Perché la Corte Costituzionale ha stabilito che la legge sull’autonomia differenziata è in parte incostituzionale

Abbiamo analizzato i ricorsi delle regioni e le udienze dei loro avvocati per avere un’idea più chiara della sentenza, in attesa delle motivazioni
Pagella Politica
Almeno a parole, sia i partiti al governo sia i partiti all’opposizione hanno accolto positivamente la sentenza con cui il 14 novembre la Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionali alcune parti della legge sull’autonomia differenziata, e non tutta la legge nella sua interezza. A sostegno delle loro posizioni, entrambi gli schieramenti hanno portato motivi diversi, concordando però che per comprendere la reale portata della sentenza bisogna aspettare la pubblicazione delle sue motivazioni, attesa per metà dicembre. A oggi, infatti, la Corte Costituzionale ha riassunto il contenuto della sua sentenza solo in un comunicato stampa, in cui ha invitato il Parlamento a modificare la legge sull’autonomia differenziata. Quest’ultima – lo ricordiamo – stabilisce i principi e il percorso da rispettare per ottenere maggiore autonomia.

Prima di riassumere i punti della legge considerati incostituzionali, nel comunicato stampa la Corte Costituzionale ha sottolineato di aver interpretato l’articolo 116, terzo comma, della Costituzione – quello che regola l’attribuzione di particolari forme e condizioni di autonomia alle regioni – in una prospettiva che lo collega ai principi fondamentali della Repubblica italiana. 

In attesa delle motivazioni della sentenza, abbiamo provato ad analizzare più nel dettaglio la decisione della Corte Costituzionale: abbiamo esaminato tutti i testi dei ricorsi presentati dalle regioni contro la legge sull’autonomia differenziata e ascoltato tutte le udienze in cui gli avvocati delle regioni hanno difeso le ragioni dei ricorsi. Sulla base del comunicato stampa pubblicato dalla Corte Costituzionale, abbiamo poi valutato punto per punto quali motivazioni hanno portato alla sentenza dei giudici costituzionali, che avrà conseguenze giuridiche e politiche sul futuro dell’autonomia differenziata nel Paese. In breve, appare evidente che i giudici costituzionali abbiano accolto, seppure non necessariamente nei termini che vedremo meglio tra poco, molte delle critiche sollevate dalle regioni che hanno fatto ricorso contro la legge voluta dal governo.

Il trasferimento delle materie

La legge sull’autonomia differenziata approvata a giugno dal Parlamento prevede che una regione, per ottenere maggiore autonomia, debba prima firmare un accordo con il governo. Successivamente, questo accordo deve essere approvato dal Parlamento con una legge. Su questo punto, la Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionale la possibilità che la concessione di maggiore autonomia preveda il trasferimento alle regioni di «materie o ambiti di materie». Secondo la Corte Costituzionale, un’eventuale maggiore autonomia deve riguardare solo «specifiche funzioni legislative e amministrative». Per capirci subito, prendiamo l’esempio dell’istruzione: un conto sarebbe avere maggiore autonomia sull’intera materia, che riguarda tra le altre cose i programmi scolastici; un altro conto sarebbe avere maggiore autonomia solo su funzioni specifiche, tra cui rientra l’organizzazione dei servizi scolastici sul territorio.

L’articolo 117 della Costituzione stabilisce che lo Stato ha il potere esclusivo di fare leggi su alcune materie, tra cui ci sono la politica estera, l’immigrazione, la difesa e le norme generali sull’istruzione. Su altre materie la competenza di fare leggi è divisa tra Stato e regioni (si dice che è “concorrente”), mentre sulle materie che restano escluse questa competenza spetta solo alle regioni. Il già citato articolo 116, terzo comma, della Costituzione stabilisce che possano essere concesse «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia» tra alcune delle materie indicate dall’articolo 117. 

