Un tempo prendere la cittadinanza italiana era più facile

Per ottant’anni a uno straniero bastava vivere cinque anni nel nostro Paese per diventare italiano. La legge del 1992, che ora un referendum vuole cambiare, ha reso questo vincolo più severo
ANSA/ANGELO CARCONI
ANSA/ANGELO CARCONI
Da dieci a cinque anni di residenza: in breve è questo l’obiettivo del referendum abrogativo che il 24 settembre ha raggiunto la soglia minima delle 500 mila firme per essere organizzato. I promotori vogliono dimezzare i tempi che oggi un cittadino straniero deve aspettare per poter chiedere la cittadinanza italiana. Per farlo, il quesito referendario chiede di cancellare alcune parole dalla legge n. 91 del 1992, che regola la concessione della cittadinanza italiana e che ha reso più difficile l’accesso della cittadinanza del nostro Paese ai cittadini stranieri. Per ottant’anni, infatti, in certi casi uno straniero poteva diventare italiano più facilmente rispetto a oggi.

Le regole del Regno

La legge sulla cittadinanza approvata ormai oltre trent’anni fa ha cancellato le norme precedenti, contenute in particolare in una legge entrata in vigore a luglio del 1912. All’epoca l’Italia era ancora un regno: il re era Vittorio Emanuele III e il governo era guidato da Giovanni Giolitti. 

Innanzitutto quella legge stabiliva che era cittadino per nascita chi era figlio di un padre italiano (la nazionalità della madre non contava tranne nei casi in cui non si conosceva il padre). Un cittadino straniero, per ottenere la cittadinanza italiana, doveva aver risieduto per almeno cinque anni in Italia, periodo di tempo che poteva ridursi a tre anni nei casi in cui lo straniero avesse reso «notevoli servigi all’Italia» o avesse sposato una cittadina italiana. Gli stranieri nati in Italia o figli di genitori stranieri residenti da almeno dieci anni in Italia potevano chiedere la cittadinanza italiana una volta compiuti 21 anni, che al tempo segnavano il raggiungimento della maggiore età. Nel 1934, durante la dittatura fascista, la legge sulla cittadinanza del 1912 è stata modificata in alcune parti, ma le condizioni appena viste sono rimaste le stesse, così come nei decenni successivi.

Nel 1977, con l’abbassamento a 18 anni dell’età per diventare maggiorenni, la legge sulla cittadinanza è stata modificata per concedere agli stranieri nati in Italia o figli di genitori residenti da almeno dieci anni nel nostro Paese di poter ottenere la cittadinanza italiana compiuti i 18 anni, e non più i 21 anni. Pochi anni dopo, a gennaio 1983, una sentenza della Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionale il principio della legge sulla cittadinanza in base a cui non è considerato cittadino italiano per nascita anche il figlio di una madre italiana. Pochi mesi dopo è così entrata in vigore una nuova legge che integrava quella del 1912, stabilendo (art. 5) tra le altre cose che era «cittadino italiano il figlio minorenne, anche adottivo», di padre italiano o di madre italiana.

La nuova, ormai vecchia, legge

Si arriva così alla fine degli anni Ottanta. Durante la decima legislatura, a dicembre 1988 l’allora ministro degli Esteri Giulio Andreotti, insieme ad altri ministri del governo guidato da Ciriaco De Mita (Democrazia Cristiana), presentò in Parlamento un disegno di legge per introdurre «nuove norme sulla cittadinanza italiana». Quel governo era supportato dal cosiddetto “Pentapartito”, composto da Democrazia Cristiana (DC), Partito Socialista Italiano (PSI), Partito Socialista Democratico Italiano (PDSI), Partito Repubblicano Italiano (PRI) e Partito Liberale Italiano (PLI). Il testo fu approvato dal Senato oltre due anni dopo, a maggio 1991, durante il settimo governo Andreotti (appoggiato dai partiti citati sopra, tranne il PRI). 

Come spiegava la relazione introduttiva del disegno di legge approdato nell’aula del Senato, il testo uscito dalla Commissione Affari costituzionali era stato «il frutto di una lunga e spesso non facile gestazione». Nelle legislature precedenti, infatti, erano già stati fatti vari tentativi per modificare la legge del 1912 sulla cittadinanza, tutti senza successo (nel 1983 erano entrate in vigore alcune norme, poi abrogate meno di dieci anni dopo, che avevano modificato solo alcuni aspetti della legge).

