Che cosa dice l’articolo 5 del Trattato NATO e come può proteggere l’Ucraina

È tornata attuale un’idea, sostenuta dal governo italiano, per garantire sicurezza al Paese aggredito dalla Russia senza farlo entrare nell’alleanza militare
ANSA
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Il 20 agosto, in un’intervista con la Repubblica, il ministro della Difesa Guido Crosetto ha commentato gli sviluppi sulla guerra in Ucraina e il recente incontro tra il presidente degli Stati Uniti Donald Trump e il presidente russo Vladimir Putin, e quello tra Trump e i leader europei, tra cui la presidente del Consiglio Giorgia Meloni.

Secondo Crosetto, per arrivare a un accordo di pace in Ucraina è necessario «garantire la sicurezza» al Paese invaso dalla Russia, tema «su cui c’è stata un’apertura da parte degli Stati Uniti». Il ministro ha dichiarato: «Ora si fa sempre più strada l’ipotesi di Meloni su un meccanismo basato sull’articolo 5» del “Trattato Nord Atlantico”, con cui è stata creata la NATO. L’idea è che «possa essere la NATO, come alleanza difensiva, ad assicurare a un Paese esterno come l’Ucraina la sua protezione». Questa difesa sarebbe esercitata «con ciò che prevede l’articolo 5, e cioè la difesa aerea, navale e terrestre dell’Alleanza», che secondo Crosetto costituirebbe una «protezione adeguata».

Per capire il senso di queste dichiarazioni occorre ricordare che cosa prevede l’articolo 5 del Trattato NATO e perché se ne discute oggi in relazione all’Ucraina. La questione non è tanto l’ingresso del Paese nell’Alleanza: questa ipotesi è stata esclusa di recente dal segretario generale della NATO Mark Rutte, per l’opposizione di vari membri, ed è considerata una minaccia dalla Russia. Piuttosto, l’idea è offrire all’Ucraina, con un meccanismo speciale, garanzie di sicurezza simili a quelle che tutelano già gli Stati membri della NATO. «Quello di cui stiamo discutendo sono garanzie di sicurezza simili a quelle previste dall’articolo 5 per l’Ucraina, e ora si entrerà più nel dettaglio su che cosa comporteranno esattamente», ha specificato Rutte.

Che cosa prevede (davvero) l’articolo 5

La NATO è un’alleanza militare che riunisce 32 Paesi con l’obiettivo di garantire la sicurezza reciproca: se uno Stato viene attaccato, gli altri lo difendono, lavorando insieme per prevenire guerre e mantenere la pace. 

Il Trattato, firmato nel 1949, è composto da 14 articoli. L’articolo 5 stabilisce che «un attacco armato contro uno o più» Paesi che fanno parte della NATO in Europa o nell’America settentrionale «sarà considerato come un attacco diretto contro tutti» i membri dell’Alleanza. In altre parole, se viene colpito anche solo un Paese NATO, tutti gli altri devono considerarsi coinvolti. 

Il testo aggiunge che ciascun Paese NATO «assisterà la parte o le parti così attaccate intraprendendo immediatamente, individualmente e di concerto con le altre parti, l’azione che giudicherà necessaria, ivi compreso l’uso della forza armata». Questa assistenza può essere fornita «nell’esercizio del diritto di legittima difesa, individuale o collettiva, riconosciuto dall’articolo 51 dello Statuto delle Nazioni Unite», che riconosce a ogni Stato il diritto naturale di difendersi, da solo o insieme ad altri, se subisce un attacco armato.

In sostanza, in base all’articolo 5 ogni Stato membro della NATO deve intervenire a sostegno del Paese sotto attacco, ma conserva la libertà di decidere come farlo: può fornire aiuti militari diretti oppure ricorrere ad altre forme di supporto.

L’articolo prevede inoltre che ogni aggressione e ogni risposta dell’Alleanza siano comunicate senza indugio al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e che le misure adottate restino in vigore fino a quando sarà lo stesso Consiglio a intervenire per ristabilire la pace e la sicurezza internazionali. Del Consiglio di sicurezza fanno parte 15 Paesi: cinque membri permanenti – Stati Uniti, Russia, Cina, Francia e Regno Unito – e dieci membri eletti a rotazione ogni due anni dall’Assemblea generale.

L’articolo 5 è completato dal successivo, il numero 6, che precisa che cosa si intende per «attacco armato» ai fini dell’applicazione della difesa collettiva. Rientrano in questa definizione gli attacchi contro il territorio di uno Stato membro in Europa o in Nord America, contro la Turchia o contro le isole sotto la giurisdizione di un Paese dell’Alleanza situate nell’Atlantico a Nord del Tropico del Cancro. Sono inoltre considerati attacchi quelli contro le forze armate, le navi o gli aerei degli Stati membri presenti in queste aree, nel Mediterraneo o nelle zone europee in cui, al momento dell’entrata in vigore del Trattato, fossero stanziate forze di occupazione di un Paese della NATO.

Come ricorda il sito ufficiale della NATO, l’articolo 5 è stato invocato una sola volta nella storia, dopo gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001 negli Stati Uniti. Misure di difesa collettiva sono state invece adottate in altre tre occasioni, su richiesta della Turchia: nel 1991 durante la Guerra del Golfo, nel 2003 durante la guerra in Iraq e nel 2012 in risposta al conflitto in Siria.

Vantaggi e limiti

In concreto, un meccanismo “in stile articolo 5” potrebbe offrire all’Ucraina tre vantaggi principali in caso di raggiungimento della pace. Primo, una deterrenza più credibile: un nuovo attacco alla sua sovranità comporterebbe una risposta collettiva dell’Alleanza, con costi politici e militari più alti per la Russia. Secondo, una protezione pratica della popolazione e delle infrastrutture attraverso una difesa più integrata, per esempio con l’eventuale dispiegamento di capacità di difesa aerea e antimissile sul territorio o ai confini, pattugliamenti e supporto logistico. Terzo, una cornice più stabile e prevedibile per gli aiuti, con impegni pluriennali coordinati invece di decisioni volontarie e temporanee di singoli Stati.

Restano tuttavia dubbi e limiti. L’articolo 5 non prevede un intervento militare automatico, come ha ricordato anche Meloni a marzo, durante un suo discorso in Senato. Ciascun alleato decide «l’azione che giudicherà necessaria», e questa incertezza può indebolire la deterrenza se gli impegni non sono specificati in anticipo. Su questo aspetto, il 21 agosto il generale Marco Bertolini, già Comandante del Comando operativo di vertice interforze e della Brigata Folgore, ha sintetizzato così il tema in un’intervista con Il Messaggero: «È un errore di percezione pubblica pensare che in caso di attacco gli alleati debbano entrare in guerra contro l’aggressore». E ha precisato: «Tutti devono sì impegnarsi a sostenere l’aggredito con i mezzi che considerano necessari, ma non necessariamente militari».

Estendere tutele tipiche dei membri a uno Stato non membro richiederebbe poi basi giuridiche nuove e consenso politico pieno, esponendo il meccanismo a veti interni. La credibilità dipenderebbe da aspetti concreti – come le regole d’ingaggio, e le catene di comando – e dall’equilibrio con altri accordi bilaterali già esistenti. Inoltre, l’adozione di garanzie più forti potrebbe essere percepita dalla Russia come escalation, con rischi sul piano militare.

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