per le spese sanitarie dirette e indirette.

Al momento i singoli Paesi Ue si finanziano il proprio debito pubblico con risorse proprie, raccolte sui mercati a rendimenti diversi. Chi presta soldi all’Italia, in questo momento, chiede per esempio interessi più alti rispetto a quelli della Germania, perché il nostro Paese è visto come più a rischio.

All’opposto, discorso ben diverso sarebbe se si potessero emettere titoli di debito comuni, a livello europeo, con tassi di interesse uguali per tutti gli Stati.

C’è però un ostacolo non da poco lungo questa strada: «La condizione necessaria per poter emettere titoli di debito comuni è la mutualizzazione del debito di tutti gli Stati membri, ovvero la messa in comune delle passività dei singoli bilanci», ha specificato Il Sole 24 Ore in un articolo del 14 aprile 2020.

Al momento infatti l’Ue non è dotata di una vera e propria istituzione (una sorta di “Tesoro europeo”) per emettere titoli di debito come fanno gli equivalenti nazionali. Il Recovery Fund potrebbe però essere un primo passo verso questa direzione.

Su sostanza e nomi, ad oggi non manca solo l’accordo tra i leader europei ma anche tra gli economisti. Secondo alcuni, infatti, i coronabond di cui si parla in questi giorni sarebbero molto simili ai prestiti forniti dal Mes.

Questo, come abbiamo scritto di recente, dipende se con eurobond si intendano strumenti che mettano in comune (“mutualizzino”, appunto) il debito così formato con l’emissione di titoli a livello europeo oppure lo mantengano distinto.

Con un paragone tra la situazione degli anni Settanta e oggi, possiamo dire che anche all’epoca, con il Community loans mechanism, non era stata adottata la mutualizzazione del debito, anche se con quel meccanismo gli Stati membri garantivano i debiti contratti dai Paesi in crisi.

Da un certo punto di vista, il Meccanismo di prestiti comunitari era simile all’attuale Mes, con la significativa differenza che i prestiti erano direttamente garantiti dagli Stati.

Il verdetto

Secondo Paolo Gentiloni, «45 anni fa di fronte alla crisi del petrolio la Comunità europea fece un’emissione di bond comunitari». È vero, l’ex presidente del Consiglio ha ragione.

Nel 1975, durante la prima crisi energetica, fu istituito un meccanismo di prestiti comunitari che tramite l’emissione di titoli di debito garantiti dagli Stati membri delle Comunità europee aveva lo scopo di aiutare i Paesi in difficoltà per la crisi del petrolio.

È corretto dunque parlare di «emissione di bond comunitari» come fa l’attuale commissario europeo per gli Affari economici, anche se siamo comunque distanti da una concezione di eurobond intesi come strumenti che mettano in comune il debito a livello europeo. “Vero” comunque per Gentiloni.