Nei loro ricorsi, le regioni hanno contestato l’interpretazione che la legge voluta dal governo dà alle parole “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia”. Per esempio la Regione Puglia ha sostenuto che l’articolo 116 della Costituzione consente alle regioni di ottenere autonomia, ma solo su materie specifiche e in modo limitato. Secondo il ricorso pugliese, la legge voluta dal governo consentirebbe invece una «devoluzione integrale» (ossia un trasferimento integrale) delle funzioni pubbliche relative alle materie costituzionali, violando il limite costituzionale che consente solo il trasferimento parziale di competenze. 

Con un’argomentazione simile, la Regione Campania ha sostenuto che la legge, nella parte in cui consente il trasferimento di intere materie, contrasta con il limite della «particolarità» previsto dall’articolo 116 della Costituzione. Secondo la Regione Campania, l’aggettivo «particolare» presente nel terzo comma impone «alle singole regioni di limitare la richiesta alle sole materie e funzioni strettamente connesse alla propria specificità, sempre che la richiesta sia sostenuta da prove concrete e inerenti alle peculiarità vantate».

Anche secondo la Regione Sardegna, la legge sull’autonomia differenziata dà un’interpretazione troppo ampia dell’articolo 116 della Costituzione, trasformando il trasferimento di «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia» in un trasferimento completo di competenze. «Già dal punto di vista testuale» la Costituzione «fa chiaramente riferimento a trasferimenti puntuali e limitati di competenze – “concernenti” le materie – sulle “forme” e le “condizioni” di autonomia; non, dunque, di intere materie o, addirittura, di “ambiti di materie”, senza alcun limite se non quello della “forza politica” […] tra la regione interessata e la maggioranza politica di turno», si legge nel ricorso della Regione Sardegna.

Ricapitolando: il Parlamento dovrà intervenire per permettere alle regioni di chiedere maggiore autonomia solo su specifiche funzioni, e non intere materie.

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La discrezionalità del governo

Le regioni che hanno fatto ricorso hanno criticato la legge sull’autonomia differenziata anche per l’assenza di chiari criteri che permettano di delimitare con precisione il trasferimento di competenze, lasciando ampi margini di discrezionalità al governo. 

La Regione Puglia ha sottolineato che la legge «si limita ad affidare al presidente del Consiglio la delimitazione del perimetro della devoluzione, non comprendendo che una “garanzia” […] politica non equivale […] all’indispensabile definizione giuridica dei limiti». Questo creerebbe, appunto, il rischio di scelte arbitrarie, perché il governo di turno potrebbe scegliere liberamente se e quali competenze dello Stato trasferire a una regione. Discorso simile vale per la Regione Campania, secondo cui nessuna delle disposizioni contenute nella legge «prescrive un qualsivoglia obbligo motivazionale […] né alcun collegamento con le specificità della singola regione.»

Sia la Regione Puglia sia la Regione Campania hanno rilevato che il trasferimento illimitato delle competenze potrebbe compromettere i principi costituzionali di unità e solidarietà determinando, come ha osservato il ricorso pugliese, «necessariamente un’intollerabile frattura dell’ordinamento». La Sardegna ha aggiunto che il modello proposto dalla nuova legge stravolge il regionalismo binario previsto dalla Costituzione, determinando «una forte competitività tra le regioni […] in disprezzo al principio solidaristico e ostative alla realizzazione del principio di eguaglianza sostanziale». 

Tutte le regioni ricorrenti hanno poi criticato la mancata considerazione delle condizioni sociali ed economiche delle aree richiedenti. Come ha osservato la Regione Puglia, «una regione può avere accesso all’autonomia particolare […] solo ove il contesto sociale della comunità locale lo richieda». Dunque, come detto, sulla base di queste argomentazioni, la Corte Costituzionale ha stabilito che l’autonomia concessa alle regioni che ne fanno richiesta potrà riguardare solo «specifiche funzioni legislative e amministrative».

La determinazione dei LEP

Nei loro ricorsi, le Regioni Puglia, Campania e Sardegna hanno contestato alcuni commi dell’articolo 3 della legge sull’autonomia differenziata. Questo articolo dà al governo il potere di stabilire i cosiddetti “livelli essenziali delle prestazioni” (LEP). Tra i LEP rientrano tutti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti sul territorio nazionale, da Nord a Sud. La critica principale riguarda l’assenza di principi e criteri direttivi sufficienti per vincolare l’esercizio della delega, che secondo le regioni ricorrenti è quindi una «delega in bianco».

