Sì, l’autonomia differenziata in Costituzione l’ha voluta il centrosinistra

Lo ha detto Giorgia Meloni, difendendo la nuova legge approvata dal Parlamento. Abbiamo controllato e la sua ricostruzione è sostanzialmente corretta
Ansa
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Il 25 giugno, con un video pubblicato sui suoi canali social, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha difeso il disegno di legge sull’autonomia differenziata approvato definitivamente dalla Camera il 19 giugno. Nel suo messaggio, Meloni ha criticato i partiti all’opposizione, oggi contrari alla nuova legge approvata dal Parlamento, dicendo che l’autonomia differenziata «non è un’invenzione del centrodestra» ma «era in già in Costituzione grazie alla sinistra».
Secondo la presidente del Consiglio, il principio che permette alle regioni di chiedere allo Stato maggiore autonomia è stato inserito nella Costituzione «con la riforma del Titolo V» varata nel 2001 e «approvata a colpi di maggioranza sotto il governo di Giuliano Amato, governo della sinistra». Meloni ha aggiunto che questa riforma della Costituzione è stato «l’approdo di un percorso iniziato addirittura nel 1997 dal governo Prodi e proseguito con i governi di Massimo D’Alema». La legge sull’autonomia differenziata presentata dal governo Meloni e approvata dal Parlamento sarebbe quindi solo «una cornice di regole» entro cui attuare in futuro l’autonomia differenziata per le regioni che ne faranno richiesta.

Punto per punto, abbiamo verificato la ricostruzione fatta dalla presidente del Consiglio che è sostanzialmente corretta.

La riforma del Titolo V

Innanzitutto è vero, come dice Meloni, che la possibilità per le regioni di ottenere ulteriori forme di autonomia è prevista dalla Costituzione. Il terzo comma dell’articolo 116 della Costituzione, infatti, stabilisce che le regioni possono chiedere di avere «condizioni particolari di autonomia» nella gestione delle 20 “materie concorrenti” su cui possono legiferare insieme allo Stato e nella gestione di altre tre materie tra quelle di competenza esclusiva dello Stato (l’organizzazione della giustizia di pace, le norme generali sull’istruzione, e la tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali).

La possibilità per le regioni di ottenere maggiori forme di autonomia è stata inserita dal Parlamento oltre vent’anni fa con la riforma del Titolo V della Costituzione. Il Titolo V è la sezione della Costituzione dedicata ai poteri e alle competenze di regioni, province e comuni, e comprende il citato articolo 116. 

Come correttamente ricordato da Meloni, la riforma del Titolo V è stata approvata a marzo 2001, durante il secondo governo di Giuliano Amato, supportato da una maggioranza di centrosinistra. All’epoca il secondo governo Amato era sostenuto dall’Ulivo, un’alleanza elettorale formata dai Democratici di Sinistra e La Margherita, dal Partito dei Comunisti Italiani e dai centristi dell’UDEUR di Clemente Mastella. Il governo Amato era nato alla fine di aprile 2000, in seguito alle dimissioni del secondo governo di Massimo D’Alema, leader dei Democratici di Sinistra, dovute alla sconfitta alle elezioni amministrative. Dunque, per chiarezza, nel 2001 il Partito Democratico non esisteva ancora, essendo nato nel 2007 dall’unione tra i Democratici di Sinistra e La Margherita, e nemmeno il Movimento 5 Stelle, fondato nel 2009. A ottobre 2001 la riforma costituzionale del Titolo V è stata poi confermata con un referendum costituzionale, con il 64 per cento di voti favorevoli (su questo punto torneremo più avanti). 

«La possibilità per le regioni di ottenere maggiori forme di autonomia è stata effettivamente introdotta con la riforma del Titolo V della Costituzione portata a termine dal secondo governo Amato, sostenuto dal centrosinistra», ha spiegato a Pagella Politica Alfonso Celotto, professore di Diritto costituzionale all’Università Roma Tre. «Bisogna comunque tenere conto che il centrosinistra ha fatto la riforma oltre vent’anni fa: c’era un altro contesto politico, quindi questi parallelismi lasciano il tempo che trovano, anche perché a mio parere una riforma costituzionale non può essere etichettata come di destra o di sinistra a prescindere».

Al di là delle opinioni su come considerare una riforma costituzionale, qual era il contesto politico in cui era stata approvata la riforma?

