No, le rimesse degli immigrati non sono un furto allo Stato

Sono soldi guadagnati lavorando in Italia, su cui sono già state pagate le tasse: ostacolarle rischia di essere controproducente
ANSA
ANSA
Questo articolo è uscito la prima volta il 22 maggio nella newsletter Conti in tasca, scritta da Massimo Taddei.
Pagella Politica

Iscriviti a Conti in tasca

La newsletter che ti racconta l’attualità politica attraverso le lenti dell’economia. Arriva ogni giovedì. Leggi qui un esempio.
Leggendo questa newsletter, mi si potrebbe accusare di benaltrismo, ossia la tendenza a evitare il confronto cambiando argomento e sminuendo un problema parlando di questioni più importanti. Il concetto di benaltrismo, però, presuppone che a un problema più piccolo se ne metta a confronto uno più grande. In questo caso, non mettiamo a confronto due problemi, ma parliamo dei limiti di un’argomentazione che non è solo sbagliata dal punto di vista economico, ma probabilmente anche da quello politico.

Parliamo infatti di rimesse degli immigrati, ossia la quantità di denaro che chi si sposta in un altro Paese per lavorare decide di inviare a casa (ai propri genitori, al proprio partner o ai propri amici) per dare un sostegno economico. Secondo Anna Cisint, parlamentare europea della Lega, ogni anno dal nostro Paese partono rimesse per circa 12 miliardi di euro, una cifra che – a detta sua – verrebbe sottratta alla nostra economia. «Una vera e propria emorragia economica che drena ricchezza dal nostro sistema e la riversa all’estero, mentre nelle nostre città i Comuni si fanno carico dei servizi, dei sussidi e delle spese legate a queste stesse famiglie», ha scritto Cisint.

Perché fare un discorso di questo tipo non ha particolarmente senso dal punto di vista economico? Indossiamo i nostri occhiali da economisti e andiamo a vederlo.

Innanzitutto, secondo la Banca d’Italia il valore delle rimesse inviate all’estero dagli stranieri che vivono in Italia è più basso di quanto dichiarato dalla parlamentare europea della Lega. Nel 2024 valevano 8,3 miliardi di euro, l’1,3 per cento in più rispetto all’anno precedente.

Ma al di là della correttezza o meno delle cifre citate da Cisint, il vero problema riguarda il modo in cui intendiamo le rimesse. Questi trasferimenti non sono una sottrazione al reddito nazionale, ma una semplice decisione di allocazione del proprio reddito da parte degli immigrati, che – come tutti – dovrebbero essere liberi di fare ciò che vogliono del proprio denaro. Inoltre, non ci si può limitare a osservare la potenziale perdita di spesa per consumi sul nostro territorio, ma bisogna considerare l’impatto netto che la persona che invia rimesse ha sul nostro Paese.
Un lavoratore immigrato è prima di tutto un occupato e per questo contribuisce alla produzione del reddito nazionale. Il Prodotto interno lordo (PIL) può essere definito come la somma di tutti i redditi distribuiti all’interno di un’economia, siano essi da lavoro (gli stipendi) o da capitale (i profitti e i dividendi delle società). Se dunque aggiungiamo uno stipendio alla nostra economia, avremo un aumento del PIL che sarà perlomeno proporzionale al valore della busta paga. 

Sappiamo però che il contributo probabilmente non sarà solo quello: il nostro lavoratore immigrato, anche se decidesse di risparmiare il più possibile per mandare più soldi possibile a casa, dovrebbe comunque sostenere delle spese sul territorio italiano, per esempio pagando un affitto o acquistando degli alimenti e altri generi di conforto. Si tratta del cosiddetto “effetto moltiplicatore”.

Questo reddito poi va tassato, un fattore che permette al lavoratore non solo di contribuire al benessere collettivo attraverso una crescita del PIL, ma anche finanziando direttamente le politiche sociali che lo Stato mette in piedi con il sostegno delle imposte raccolte dai cittadini. Si potrebbe contestare che il pagamento delle tasse risulterebbe inutile nel caso in cui i servizi di cui usufruisce il lavoratore immigrato siano superiori rispetto alle tasse effettivamente pagate. Ci sono però numerosi studi che mostrano come l’immigrazione in Italia abbia, in aggregato, un impatto netto positivo sui conti pubblici. Per esempio, in un fact-checking avevamo spiegato come questo contributo netto sarebbe di poco inferiore ai 2 miliardi di euro l’anno.

Nonostante l’invio di rimesse al proprio Paese di origine si possa considerare “legittimo” da un punto di vista economico, si potrebbe comunque sostenere che la pratica di inviare denaro all’estero dovrebbe essere disincentivata, dal momento che spendere quel denaro sul territorio avrebbe un effetto positivo maggiore per la comunità rispetto a un invio all’estero. Non sarebbe strano utilizzare la tassazione per questo scopo: lo si fa, per esempio, con le normative che puntano a ridurre l’impatto ambientale di determinati comportamenti, come le accise sulla benzina e sul gasolio.
Va però considerato il fatto che inviare denaro all’estero, soprattutto in Paesi emergenti e con un sistema bancario poco sviluppato, è già molto costoso a causa dei costi di transazione richiesti da servizi di money transfer come Western Union. Imporre ulteriori costi potrebbe rappresentare un disincentivo molto forte a immigrare nel nostro Paese, in un contesto in cui, già oggi, la maggior parte dei potenziali migranti preferirebbe trovarsi in un Paese diverso rispetto al nostro, come dimostrano i numerosi tentativi dei richiedenti asilo che arrivano dall’Africa di attraversare il confine settentrionale e andare in Francia, in Austria e, in generale, nel Nord Europa. Un’imposta sulle rimesse, oltre a essere difficilmente applicabile (come faccio a capire se un trasferimento di denaro è una rimessa o un semplice scambio tra due soggetti in due Paesi diversi?), comporterebbe quindi un ulteriore disincentivo ad arrivare in Italia per tutti quei lavoratori che hanno effettivamente una scelta, per esempio quelli con competenze elevate, che sono anche quelli di cui avremmo più bisogno.

Dunque, al di là degli effetti economici diretti, un giro di vite sulle rimesse non farebbe altro che peggiorare il “problema” dell’immigrazione in Italia, ossia lo scarso livello di competenze e di capacità di generare valore aggiunto di una buona parte della forza lavoro immigrata. Questo perché i lavoratori stranieri con un livello di istruzione e di competenze elevato, tenderebbero a scegliere opzioni più accoglienti e con maggiori prospettive economiche.

LEGGI LA GUIDA AI REFERENDUM DI GIUGNO

Ti spiega in modo chiaro e semplice:
• che cosa chiedono i cinque referendum abrogativi su cittadinanza e lavoro;
• le ragioni di chi è a favore e di chi è contrario;
• le posizioni dei partiti;
• e come funziona il voto, anche per chi vive fuorisede.
Scopri come riceverla gratis
Newsletter

Politica di un certo genere

Ogni martedì
In questa newsletter proviamo a capire perché le questioni di genere sono anche una questione politica. Qui un esempio.

Ultimi articoli