Dal comunicato stampa pubblicato dalla Corte Costituzionale, si evince che in linea di massima questa obiezione è stata accolta dai giudici costituzionali. Secondo la Corte, infatti, è incostituzionale «il conferimento di una delega legislativa per la determinazione dei LEP priva di idonei criteri direttivi, con la conseguenza che la decisione sostanziale viene rimessa nelle mani del governo, limitando il ruolo costituzionale del Parlamento». Ma entriamo più nel dettaglio nelle motivazioni portate avanti dalle regioni.

La Regione Puglia ha evidenziato che l’articolo 3 della legge sull’autonomia differenziata, per quanto riguarda i principi da seguire nel determinare i LEP, rimanda ai principi già elencati nella legge di Bilancio per il 2023, la prima approvata dal governo Meloni, alla fine del 2022. Secondo la regione, questa legge non offre alcuna indicazione concreta: «non solo non si rinviene alcun principio o criterio direttivo idoneo a vincolare l’attività governativa di individuazione dei LEP, ma figurano previsioni […] persino in distonia con la stessa previsione della delega legislativa».

Il ricorso pugliese ha criticato un altro aspetto della legge sull’autonomia differenziata, che permette di aggiornare i LEP attraverso i decreti del presidente del Consiglio (Dpcm), ritenendolo in contrasto con il principio di legalità e con la riserva di legge prevista dall’articolo 23 della Costituzione. Quest’ultimo stabilisce che «nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge». Secondo la Regione Puglia, dando al governo il potere di aggiornare i LEP con i Dpcm, «si conferisce all’Esecutivo un potere discrezionale privo di qualsivoglia delimitazione per legge».

Anche la Regione Campania ha sottolineato l’assenza di criteri direttivi nella delega al governo per determinare i LEP, ravvisando una violazione dell’articolo 76 della Costituzione. Questo articolo stabilisce che «l’esercizio della funzione legislativa non può essere delegato al governo se non con determinazione di principi e criteri direttivi e soltanto per tempo limitato e per oggetti definiti». La Regione Sardegna ha invece criticato il fatto che i Dpcm non possono essere contestati davanti alla Corte Costituzionale, essendo atti amministrativi: questo, a detta sua, priverebbe le regioni di garanzie democratiche, come l’attivazione di un referendum abrogativo.
Il ministro per gli Affari regionali e le Autonomie Roberto Calderoli (Lega) ANSA/MAURIZIO BRAMBATTI
Il ministro per gli Affari regionali e le Autonomie Roberto Calderoli (Lega) ANSA/MAURIZIO BRAMBATTI

La compartecipazione al gettito

Nel comunicato stampa la Corte Costituzionale ha scritto che è incostituzionale «la possibilità di modificare, con decreto interministeriale, le aliquote della compartecipazione al gettito dei tributi erariali, prevista per finanziare le funzioni trasferite, in caso di scostamento tra il fabbisogno di spesa e l’andamento dello stesso gettito». I giudici costituzionali hanno aggiunto che in base a questa norma, prevista dalla legge sull’autonomia differenziata, «potrebbero essere premiate proprio le regioni inefficienti, che, dopo aver ottenuto dallo Stato le risorse finalizzate all’esercizio delle funzioni trasferite, non sono in grado di assicurare con quelle risorse il compiuto adempimento delle stesse funzioni». 

In parole semplici, secondo la Corte Costituzionale non va bene che, attraverso un decreto approvato da più ministeri, lo Stato possa cambiare le percentuali di tasse che lo Stato gira alle regioni per finanziare le loro attività, nel caso in cui i soldi dati a una regione non bastassero per coprire le spese da affrontare. In questo modo, secondo la Corte, si rischierebbe di premiare le regioni che non gestiscono nel modo corretto i soldi che hanno a disposizione. Questa critica era contenuta, con sfumature diverse, proprio nei ricorsi presentati dalle regioni.