Il ruolo della Commissione bicamerale

La riforma costituzionale del 2001 è nata anche su spinta delle critiche della Lega Nord contro lo Stato centrale e la richiesta di maggiore autonomia per le regioni del Nord Italia da parte del partito allora guidato da Umberto Bossi. La Lega Nord è stato il partito predecessore della Lega per Salvini premier, tra i principali sostenitori del governo Meloni e della nuova legge sull’autonomia differenziata. L’influenza delle richieste della Lega Nord sulla riforma costituzionale del 2001 è stata ammessa anche da vari esponenti del centrosinistra. Per esempio, ad aprile 2020 Gianni Cuperlo, esponente del PD e prima ancora dei Democratici di Sinistra e del Partito Democratico della Sinistra, ha dichiarato: «Nel 2001 si riformò il Titolo V pensando di togliere voti alla Lega. Fu un errore e gli italiani lo hanno pagato caro».

Il referendum del 2001 è stato il punto d’arrivo di un percorso iniziato nel 1997 durante il primo governo guidato da Romano Prodi, sostenuto da una coalizione di centrosinistra che vedeva come prima forza politica il Partito Democratico della Sinistra, il partito che poi avrebbe dato vita ai Democratici di Sinistra e in seguito al PD.  

Come spiega un dossier della Camera dei deputati, nel 1997 è stata istituita una Commissione bicamerale per le Riforme costituzionali che il 30 giugno dello stesso anno ha presentato un progetto di legge che proponeva di modificare alcuni articoli della Costituzione garantendo, tra le altre cose, più autonomia alle regioni. 

La Commissione bicamerale era composta da 70 tra senatori e deputati e il suo presidente era D’Alema, all’epoca leader del Partito Democratico della Sinistra, eletto alla guida della commissione anche grazie ai voti di Forza Italia, il partito di Silvio Berlusconi. La discussione sul progetto di riforma costituzionale è iniziata a gennaio 1998, ma dopo circa sei mesi è terminata in un nulla di fatto a causa di divergenze politiche tra il centrodestra e il centrosinistra. 

A marzo 1999 D’Alema, divenuto cinque mesi prima presidente del Consiglio, ha presentato alla Camera un nuovo progetto di riforma costituzionale, che rappresentava il risultato dei lavori della Commissione bicamerale, che aveva coinvolto tutte le forze politiche. Il testo proponeva un’ampia riforma del Titolo V, sancendo di fatto il sistema attualmente in vigore. Oltre che da D’Alema, il progetto di riforma era firmato dall’allora ministro per le Riforme Istituzionali Amato. Al termine della discussione iniziale sul provvedimento, a ottobre 1999 la Commissione Affari costituzionali della Camera ha accorpato il testo con altre 19 proposte di riforma sullo stesso tema e ha prodotto un testo unificato, ossia un testo base per l’inizio effettivo della discussione sulla riforma costituzionale.

Il voto in Parlamento

Un mese dopo, a novembre 1999, la Commissione Affari costituzionali della Camera ha concluso l’esame del testo, che poi è passato all’aula, dove è stato esaminato per quasi un anno fino a essere approvato per la prima volta a settembre 2000, sotto il già citato nuovo governo guidato da Amato. La riforma era stata approvata dalla Camera con 269 voti favorevoli, undici contrari e due astenuti [1]: tra i favorevoli c’erano i partiti che sostenevano il governo Amato, mentre i partiti dell’opposizione – Forza Italia, Lega Nord e Alleanza Nazionale – non hanno partecipato al voto finale perché contrari a come la maggioranza di centrosinistra aveva impostato la riforma. Il testo è quindi passato al Senato, che lo ha approvato due mesi dopo senza modifiche. Al Senato la riforma è stata approvata con 153 voti favorevoli, tre astenuti e quattro contrari, e anche in questo caso i partiti di centrodestra non hanno partecipato al voto.

A seguire, il provvedimento è passato di nuovo alla Camera, dato che tutti i disegni di legge di riforma costituzionale per diventare legge devono essere approvati nello stesso testo due volte da entrambe le aule del Parlamento. La riforma costituzionale è stata quindi nuovamente approvata dalla Camera a febbraio 2001, e poi dal Senato a marzo dello stesso anno. Anche nelle ultime due deliberazioni, prima alla Camera [2] e poi al Senato, il testo è stato approvato con i voti favorevoli dei partiti di governo, mentre i partiti dell’opposizione di centrodestra non hanno partecipato alla votazione. La riforma ha ottenuto comunque il via libera solo con la maggioranza assoluta dei voti, e non con quella dei due terzi. Per questo motivo, a ottobre 2001 è stata sottoposta a referendum, con cui in seguito è stata definitivamente approvata. 

