Che cosa sono queste nuove “pre-intese” con le regioni sull’autonomia differenziata

Le ha firmate il ministro Calderoli con Veneto, Lombardia, Piemonte e Liguria, riaprendo il dibattito su uno dei temi più controversi della legislatura
Il ministro Calderoli insieme al presidente della Regione Veneto Luca Zaia – Fonte: ANSA
Il ministro Calderoli insieme al presidente della Regione Veneto Luca Zaia – Fonte: ANSA
Tra il 18 e il 19 novembre il ministro per gli Affari regionali e le Autonomie Roberto Calderoli ha firmato quattro accordi preliminari con Veneto, Lombardia, Piemonte e Liguria per portare avanti il percorso dell’autonomia differenziata. Si tratta della possibilità, prevista dalla Costituzione, che le regioni a statuto ordinario possano ottenere maggiori competenze in alcune materie.

Questi accordi sono delle “pre-intese”, come le ha definite lo stesso Calderoli, delegato a firmarle dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Non producono effetti giuridici vincolanti, ma servono a stabilire una prima intesa politica: tracciano il perimetro e gli obiettivi su cui governo e regioni intendono negoziare per arrivare, in seguito, alle intese definitive.

Il contenuto degli accordi

Nel merito, i quattro gli accordi – tutti firmati con presidenti di regione del centrodestra – si concentrano sugli stessi quattro ambiti, che riguardano materie per cui non è necessaria la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni (LEP) (su questo punto torneremo meglio più avanti).

Il primo riguarda la gestione delle risorse destinate alla sanità. Le pre-intese prevedono di dare alle regioni più libertà nel decidere come funzionano le tariffe per rimborsi e prestazioni, come programmare gli interventi sugli edifici e sulle tecnologie del sistema sanitario, come organizzare le aziende sanitarie anche attraverso fondi sanitari integrativi e come distribuire le risorse tra diverse spese superando alcuni vincoli nazionali, sempre nel rispetto del tetto complessivo. Questa maggiore autonomia sarebbe possibile solo se la regione mantiene l’equilibrio dei conti e rispetta i livelli essenziali di assistenza (LEA), cioè le prestazioni sanitarie minime che lo Stato deve garantire in modo uniforme su tutto il territorio nazionale.

Il secondo ambito è la protezione civile. Le pre-intese prevedono che il presidente della regione possa diventare commissario delegato in caso di emergenze nazionali che coinvolgono il territorio regionale. Per le emergenze regionali, il presidente potrebbe emanare ordinanze in deroga alle norme statali seguendo un procedimento che coinvolge il Consiglio dei ministri. Le regioni potrebbero inoltre assumere personale dedicato anche in deroga alla normativa nazionale, gestire direttamente la formazione degli operatori e applicare ai propri mezzi e conducenti le stesse regole previste per la protezione civile nazionale.

Il terzo ambito riguarda le cosiddette “professioni non ordinistiche”, ossia delle attività professionali che non hanno un ordine o un albo nazionale. Gli accordi permettono alle regioni di disciplinare queste professioni, prevedendo elenchi regionali per poterle esercitare. Le regioni potrebbero anche riconoscere le qualifiche professionali necessarie per queste nuove professioni e per altre attività che richiedono di dimostrare un’esperienza svolta in un altro Stato membro dell’Unione europea.

Il quarto ambito è la previdenza complementare e integrativa, ossia forme di risparmio previdenziale che si aggiungono alla pensione pubblica obbligatoria. Le pre-intese consentono alle regioni di promuovere, disciplinare e finanziare forme di previdenza integrativa su base regionale, anche attraverso convenzioni con fondi pensione già esistenti. Alla regione verrebbe attribuita anche la possibilità di negoziare contratti o accordi con i fondi pensione per il personale regionale, quello degli enti pubblici regionali, degli enti locali e del sistema sanitario regionale.

Come detto, non si tratta di decisioni definitive: le trattative sono ancora in corso e vanno avanti da oltre un anno, cioè da quando il negoziato con le quattro regioni è stato avviato nell’ottobre 2024. Queste pre-intese si inseriscono quindi in un percorso ancora aperto e piuttosto complesso, che finora ha coinvolto governo, Parlamento e Corte Costituzionale.

