Il 13 gennaio la presidente di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni, nel corso di una conferenza stampa dedicata al tema, ha parlato (min. 7:33) dell’annosa questione delle concessioni balneari, che in base alle norme europee dovrebbero essere messe a gara ma che i governi italiani degli ultimi anni hanno rinnovato, a più riprese, illegittimamente. Secondo Meloni, la direttiva Bolkestein «si occupa di servizi», e visto che «le concessioni balneari riguardano beni demaniali», a loro non si dovrebbe applicare la direttiva.
Le cose però non stanno così: Meloni ha probabilmente sintetizzato, semplificando, una tesi che è già stata ritenuta scorretta, ancora di recente, dalle massime corti italiane ed europee.
Un breve ripasso
La direttiva Bolkestein (direttiva dell’Unione europea 2006/123/CE) è una norma approvata nel 2006 con l’obiettivo di promuovere la parità di professionisti e imprese nell’accesso ai mercati dell’Ue.
Da anni l’Italia non applica questa direttiva alle concessioni balneari, e non solo, e per questo è stata condannata dall’Unione europea. Da ultimo, a novembre 2021 il Consiglio di Stato (l’organo di ultima istanza della giustizia amministrativa) ha stabilito che dal 2024 le concessioni balneari vanno messe a gara e che non sarà più possibile, nemmeno per il legislatore, concedere ulteriori proroghe dopo il 2023.
La tesi richiamata da Meloni
Nella conferenza stampa, Meloni sembra aver voluto richiamare la tesi secondo cui la concessione di beni demaniali non rientrerebbe nella nozione di “autorizzazione di servizi” ai sensi della direttiva Bolkestein.
In breve: secondo questa tesi, nell’ordinamento italiano la “concessione demaniale”, con cui lo Stato dà in concessione a un privato un proprio bene, come una spiaggia, è qualcosa di diverso dalla “autorizzazione alla prestazione del servizio”, l’atto che autorizza appunto a fornire determinati servizi al pubblico.
Secondo la tesi di Meloni, la direttiva Bolkestein andrebbe applicata solo a questo secondo tipo di provvedimento.Questa ipotesi è stata presa esplicitamente in considerazione dalla recente sentenza del Consiglio di Stato, che tuttavia ha deciso di rigettarla come infondata.
La decisione del Consiglio di Stato
Secondo i massimi giudici amministrativi italiani, infatti, questa impostazione è formalistica, e non sostanziale, e l’applicazione del diritto dell’Ue non può essere subordinata alle diverse formalità giuridiche dei diversi Stati membri. La definizione di “servizio” che dà la direttiva Bolkestein è «qualsiasi attività economica non salariata di cui all’articolo 50 del trattato [Trattato che istituisce la Comunità europea (Tce), n.d.r.] fornita normalmente dietro retribuzione».
Il requisito del salario esclude quindi i dipendenti, mentre la direttiva si applica ai lavoratori autonomi (come i professionisti e gli imprenditori). L’articolo 50 del Tce (confluito nell’art. 57 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea, Tfue, dopo l’approvazione del Trattato di Lisbona), prevede che i servizi comprendano in particolare «a) attività di carattere industriale; b) attività di carattere commerciale; c) attività artigiane; d) attività delle libere professioni».
Secondo la giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Ue (la massima autorità giudiziaria dell’Unione europea) e le decisioni della Commissione europea, richiamate dal Consiglio di Stato, non c’è dubbio che «la locazione di proprietà demaniali dietro il pagamento di un corrispettivo costituisce un’attività economica».
Secondo i giudici amministrativi italiani, è evidente che «il provvedimento che riserva in via esclusiva un’area demaniale (marittima, lacuale o fluviale) a un operatore economico, consentendo a quest’ultimo di utilizzarlo come asset aziendale e di svolgere, grazie ad esso, un’attività d’impresa erogando servizi turistico-ricreativi» va considerato, nell’ottica della direttiva Bolkestein, un’autorizzazione di servizi.
Che cosa avevano stabilito i giudici europei
Questa stessa impostazione non è una novità, ma deriva direttamente da una sentenza del 2016 della Corte di giustizia dell’Ue, che già aveva stabilito l’applicabilità della direttiva Bolkestein alle concessioni balneari.
In particolare, secondo i giudici europei, le concessioni balneari «possono quindi essere qualificate come autorizzazioni», ai sensi della Bolkestein, «in quanto costituiscono atti formali, qualunque sia la loro qualificazione nel diritto nazionale, che i prestatori devono ottenere dalle autorità nazionali al fine di poter esercitare la loro attività economica».
Insomma, a prescindere da come si chiami nel diritto nazionale, la concessione balneare è di fatto il provvedimento con cui lo Stato autorizza un imprenditore privato a esercitare un’attività economica retribuita. Questa autorizzazione deve rispettare i principi della concorrenza fissati dalla direttiva Bolkestein.
In conclusione
Secondo Giorgia Meloni, «la direttiva Bolkestein è una direttiva che si occupa di servizi»: visto che «le concessioni balneari riguardano beni demaniali», a loro non si deve applicare la direttiva. Abbiamo verificato e la tesi esposta da Meloni non è nuova ed è già stata bocciata a più riprese, anche di recente, dai giudici italiani ed europei.
Al di là dei formalismi della legge italiana, la concessione è sostanzialmente un provvedimento con cui si autorizza un privato a fornire dei servizi in cambio di una retribuzione. Dunque ricade sicuramente nell’ambito applicativo della direttiva Bolkestein.
Giustizia
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