Il turismo non genera il 18 per cento del PIL italiano

Lo sostiene la ministra Daniela Santanchè, citando una stima esagerata
Pagella Politica
Il 9 novembre, nel suo intervento di chiusura al Forum internazionale del turismo a Firenze, la ministra del Turismo Daniela Santanchè ha detto che nel 2023 la spesa di tutti i turisti in Italia ha raggiunto i «155 miliardi di euro». Secondo la ministra, questi soldi «si traducono in 368 miliardi di euro di valore aggiunto», una cifra che corrisponde «al 18 per cento del nostro Prodotto interno lordo (PIL)».

Ma davvero il turismo genera quasi un quinto del PIL italiano? In breve la risposta è no: la dichiarazione di Santanchè è parecchio esagerata, per una serie di motivi. La percentuale corretta si aggira intorno a un terzo di quella indicata dalla ministra.

La fonte dei dati

Nel suo intervento la ministra non ha citato la fonte dei suoi dati. L’11 novembre, in un’intervista con Il Giornale, Santanchè ha ripetuto che il turismo ha un impatto sull’economia italiana pari al «18 per cento del Pil», sostenendo che questo sia un dato «certificato dalla Banca d’Italia». Ma in base alle nostre verifiche non risulta che la Banca d’Italia abbia pubblicato o rilanciato di recente una stima di questo tipo. Lo scorso giugno la Banca d’Italia ha pubblicato il rapporto “Indagine sul turismo internazionale”, che però, come suggerisce il nome, si concentra sulla spesa dei turisti stranieri in Italia e sulla spesa dei turisti italiani all’estero, non sulla spesa di tutti i turisti nel nostro Paese e sui suoi effetti sul PIL. 

Secondo varie fonti stampa, la fonte dei dati citati dalla ministra sarebbe un’altra: l’Università Tor Vergata di Roma. «Stando ai dati elaborati dall’Università di Roma Tor Vergata – si legge per esempio in un articolo di Ansa – in virtù di una spesa turistica record pari a 155 miliardi di euro, nel 2023 il comparto ha generato un valore aggiunto di 368 miliardi di euro, pari a circa il 18 per cento del PIL considerando il valore economico diretto e indiretto». 

In base alle nostre verifiche, però, non è pubblicamente disponibile il rapporto che spiega come l’Università di Roma Tor Vergata sia arrivata a queste stime. Abbiamo contattato l’università per avere chiarimenti in merito. La Fondazione Tor Vergata, che fa capo all’università, ha spiegato a Pagella Politica che le cifre sono contenute in uno studio elaborato per il Ministero del Turismo, che sarà presentato al vertice del G7 sul turismo in programma dal 13 al 15 febbraio 2025 a Firenze. «I dati saranno senz’altro resi pubblici, non appena il ministero ci autorizzerà alla divulgazione (presumibilmente a termine del G7)», hanno fatto sapere dalla Fondazione Tor Vergata.

Il rapporto di Openeconomics

Sul sito della Fondazione Tor Vergata è consultabile comunque un rapporto, intitolato “Il turismo in Italia: l’impatto della spesa turistica sull’economia”. Questo rapporto, pubblicato a novembre 2023, è stato realizzato dalla Fondazione Tor Vergata per il Ministero del Turismo, insieme a Openeconomics. Quest’ultima è una società privata che si occupa di consulenza, software e certificazioni, e sul suo sito dice di «supportare istituzioni e imprese nella progettazione di politiche e progetti di investimento e nell’integrazione di capitale pubblico e privato a supporto della transizione energetica e dello sviluppo inclusivo». 

In passato abbiamo già parlato in alcuni articoli delle stime fatte da Openeconomics, come per esempio quelle sul numero di nuovi occupati che potrebbero essere generati dalla realizzazione del ponte sullo Stretto di Messina. Queste stime, spesso citate dal ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Matteo Salvini, sono poco trasparenti e sembrano esagerate, se confrontate con altre simulazioni.

Un discorso simile vale per il rapporto sul turismo, realizzato da Openeconomics con la Fondazione Tor Vergata. Nel rapporto si legge che «il settore turistico in Italia nel corso del 2022 ha registrato una spesa complessiva di circa 100 miliardi di euro, effettuata da italiani e stranieri». Come fonte è indicato il “Rapporto XXV sul turismo italiano 2020-2022”, curato dal Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR), nel quale però i dati sulla spesa dei turisti in Italia si fermano al 2021. Secondo il rapporto successivo del CNR, il numero XXVI relativo al periodo 2022-203, la spesa complessiva dei turisti in Italia due anni fa è stata pari a circa 125 miliardi di euro.