Secondo la Regione Puglia, la legge sull’autonomia differenziata vìola l’articolo 81 della Costituzione, in base al quale «lo Stato assicura l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio». Il ricorso pugliese ha sottolineato che la procedura voluta dal governo è priva di una solida copertura finanziaria e di un’istruttoria tecnica adeguata. Nello specifico, la Regione Puglia ha contestato che nella relazione tecnica, allegata al disegno di legge presentato dal governo in Parlamento, sono presenti solo dichiarazioni generiche. Questo, a detta sua, sarebbe in contrasto con quanto dichiarato dalla Corte Costituzionale in una sentenza del 2020, che imposto che «le clausole di invarianza della spesa devono essere giustificate da puntuali relazioni o documenti esplicativi».

La Regione Campania ha sollevato critiche simili, evidenziando che il sistema di compartecipazione favorisce le regioni con maggiore capacità fiscale. Questo creerebbe disparità di trattamento, in violazione dell’articolo 3 della Costituzione, che garantisce parità di accesso ai diritti fondamentali. La clausola di invarianza finanziaria contenuta nell’articolo 9 della legge approvata dal Parlamento è definita come meramente «formale» dalla Regione Campania, poiché sarebbe «inverosimile» che «al trasferimento di funzioni a una regione non si accompagni un incremento dei costi». In più, la Regione Sardegna ha sottolineato che il meccanismo delineato dalla legge compromette il principio di solidarietà tra le regioni previsto dall’articolo 119 della Costituzione

In generale, secondo le regioni che hanno fatto ricorso la legge sull’autonomia differenziata è contraddittoria perché cerca di coniugare obiettivi incompatibili: concedere maggiori risorse alle regioni che ottengono maggiore autonomia, finanziare i LEP, e mantenere l’invarianza finanziaria per lo Stato e le altre regioni. I ricorsi convergono nel denunciare che la configurazione della legge compromette i principi di uguaglianza sostanziale, solidarietà e sostenibilità finanziaria, aggravando le disuguaglianze territoriali e privando il sistema di garanzie costituzionali adeguate. Vedremo nelle motivazioni della sentenza in quale misura la Corte Costituzionale ha accolto tutte queste obiezioni.

Il concorso agli obiettivi di finanza pubblica

Infine, la Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionale la facoltà prevista dalla legge sull’autonomia differenziata, al posto della «doverosità», per le regioni che ottengono più autonomia di concorrere agli obiettivi della finanza pubblica. Secondo i giudici, questa facoltà – prevista dall’articolo 9 della legge – rischia di indebolire i «vincoli di solidarietà e unità della Repubblica», non essendo un obbligo. Anche questa critica era stata sollevata dalle regioni nei loro ricorsi. Per esempio, secondo la Regione Puglia l’autonomia differenziata prevista dall’articolo 116, terzo comma, della Costituzione «non consente» che la regione che ottiene più autonomia «sia per qualsiasi ragione esonerata dal contribuire al conseguimento degli oneri di finanza pubblica».

La Regione Sardegna ha criticato con ancora più forza la facoltà (e non l’obbligo) del concorso agli obiettivi di finanza pubblica per le regioni con più autonomia, sostenendo che questa facoltà vìola l’articolo 2 della Costituzione. Questo articolo stabilisce che «la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale». In pratica, secondo la Regione Sardegna la legge sull’autonomia finanziaria darebbe vita a un’«autentica secessione finanziaria». Non solo: secondo la regione, esonerare le regioni con più autonomia dal concorso agli obiettivi di finanza pubblica rischia di compromettere l’equilibrio di bilancio e la sostenibilità del debito pubblico. Come conseguenza, le altre regioni rischiano di avere oneri finanziari aggiuntivi per compensare le esenzioni concesse alle regioni con più autonomia.

In conclusione, le motivazioni della sentenza della Corte Costituzionale chiariranno ancora meglio su quali punti il Parlamento dovrà intervenire per modificare la legge sull’autonomia differenziata. Come abbiamo visto, però, sulla base del comunicato stampa, letto con i ricorsi e le udienze, sembra chiaro che i giudici costituzionali abbiano accolto buona parte delle obiezioni avanzate dalle regioni che hanno fatto ricorso. 

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