Perché il referendum sulla cittadinanza rischia di saltare

Secondo alcuni politici, il quesito sarà dichiarato inammissibile dalla Corte Costituzionale. Abbiamo parlato con diversi esperti per capire quanto è probabile questo scenario
Ansa
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I promotori del referendum che vuole rendere meno restrittiva la concessione della cittadinanza italiana agli stranieri hanno raccolto quasi 640 mila firme, che ora sono all’esame della Corte di Cassazione. Entro il 31 ottobre la Corte dovrà stabilire se la raccolta delle firme è avvenuta rispettando la legge e, in caso positivo, toccherà alla Corte Costituzionale stabilire, entro il 10 febbraio 2025, se il referendum è ammissibile e si potrà tenere, oppure no. 

Secondo alcuni politici, di partiti sia della maggioranza sia dell’opposizione, il controllo delle due Corti rischia di far saltare il referendum. «Il referendum a mio giudizio ha fortissimo rischio di bocciatura da parte della Corte Costituzionale, perché non abroga un articolo di legge, ma interviene novellandola», ha detto per esempio il vicepresidente della Camera Giorgio Mulè (Forza Italia) il 28 settembre, ospite a Tagadà su La7. «Il referendum ti dice: abroghiamo la norma riguardante i figli adottivi nati all’estero, per accorciare il periodo di ottenimento della cittadinanza. Leviamo “figli adottivi” ed estendiamo a tutti il requisito dei cinque anni. Si tratta di una legge nuova». 

Una posizione simile è stata espressa (min. 59:00) dal presidente del Movimento 5 Stelle Giuseppe Conte, che il 28 settembre, ospite di Accordi & Disaccordi su Nove, ha detto di avere dubbi sulla «plausibilità giuridica» del quesito referendario «perché quando c’è un referendum abrogativo non è facile scrivere dieci anziché cinque e far rivivere la vecchia norma». 

Sia Mulè che Conte non hanno sostenuto la raccolta firme per il referendum, ma al di là di questo, quanto sono fondati i loro dubbi? Con l’aiuto di alcuni esperti abbiamo provato a rispondere a questa domanda, ricordando comunque che il giudizio definitivo spetterà alla Corte Costituzionale.

Il referendum in breve

Il referendum abrogativo sulla cittadinanza propone di cambiare l’articolo 9 della legge n. 91 del 1992, quella che da oltre trent’anni regola la concessione della cittadinanza italiana. Attualmente, la lettera “b” del comma 1 dell’articolo 9 prevede che la cittadinanza possa essere concessa «allo straniero maggiorenne adottato da cittadino italiano che risiede legalmente nel territorio della Repubblica da almeno cinque anni successivamente alla adozione». La lettera “f” dello stesso comma consente di dare la cittadinanza italiana «allo straniero che risiede legalmente da almeno dieci anni nel territorio della Repubblica». In concreto, oggi uno straniero maggiorenne adottato da italiani può diventare italiano dopo cinque anni di residenza, mentre per gli altri stranieri servono dieci anni di residenza. 

Il quesito referendario chiede agli elettori se vogliono, oppure no, cancellare dall’articolo 9 della legge n. 91 del 1992 le parole «adottato da cittadino italiano» e «successivamente alla adozione» dal comma “b”, e tutto il comma “f”. In questo modo si ridurrebbe da dieci a cinque anni il periodo di residenza in Italia che gli stranieri maggiorenni devono rispettare per poter chiedere la cittadinanza italiana. In questo modo tornerebbe in vigore il requisito (quello dei cinque anni di residenza) previsto dalla vecchia legge sulla cittadinanza, rimasta in vigore dal 1912 al 1992. 

Il referendum sulla cittadinanza non riguarda direttamente la modalità con cui è concessa la cittadinanza italiana ai bambini stranieri, nati o meno in Italia. In base alla legge attuale, un bambino che nasce in Italia da genitori stranieri può chiedere la cittadinanza italiana una volta compiuti i 18 anni di età, a patto che abbia vissuto ininterrottamente nel nostro Paese. 