Al di là della cifra corretta, secondo il rapporto di Openeconomics e Fondazione Tor Vergata, 100 miliardi di euro di spesa turistica nel 2022 hanno generato un impatto sul PIL pari a 255 miliardi di euro. Da qui proviene l’effetto moltiplicatore pari a 2,55 (ci torniamo più avanti). Se applichiamo questo moltiplicatore ai 155 miliardi di euro di spesa turistica stimati per il 2023, si ottengono circa 368 miliardi di euro, ossia il numero citato da Santanchè nel suo intervento e che corrisponde a circa il 18 per cento del PIL italiano.

Anche qui non è chiaro però da dove provenga la stima dei 155 miliardi di euro spesi da tutti i turisti in Italia nel 2023. Questa cifra era già circolata alla fine di novembre dello scorso anno, in concomitanza con la prima edizione del Forum internazionale del turismo a Baveno, sul Lago Maggiore. È probabile che l’Università di Tor Vergata abbia moltiplicato questi 155 miliardi di euro per 2,5, ottenendo 367,5 miliardi di euro (arrotondati poi a 368 miliardi).

Una stima generosa

Anche la metodologia con cui è stato redatto il rapporto è discutibile, per vari motivi. 

Come visto in precedenza, secondo Openeconomics nel 2022 il contributo del turismo sul PIL è stato pari a 255 miliardi di euro. Di questi, il 22 per cento (55 miliardi) deriverebbe dalla vendita di beni e servizi da parte delle aziende del settore turistico, mentre il 15 per cento deriverebbe da un impatto “indiretto”, ossia dai rapporti commerciali con i fornitori. Il restante 63 per cento sarebbe generato invece dal cosiddetto “indotto”, che è definito in maniera piuttosto generosa. 

Di norma, l’indotto riguarda le aziende che ruotano intorno a un certo settore. Per esempio, secondo l’enciclopedia Treccani l’indotto generato da una grande impresa è il «complesso di imprese o artigiani che producono parti elementari necessarie alla realizzazione dei prodotti finiti». Questo è quello che nel rapporto di Openeconomics è considerato come impatto “indiretto”, non come “indotto”. 

Il rapporto indica invece con il termine “indotto” la spesa che deriva dai redditi generati dalle attività turistiche. In pratica, nel documento non si conta solo quanto hanno prodotto le aziende del turismo, come gli hotel o le agenzie di viaggi, o il giro d’affari che queste imprese generano per altre aziende, come la fornitura di cibo e di bevande ai ristoranti degli alberghi o la vendita di mobili per arredarli. Il rapporto considera nell’indotto anche l’impatto che la spesa dei singoli lavoratori impiegati nel settore del turismo ha sull’economia, solo per il fatto che questa spesa deriva dagli stipendi che questi ricevono per aver lavorato nel settore turistico.

Questa scelta è generosa, come dimostra un esempio. Se usassimo una definizione così ampia di “indotto” per un settore diverso, come quello della finanza, allora potremmo dire che nel contributo della finanza all’economia rientrano anche i ricavi degli impianti sciistici, dato che diversi lavoratori del settore della finanza decidono di frequentare gli impianti in inverno, spendendo in queste attività il denaro ottenuto grazie al loro lavoro nel settore della finanza. Piuttosto che usare stime così ampie, dunque, vale la pena osservare le stime ufficiali, che tendono a essere più circostanziate all’impatto effettivo del settore (su questo torneremo tra poco).

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La questione del moltiplicatore

Peraltro, il calcolo con cui si arriva alla cifra di 255 miliardi non è chiaro: come detto, sembra che la spesa turistica (100 miliardi nel 2022) sia stata moltiplicata per 2,55, ossia il valore del moltiplicatore. Semplificando un po’, l’impatto di una qualsiasi scelta economica sul PIL non è pari solo al valore delle risorse spese: occorre considerare anche il valore delle risorse che sono, per così dire, “sbloccate” grazie a quella spesa. Questo è quello che cerca di fare il moltiplicatore.