La strada dell’autonomia differenziata

Durante l’attuale legislatura, il governo Meloni ha rilanciato il percorso dell’autonomia differenziata – una delle promesse contenute nel programma elettorale del centrodestra – e a giugno 2024 è arrivata l’approvazione del Parlamento di una legge ordinaria proposta da Calderoli. Non si tratta quindi di una riforma costituzionale, ma di una legge che, almeno in teoria, avrebbe dovuto aprire la strada a nuove competenze per le regioni che ne fanno richiesta. Il tema è particolarmente caro alla Lega e allo stesso Calderoli, che da anni sostengono la necessità di rafforzare l’autonomia regionale in territori come Veneto e Lombardia, guidati da due presidenti di lunga esperienza nel partito, Luca Zaia e Attilio Fontana.

A più di un anno dall’approvazione della legge, però, l’attuazione della riforma è rallentata in modo significativo. A novembre 2024 la Corte Costituzionale ha infatti bocciato alcune parti della legge, soprattutto quelle dedicate ai livelli essenziali delle prestazioni (LEP), ritenendole troppo vaghe e prive di criteri chiari. I LEP sono i servizi minimi che lo Stato deve garantire in modo uniforme su tutto il territorio nazionale, e rappresentano un passaggio obbligato per concedere maggiore autonomia alle regioni in alcune materie, come la sanità o le politiche per il lavoro. Senza una definizione precisa e condivisa dei LEP, la riforma non può procedere.

Per rispondere alle osservazioni della Corte, lo scorso maggio il governo ha annunciato un disegno di legge delega per definire i LEP, che è stato presentato poi a settembre in Senato. Al momento, però, l’esame del testo non è ancora iniziato. 

Il rallentamento sull’autonomia differenziata non deve sorprendere. La definizione dei LEP è un nodo irrisolto da anni e all’interno della stessa maggioranza c’è consapevolezza delle difficoltà. Lo scorso luglio, una fonte di Forza Italia, che già durante l’esame parlamentare della legge aveva espresso dubbi rilevanti, aveva spiegato a Pagella Politica che «stabilire livelli di prestazioni uniformi su tutto il territorio nazionale, da Aosta a Palermo, è un’operazione complicatissima ed è ciò che davvero frena questa riforma».

Nonostante queste difficoltà, le trattative con le regioni non si sono fermate. A ottobre 2024 Lombardia, Veneto, Liguria e Piemonte hanno iniziato i negoziati per ottenere maggiore autonomia in quattro materie che non richiedono la definizione dei LEP. 

È in questo contesto che, un anno dopo l’avvio dei negoziati, si inseriscono anche le nuove pre-intese firmate tra il 18 e il 19 novembre, che rappresentano un ulteriore tassello di un percorso ancora aperto e tutt’altro che lineare.
Pagella Politica

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Le critiche

Le pre-intese siglate da Calderoli sono state criticate da più parti, per esempio dal Partito Democratico e dal sindacato CGIL.

Secondo i critici, questi accordi preliminari rischiano di far avanzare l’autonomia senza aver risolto i nodi più sensibili, come la garanzia di servizi omogenei tra territori e la definizione dei costi e delle risorse. I contrari hanno contestato anche il metodo usato dal governo, considerato poco trasparente, perché questi accordi sono stati firmati mentre il quadro complessivo è ancora incerto e senza un pieno coinvolgimento parlamentare.

Calderoli ha replicato che le pre-intese sono solo passaggi tecnici e non comportano trasferimenti immediati di competenze. A suo avviso servono a dare ordine al percorso, consentire a tutte le regioni interessate di avanzare in modo uniforme e mantenere aperto il confronto istituzionale prima delle decisioni definitive.

Che cos’è successo in passato

Non è la prima volta che un governo firma accordi preliminari sull’autonomia differenziata.

Questo era già avvenuto a febbraio 2018, durante il governo guidato da Paolo Gentiloni (Partito Democratico). In quell’occasione, gli accordi erano stati firmati con Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna – le prime due guidate da esponenti di centrodestra, la terza dal centrosinistra – non nelle sedi delle regioni, ma a Palazzo Chigi, sede del governo.

Quegli accordi preliminari riguardavano una serie di materie, dall’istruzione alla salute. Successivamente, durante il primo governo Conte, le trattative sul numero delle materie si sono ampliate e altre sei regioni (Piemonte, Liguria, Toscana, Umbria, Marche e Campania) hanno presentato ufficialmente al governo la richiesta di iniziare il percorso per ottenere nuove forme di autonomia. Nel tempo, però, questo percorso si è arenato.

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