Se si dovesse tenere il referendum e dovessero passare le modifiche richieste dal quesito, la riduzione dei tempi per l’ottenimento della cittadinanza da parte degli stranieri maggiorenni potrebbe avere un impatto, in maniera indiretta, anche sui minori stranieri. La legge, infatti, stabilisce che un bambino, anche se non nato in Italia, può ottenere la cittadinanza italiana quando i suoi genitori stranieri la ottengono.

Un referendum “manipolativo”

Vari esperti hanno confermato a Pagella Politica che, per come è scritto, il quesito referendario sulla cittadinanza rientra nella categoria dei referendum abrogativi “manipolativi”. «I referendum abrogativi nascono per cancellare in toto o in parte una legge: il loro obiettivo tradizionale sarebbe in parole povere quello di eliminare una norma, oppure un articolo o un comma di essa», ha spiegato a Pagella Politica Marco Benvenuti, professore di Diritto costituzionale all’Università La Sapienza di Roma. Per esempio il referendum del 1974 sul divorzio – poi bocciato da quasi il 60 per cento degli elettori – voleva cancellare per intero la legge approvata nel 1970 che ha introdotto in Italia l’istituto giuridico del divorzio. «L’obiettivo di quel referendum, come di tutti i referendum abrogativi tradizionali, era quello di “censurare” il Parlamento, costituendo uno strumento per i cittadini per dire al Parlamento: “Non mi piace la legge che hai approvato”», ha aggiunto Benvenuti. 

Nel tempo la Corte Costituzionale ha ammesso anche nuovi tipi di referendum abrogativi, ossia quelli manipolativi. «La questione del referendum manipolativo è sorta in particolare con i quesiti che chiedevano di abrogare parti delle leggi elettorali, che non possono puntare ad abrogare tutta la legge, ma solo una parte», ha detto a Pagella Politica Alfonso Celotto, professore di Diritto costituzionale all’Università Roma Tre. Le leggi elettorali sono considerate dalla Corte Costituzionali come leggi “costituzionalmente necessarie”: in assenza di queste leggi si creerebbe un vuoto normativo. «Se venisse abrogata in toto la legge elettorale, non sarebbe garantita la possibilità di rieleggere il Parlamento, e per questo la Corte Costituzionale ha stabilito che i referendum sulle leggi elettorali possono essere soltanto parziali e di tipo manipolativo», ha aggiunto Celotto. 

Un referendum approvato nel 1993, promosso dai Radicali italiani e dal deputato democristiano Mario Segni, ha trasformato la legge elettorale in vigore all’epoca da proporzionale a maggioritaria grazie all’eliminazione di singole parole e brevi frasi di alcuni articoli della legge per l’elezione del Senato. La Corte Costituzionale ha considerato ammissibile quel referendum perché l’abrogazione di singole parti della legge elettorale del Senato non comportava l’inutilizzabilità della legge. Nella stessa sentenza, i giudici avevano raccomandato comunque al Parlamento di riformare la legge elettorale per la Camera dei deputati, nel caso in cui il referendum fosse stato approvato dai cittadini. 

Il 18 aprile 1993 la maggioranza degli elettori italiani ha votato a favore del referendum sulla legge elettorale del Senato. In seguito, proprio per armonizzare le norme elettorali dopo il referendum, ad agosto dello stesso anno il Parlamento ha approvato due nuove leggi elettorali, una per la Camera e una per il Senato. Queste due leggi elettorali, entrambe di tipo maggioritario, sono ricordate nel gergo politico con un unico nome, ossia “il Mattarellum”. Questo nome deriva dal cognome del proponente delle due leggi elettorali, l’attuale presidente della Repubblica Sergio Mattarella. All’epoca Mattarella era deputato ed esponente di peso della Democrazia Cristiana.
Immagine 1. Il titolo de La Stampa sulla decisione della Corte Costituzionale di ammettere il referendum elettorale del 1993 – Fonte: Archivio storico La Stampa
Immagine 1. Il titolo de La Stampa sulla decisione della Corte Costituzionale di ammettere il referendum elettorale del 1993 – Fonte: Archivio storico La Stampa

