Perché Salvini dice che la sentenza europea sui balneari «dà ragione alla Lega»?

Il motivo sta nel concetto di “scarsità” previsto dalla direttiva “Bolkestein”, che però il ministro delle Infrastrutture interpreta in maniera fuorviante
Ansa
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Il 20 aprile la Corte di giustizia dell’Unione europea, l’istituzione che ha il compito di garantire l’applicazione del diritto comunitario, ha pubblicato una sentenza riguardo la messa a gara delle concessioni balneari italiane, un tema piuttosto sentito dal governo Meloni e da tempo presente nella discussione politica italiana. Secondo la Corte Ue, nonostante i tentativi in quel senso portati avanti da tempo dal governo italiano le concessioni balneari «non possono essere rinnovate automaticamente, ma devono essere oggetto di una procedura di selezione imparziale e trasparente».

La pubblicazione della sentenza è stata descritta da alcune fonti stampa come un monito dell’Ue all’Italia, auspicando un cambio di rotta nell’azione di governo sulla questione. Tuttavia, non tutti hanno interpretato la sentenza allo stesso modo: il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Matteo Salvini infatti ha commentato su Twitter la decisione della corte, sostenendo che questa «dà ragione all’approccio della Lega». «È un grande successo per l’Italia a tutela di migliaia di famiglie e di imprese balneari. La nuova mappatura delle spiagge sarà fatta dal Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti usando criteri di buonsenso», ha aggiunto Salvini.

Ma davvero la corte europea ha dato ragione «all’approccio della Lega»? Abbiamo fatto un po’ chiarezza.

Che cosa dice la sentenza

La sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea prende spunto dal caso del comune di Ginosa, in provincia di Taranto, che il 24 dicembre 2020 aveva prorogato le concessioni balneari ai privati nel suo territorio fino al 31 dicembre 2033. 

La possibilità di prorogare le concessioni esistenti fino alla fine del 2033 – dunque scongiurando la messa a gara pubblica per altri dieci anni – era stata introdotta (art. 1, commi dal 682 al 686) con la legge di Bilancio per il 2019 dal primo governo Conte, di cui Salvini era ministro dell’Interno e vicepresidente del Consiglio, nonostante le regole europee impongano la messa a gara delle concessioni. Questa è prevista dalla direttiva “Bolkestein” (direttiva dell’Unione europea 2006/123/CE), una norma approvata nel 2006 con l’obiettivo di promuovere la parità di professionisti e imprese nell’accesso ai mercati dell’Ue. Da anni l’Italia non applica questa direttiva, rimandando la messa a gara delle concessioni, e per questo è stata condannata altre volte in passato dalla Corte di giustizia europea. 

Come si legge nel comunicato stampa pubblicato sul suo sito ufficiale, nella nuova sentenza la Corte di giustizia europea ha ribadito «l’obbligo, per gli Stati membri, di applicare una procedura di selezione imparziale e trasparente» per l’assegnazione delle concessioni balneari, nel rispetto della direttiva “Bolkestein” e il divieto di rinnovare automaticamente quelle esistenti. Tra i più forti critici di queste regole c’è proprio la Lega e il suo leader Salvini, che negli ultimi anni hanno più volte espresso la loro contrarietà alla direttiva “Bolkestein”. 

La “scarsità” nella Bolkestein

Al netto di questa contrarietà, il motivo per cui secondo Salvini la sentenza del 20 aprile dà ragione alla Lega sta nell’interpretazione di un concetto presente all’interno della direttiva Ue e citato anche nella nuova decisione della Corte Ue, ossia il concetto di “scarsità”. 

L’articolo 12 della direttiva stabilisce infatti che «qualora il numero di autorizzazioni disponibili per una determinata attività sia limitato per via della scarsità delle risorse naturali o delle capacità tecniche utilizzabili», gli Stati dell’Ue devono avviare una procedura di selezione tra i candidati a cui affidare le autorizzazioni, seguendo principi di imparzialità e trasparenza: insomma, la famosa messa a gara. Seguendo questo ragionamento Salvini, ma in passato anche la stessa Giorgia Meloni, ritengono che la direttiva “Bolkestein” non vada applicata dal momento che in Italia questa scarsità di risorse naturali – in questo caso, le spiagge – non esiste, e che quindi la messa a gara delle autorizzazioni attualmente disponibili non sia necessaria.

A conferma di ciò interviene la seconda parte del tweet di Salvini e il riferimento alla «mappatura delle spiagge», che «sarà fatta dal Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti usando criteri di buonsenso». In sintesi, l’obiettivo di Salvini e della Lega sarebbe quello di dimostrare, attraverso una mappatura, che lungo gli 8.970 chilometri di coste italiane esiste una quantità tale di spiagge non sottoposte a concessione che renderebbe superflua la messa a bando delle concessioni attuali. 

Non è ancora chiaro in che modo il ministero realizzerà questa mappatura, ma la sentenza Ue precisa che la scarsità o meno delle risorse naturali e delle concessioni disponibili dovrà essere valutata «combinando un approccio generale e astratto, a livello nazionale, e un approccio caso per caso, basato su un’analisi del territorio costiero del comune in questione». «È necessario – si legge nel documento – che i criteri adottati da uno Stato membro per valutare la scarsità delle risorse naturali utilizzabili si basino su parametri obiettivi, non discriminatori, trasparenti e proporzionati».

I dati sulle coste italiane

In ogni caso, stabilire quante e quali spiagge italiane non utilizzate potrebbero essere messe a gara non sembra un’operazione semplice. Non tutti i quasi 9 mila chilometri di costa sono in prossimità di acque balneabili, ossia aree nelle quali le autorità prevedono che un congruo numero di persone possa praticare la balneazione e non vi siano divieti permanenti. Secondo le elaborazioni più recenti di Istat, su dati del Ministero della Salute, nel 2019 è risultato balneabile il 65,5 per cento della lunghezza complessiva della costa italiana. Stiamo parlando dunque di quasi 5.900 chilometri di coste balneabili.

Inoltre, ovviamente queste non sono tutte, per così dire, “spiagge libere”, anche se su questo punto non è semplice trovare statistiche aggiornate, complete e pubbliche. Esistono comunque alcune stime. Per esempio, secondo le elaborazioni di Legambiente, condotte su dati del Ministero delle Infrastrutture e della mobilità sostenibile, in Italia le coste sabbiose sono lunghe circa 3.400 chilometri e quasi il 43 per cento di queste è occupato da stabilimenti balneari, con ampie differenze tra regioni.

Questo non significa che le coste rimanenti possano essere tutte a concessione. Per esempio, secondo le elaborazioni di Legambiente su dati del Ministero della Salute, quasi l’8 per cento del totale delle coste sabbiose non è utilizzabile, perché composto da aree in cui si trova la foce di un fiume o dove la balneazione è interdetta per motivi di inquinamento. Inoltre, alcune regioni hanno fissato una percentuale di quota minima delle proprie coste che deve essere per forza destinata alle spiagge libere.

Secondo i dati più aggiornati, in Italia le concessioni demaniali marittime attive sono poco meno di 30 mila, di cui quasi 22 mila pagano un canone annuo allo Stato inferiore ai 2.500 euro. Nel 2019 si stima che complessivamente lo Stato abbia incassato circa 115 milioni di euro dai canoni sulle concessioni balneari. Anche se non ci sono dati ufficiali in merito, secondo le stime disponibili, questi canoni sono molto bassi se paragonati ai loro ricavi, in particolare per gli stabilimenti più grandi.

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