Facciamo un esempio, legato al settore del turismo. Supponiamo che il denaro pagato da un cliente al proprietario di un hotel sia usato dal proprietario dell’hotel per acquistare un’auto. Il venditore dell’auto potrà spendere a sua volta lo stesso denaro in una vacanza, dandolo al proprietario di un’agenzia di viaggi, che a sua volta lo userà per un’altra spesa creando ulteriore valore, e così via. Il moltiplicatore cerca di quantificare questa ulteriore creazione di valore.

Un moltiplicatore pari a 2,55 per il settore del turismo, però, è esagerato. Per esempio, secondo uno studio del Fondo monetario internazionale, nelle economie avanzate i moltiplicatori degli investimenti pubblici variano (pag. 6) da 0,4 nel breve periodo a 1,4 nel medio periodo. E qui si parla di investimenti, ossia di denaro speso con l’obiettivo di creare nuovo valore. La spesa per consumi, come quella turistica, tende invece ad avere un effetto moltiplicatore più contenuto.

Che cosa dice l’Istat

Ma veniamo adesso alle stime ufficiali sul contributo del turismo sul PIL. Periodicamente l’Istat pubblica il cosiddetto “Conto satellite del turismo”, che – spiega l’istituto nazionale di statistica – è lo «strumento internazionalmente riconosciuto e raccomandato per valutare la dimensione economica dell’industria turistica, dando una rappresentazione congiunta del settore sia dal lato della domanda che dell’offerta». Il rapporto più aggiornato è relativo al 2020, anno però che è stato condizionato dalla pandemia di Covid-19. 

Secondo le stime di Istat relative al 2019, prima della pandemia il valore aggiunto del turismo in Italia si attestava (tav. 6) intorno a 100 miliardi di euro. In economia, il valore aggiunto corrisponde a quanto aumenta di valore un prodotto durante il processo di produzione, partendo dalle materie prime fino al risultato finale. Il valore aggiunto è importante per esempio per calcolare il PIL, perché indica quanta ricchezza viene realmente creata in un’economia, senza contare più volte i passaggi intermedi. Il PIL misura infatti tutta la nuova ricchezza creata dall’insieme delle attività economiche, sommando i valori aggiunti prodotti in ogni settore. Dunque, il valore aggiunto del settore turistico misura la ricchezza effettivamente creata dai servizi turistici, come hotel e ristoranti, evidenziando il suo reale impatto sull’economia. 

I 100 miliardi di euro di valore aggiunto generati nel 2019 dal turismo in Italia equivalgono a poco più del 6 per cento del PIL italiano, una percentuale pari a un terzo del «18 per cento» citato da Santanchè. Il valore aggiunto del turismo sale a 220 miliardi di euro (quindi a circa il 13 per cento del PIL) se si considera il valore aggiunto prodotto da tutte le industrie attive nelle attività economiche riconducibili al turismo, dagli alloggi alla ristorazione, passando per i trasporti e i servizi  culturali. Ma il valore aggiunto prodotto da queste attività economiche «è generato da una produzione di beni e servizi non totalmente imputabile al turismo come, per esempio, le spese per ristorazione effettuate da residenti per motivi non turistici», ha sottolineato Istat. «Inoltre, esso non include il valore aggiunto attivato dalla domanda turistica in tutte le attività economiche non direttamente riconducibili al settore».

Ricapitolando: se si isola la “quota turistica” del valore aggiunto prodotto dai vari settori economici coinvolti effettivamente dai turisti, si ottengono i quasi 100 miliardi di euro visti sopra.

Il confronto con l’Europa

Ad agosto 2024 Eurostat ha aggiornato il confronto tra i conti satellite sul turismo relativi a 21 Stati membri dell’Unione europea. Nel 2019 il turismo ha generato in media il 4,5 per cento del valore aggiunto dell’economia nell’Ue, con ampie differenze tra i singoli Paesi. 

In Italia, come detto, il settore del turismo è stato responsabile del 6,2 per cento del PIL. Questa è la quarta percentuale più alta dell’Ue, dietro a Croazia (11,3 per cento), Portogallo (8,1 per cento) e Spagna (6,9 per cento). Francia e Germania hanno la stessa percentuale (4 per cento), mentre all’ultimo posto c’è il Lussemburgo (1,2 per cento).

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