I limiti 

La Corte Costituzionale non ha ammesso sempre tutti i referendum abrogativi di tipo manipolativo. «Dopo il referendum sulla legge elettorale del 1993, la Corte ha deciso di bocciare altri referendum manipolativi perché si era resa conto che era comunque necessario dare un limite a questo particolare tipo di referendum abrogativo, per non snaturare il senso dell’istituto referendario stesso, che è quello di cancellare una legge o parte di essa», ha spiegato a Pagella Politica Mauro Volpi, professore di Diritto costituzionale all’Università di Perugia. «Per esempio la Corte ha stabilito in varie sentenze che un referendum abrogativo di tipo manipolativo è inammissibile se la normativa risultante dalle modifiche è qualcosa che non poteva essere possibile pensare quando la legge è stata approvata, ossia una soluzione totalmente estranea al senso della legge per come era stata pensata».

Per esempio, la Corte Costituzionale si è espressa in questa direzione su una proposta di referendum del 1997, che puntava a ridurre il limite massimo di pubblicità sulle reti Rai dal 12 per cento al 2 per cento. Nella sentenza in cui ha bocciato il quesito referendario, la Corte Costituzionale ha definito il quesito un «ritaglio di parole da cancellare», che era «contrario alla logica dell’istituto» del referendum abrogativo, fissando tra l’altro un tetto alla pubblicità, quello del 2 per cento, che nella norma allora in vigore era previsto come eccedenza massima in caso di sforamento dei limiti di pubblicità. In parole semplici, la modifica proposta dal referendum travisava il senso originario di quel limite. 

Come visto in precedenza, il limite sui referendum manipolativi è stato stabilito dalla Corte Costituzionale attraverso le sue sentenze. Oltre a questo limite, negli anni i giudici costituzionali ne hanno stabiliti altri: tra le altre cose, i quesiti referendari devono essere omogenei, ossia riguardare lo stesso tema, e non possono abrogare norme che hanno un effetto sui conti pubblici dello Stato. A questi limiti, stabiliti dalla Corte, si aggiungono quelli previsti espressamente dall’articolo 75 della Costituzione, dedicato ai referendum abrogativi. Secondo questo articolo, non sono ammissibili i quesiti referendari che chiedono di abrogare le leggi tributarie e di bilancio, le leggi di amnistia e di indulto, e le leggi di autorizzazione a ratificare trattati internazionali. Per esempio non è possibile indire un referendum per cancellare i contenuti della legge di Bilancio, che definisce gli obiettivi e limiti di spesa dello Stato per ogni anno.

Ammissibile o no?

E i costituzionalisti, quali opinioni hanno sulla possibile inammissibilità del referendum sulla cittadinanza? Le posizioni non sono tutte concordi.

«Al netto del suo carattere manipolativo, credo che il referendum sulla cittadinanza sarà giudicato ammissibile, sebbene poi potrebbero essere necessari alcuni interventi da parte del legislatore per armonizzare la normativa», ha detto Celotto. «La stessa legge sui referendum stabilisce la possibilità per il presidente della Repubblica, dopo il via libera del Consiglio dei ministri, di posticipare l’effettiva abrogazione della legge per dare modo al Parlamento, o al governo con un decreto-legge, di intervenire e fare gli aggiustamenti del caso». Celotto ha fatto riferimento all’articolo 37 della legge n. 352 del 1970, quella che regola il funzionamento dei referendum in Italia. In particolare, questo articolo prevede la possibilità per il capo dello Stato, in accordo con il governo, di posticipare al massimo di 60 giorni l’entrata in vigore dell’abrogazione determinata da un referendum. 

Sul referendum sulla cittadinanza Volpi ha un’opinione più netta. «Posto che la decisione spetta alla Corte Costituzionale, credo che il referendum sarà considerato ammissibile, visto che interviene su una tematica ristretta e a mio parere non stravolge il senso della legge sulla cittadinanza. In passato sono stati considerati ammissibili referendum ben più manipolativi, come per l’appunto quello del 1993 che ha cambiato la legge elettorale del Senato», ha detto Volpi. 