Il testo approvato dal Senato nel 1991 prevedeva alcune novità per l’acquisizione della cittadinanza italiana da parte dei cittadini stranieri, facilitando i cosiddetti “oriundi”, ossia gli stranieri con antenati italiani. L’obiettivo, sottolineava la relazione al disegno di legge, era «rispondere alle vive e crescenti aspettative» delle comunità di italiani all’estero, che sono cresciute molto nei decenni precedenti e che, «attraverso notevoli difficoltà e fatiche, hanno contribuito a tenere alto nel mondo il nome dell’Italia».

Tra le altre cose, il disegno di legge stabiliva che la cittadinanza italiana poteva essere concessa «allo straniero che risiede legalmente da almeno dieci anni nel territorio della Repubblica» (un emendamento per ridurre questo periodo a otto anni fu bocciato in aula). Questo criterio è in vigore ancora oggi ed è quello che i promotori del referendum vorrebbero eliminare, portandolo a cinque anni. La relazione che accompagnava il disegno di legge descriveva questa condizione un’«ipotesi residuale in favore degli stranieri» che non erano «nelle condizioni di potersi avvalere di disposizioni più favorevoli». Tra queste disposizioni, per esempio, c’era quella che permetteva ai cittadini di uno degli Stati membri della Comunità europea (oggi Unione europea) di ottenere la cittadinanza italiana dopo cinque anni di residenza nel nostro Paese, e non dieci.

Il 24 maggio 1991, il giorno dopo l’approvazione del Senato, il quotidiano L’Unità commentava il via libera all’unanimità del disegno di legge con queste parole: «Il nuovo testo tiene conto delle ultime novità nei flussi di popolazioni da uno Stato all’altro». Sulla stessa pagina del quotidiano veniva data la notizia dello stanziamento di 150 miliardi di lire per l’accoglienza degli oltre ventimila albanesi sbarcati a marzo 1991. In quel periodo iniziò l’afflusso di migranti dall’Albania che proseguì per diversi anni.
Immagine 1. I due articoli pubblicati da L’Unità il 24 maggio 1991 – Fonte: Archivio storico de L’Unità
Immagine 1. I due articoli pubblicati da L’Unità il 24 maggio 1991 – Fonte: Archivio storico de L’Unità
All’inizio degli anni Novanta gli stranieri residenti in Italia erano circa 350 mila, meno dell’1 per cento dei residenti totali. Questo numero è salito a 1,3 milioni nel 2001 e a 4 milioni nel 2011. Oggi gli stranieri nel nostro Paese sono circa 5 milioni e compongono poco meno del 9 per cento della popolazione residente in Italia. 

La Camera ha approvato definitivamente la legge n. 91 del 1992 all’inizio di quell’anno. In quel periodo, durante l’esame del testo in Commissione Affari costituzionali, era emersa la necessità di procedere spediti con l’approvazione del disegno di legge votato dal Senato, anche se c’erano dubbi di alcuni parlamentari. Per esempio il deputato del Movimento Sociale Italiano (MSI) Franco Franchi, pur ribadendo il voto favorevole del suo partito al provvedimento, aveva sottolineato che, a detta sua, la nuova legge concedeva «eccessive aperture». «Uno Stato, a volte, deve essere un po’ geloso della concessione della cittadinanza, così come avviene in altri Paesi», aveva dichiarato Franchi, usando un’argomentazione portata avanti ancora oggi da vari esponenti dei partiti che sostengono il governo Meloni. 

La deputata del Partito Comunista Italiano (PCI) Silvia Barbieri, invece, aveva espresso la volontà di mettere mano ad altri aspetti della legge, riconoscendo però che andava approvata in fretta. «Ci rendiamo conto del fatto che stiamo intervenendo su di una materia in relazione alla quale potrebbero essere aperte altre questioni (mi riferisco, per esempio, al termine di dieci anni previsto per gli extracomunitari), tuttavia siamo convinti che non vi siano attualmente le condizioni per avviare questo tipo di discussione», aveva dichiarato Barbieri. 

Negli anni successivi la legge n. 91 del 1992 è stata modificata altre volte, senza però che fossero introdotte novità sostanziali. Le varie proposte di legge per cambiarla non hanno avuto successo e, se entro febbraio 2025 la Corte Costituzionale lo dichiarerà ammissibile, il prossimo anno potrà essere organizzato un referendum abrogativo per cambiare le regole per la concessione della cittadinanza italiana, rendendole più generose.

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