All’epoca del referendum, l’Italia era guidata dal secondo governo Berlusconi, sostenuto da Forza Italia, Alleanza Nazionale e Lega Nord, nato in seguito alla vittoria di Forza Italia alle elezioni politiche del 13 maggio 2001. Come anticipato, quando erano all’opposizione i partiti che sostenevano il secondo governo Berlusconi non avevano partecipato alle votazioni sulla riforma costituzionale perché contrari all’impostazione della riforma voluta dal centrosinistra. Prima del referendum di ottobre 2001, Berlusconi, leader di Forza Italia, non prese una posizione ufficiale, dando libertà di scelta ai componenti del suo partito e del governo nel referendum. Il leader della Lega Nord Bossi diede indicazione di non andare a votare, mentre l’allora leader di Alleanza Nazionale Gianfranco Fini annunciò il suo voto contrario.
Immagine 1. Un articolo del quotidiano La Stampa sulle posizioni tra i partiti di centrodestra in vista del referendum costituzionale del 2001, 1° settembre 2001 – Fonte: La Stampa
Immagine 1. Un articolo del quotidiano La Stampa sulle posizioni tra i partiti di centrodestra in vista del referendum costituzionale del 2001, 1° settembre 2001 – Fonte: La Stampa

Le critiche

Al di là dei trascorsi politici, Meloni ha quindi ragione quando sostiene che la riforma del Titolo V della Costituzione è stata voluta dal centrosinistra e che questa riforma è frutto di un percorso parlamentare iniziato dal governo Prodi, proseguito durante il governo D’Alema e ultimato sotto il secondo governo Amato. Questo però non significa che i partiti oggi all’opposizione, tra cui il Movimento 5 Stelle e il Partito Democratico, non possano legittimamente essere contrari ad alcuni aspetti specifici con cui l’attuale governo intende proseguire il percorso per dare più autonomia alle regioni. 

Essere favorevoli all’autonomia differenziata, infatti, non significa necessariamente essere favorevoli al disegno di legge presentato dal governo Meloni e approvato lo scorso 19 giugno dal Parlamento. Il disegno di legge in questione stabilisce i principi e le procedure che dovranno essere seguiti da governo e regione in un eventuale percorso per concedere maggiore autonomia a quest’ultime. Proprio questi principi e procedure sono stati criticati dai partiti all’opposizione e da alcuni costituzionalisti.

«La riforma del Titolo V del 2001, voluta dal centrosinistra, ha dato giustamente la possibilità alle regioni ordinarie di ottenere maggiori forme di autonomia», ha detto a Pagella Politica il costituzionalista Ugo De Siervo, ex presidente della Corte Costituzionale. «Ma il problema della legge voluta dal governo Meloni è che estremizza questa possibilità, stabilendo per esempio che le regioni ordinarie possano ottenere più autonomia tramite un semplice accordo con il governo, e non attraverso una legge costituzionale come previsto per l’approvazione degli Statuti delle regioni a statuto speciale», ha aggiunto il costituzionalista.

Nel dibattito parlamentare i partiti di opposizione hanno criticato soprattutto le modalità previste nel disegno di legge per determinare i cosiddetti “livelli essenziali delle prestazioni”, un’espressione spesso abbreviata con la sigla “LEP”. Tra i LEP, spiega la Costituzione, rientrano tutti quei «diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale», a prescindere dal grado di autonomia di una regione. In parole semplici, dalla sanità all’istruzione, passando per i trasporti, i LEP comprendono tutti quei servizi che lo Stato deve ritenere indispensabili per tutti i cittadini, senza distinzioni sul territorio in cui vivono, dal Nord al Sud, dal Centro alle Isole. 

In base alla legge approvata dal Parlamento entro due anni il governo dovrà stabilire i LEP con uno o più decreti legislativi, ossia quei provvedimenti con cui il governo può legiferare dopo aver ricevuto la delega dal Parlamento. Dunque, finché il governo non avrà determinato i LEP le regioni non potranno avviare la richiesta di maggiore autonomia. In ogni caso, ci sono nove materie su 23 su cui non è prevista la determinazione dei LEP, come per esempio i rapporti internazionali e con l’Unione europea delle regioni e la protezione civile, su cui le regioni possono già da ora inviare al governo le richieste di maggiore autonomia.

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[1] La votazione è la numero 95

[2] La votazione è la numero 49

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