Il professor Benvenuti è invece più cauto. «Sui referendum manipolativi la Corte Costituzionale si è da sempre espressa in maniera oscillante: in alcuni casi li ha ammessi, in altri no. Per me dunque è difficile prevedere che cosa deciderà nel caso del referendum sulla cittadinanza, il quale è innegabilmente un ritaglio della normativa e questo potrebbe generare dubbi sulla corte». 

Secondo Benvenuti, il referendum però non può essere considerato la strada principale per riformare la legge sulla cittadinanza. «I referendum dovrebbero svolgere la funzione di “censurare” il Parlamento su una norma già fatta. Nel caso della cittadinanza invece il referendum è volto a censurare il fatto che il Parlamento non si sta muovendo sul tema. E questo può essere un bene, perché l’eventuale successo del quesito potrebbe spingere il legislatore a intervenire con una riforma effettiva dell’intera legge», ha detto il costituzionalista. «Questo è successo proprio nel caso del referendum sulla legge elettorale del Senato del 1993. Dopo che il referendum fu approvato dai cittadini, la politica si trovò costretta a cambiare anche la legge elettorale della Camera, trasformandola anch’essa in una legge elettorale maggioritaria, per armonizzarla con quella del Senato».
Immagine 2. Mario Segni (a sinistra) insieme all’ex leader dei Radicali italiani Marco Pannella in occasione della raccolta firme per un referendum nel 1999 – Fonte: Ansa
Immagine 2. Mario Segni (a sinistra) insieme all’ex leader dei Radicali italiani Marco Pannella in occasione della raccolta firme per un referendum nel 1999 – Fonte: Ansa

La questione della raccolta firme

Come detto, prima dell’esame della Corte Costituzionale, il quesito referendario sulla cittadinanza dovrà ottenere il via libera della Corte di Cassazione, che valuterà entro il 31 ottobre la regolarità della raccolta firme. Secondo Celotto, questa fase potrebbe riservare sorprese. «Al di là della costituzionalità o meno del referendum, la Cassazione potrebbe sollevare alcuni dubbi sul metodo di raccolta delle firme», ha spiegato il costituzionalista. 

Il 24 settembre il referendum abrogativo sulla cittadinanza ha raggiunto la soglia minima di 500 mila firme per poter essere richiesto. Il traguardo è stato raggiunto in meno di venti giorni da quando è stata lanciata la raccolta firme e questo è stato possibile soprattutto grazie alla nuova piattaforma del Ministero della Giustizia per la presentazione e la sottoscrizione digitale dei referendum abrogativi e delle leggi di iniziativa popolare. «A mio giudizio la Cassazione potrebbe riscontrare il fatto che la soglia delle 500 mila firme è troppo bassa per il nuovo metodo di raccolta delle sottoscrizioni, ossia quello digitale, e sottoporre la questione alla Corte Costituzionale stessa», ha dichiarato Celotto. La soglia minima delle 500 mila firme è stata introdotta in Costituzione quasi 80 anni, durante i lavori di preparazione della Costituzione stessa. Da anni si discute sull’opportunità di modificare questa soglia, da alcuni giudicata troppo bassa per la nostra epoca e per i nuovi mezzi digitali di raccolta delle firme. 

Ricapitolando: il dibattito sull’ammissibilità o meno del referendum sulla cittadinanza è aperto. Secondo alcuni politici, il referendum potrebbe essere considerato inammissibile perché, eliminando singole e brevi frasi della cittadinanza, ne trasformerebbe radicalmente il contenuto rendendolo diverso da quello originario. Secondo vari esperti, è vero che il referendum sulla cittadinanza è di tipo “manipolativo”, ma non è detto che per questo sia dichiarato automaticamente inammissibile dalla Corte Costituzionale. In passato, su questo particolare tipo di referendum abrogativi la corte si è espressa a volte a favore e a volte contro, e non è possibile al momento stabilire con certezza che cosa decideranno i giudici costituzionali sul quesito riguardante la cittadinanza.

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