Non sappiamo ancora molte cose del patto Meloni-Rama sui migranti

Dagli appalti al numero di lavoratori nei centri, a più di un anno dall’avvio del progetto tanti rimangono ancora i punti di domanda da risolvere
La firma dell’accordo tra Meloni e Rama – Fonte: ANSA
La firma dell’accordo tra Meloni e Rama – Fonte: ANSA
Questo articolo è stato scritto in collaborazione con i nostri colleghi albanesi di Faktoje. La versione in lingua albanese, firmata da Nevila Gjata, si può trovare sul loro sito web con il titolo: Dritehijet e paktit Rama-Meloni.
Il 6 novembre 2023 è stato firmato l’accordo di collaborazione tra Tirana e Roma per la creazione di due centri per migranti a Shëngjin e Gjadër, in Albania. In Italia si è parlato molto di questo accordo, facendo luce in particolare sulla condizione delle persone ospitate nei centri, sulla possibile violazione dei loro diritti e sui costi del progetto. Al contrario, in Albania l’apertura dei centri non ha suscitato particolare interesse.

Nonostante siano aperti da ottobre 2024, tante sono ancora le contraddizioni e gli aspetti non chiari, sia dal lato albanese che da quello italiano. Per cercare risposta ad alcune domande, la redazione di Faktoje ha fatto un sopralluogo nei centri di Shëngjin e Gjadër, che in questo momento non ospitano nessun migrante. Parlando con chi lavora nei centri e con chi vive in quelle zone, la redazione di Faktoje ha potuto constatare che dominano ancora ambiguità e mancanza di trasparenza.

La firma dell’accordo

L’accordo è stato firmato dal primo ministro albanese Edi Rama e dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni a Palazzo Chigi, a Roma, il 6 novembre 2023. Dopo la firma, la Corte costituzionale albanese ha aperto la strada alla ratifica dell’accordo e in Italia il protocollo è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 22 febbraio 2024. L’accordo è composto da 14 articoli e stabilisce la concessione di alcune aree del territorio albanese all’Italia per la costruzione di centri che ospiteranno migranti maschi, maggiorenni e in buona salute, provenienti dai Paesi considerati “sicuri”, cioè da Stati in cui secondo l’Italia sono rispettati i diritti fondamentali delle persone. Rimarrà in vigore per cinque anni, con possibilità di rinnovo per altri cinque, e prevede che sia l’Italia a sostenere le spese delle strutture e a occuparsi della gestione.

Sia gli italiani che gli albanesi sono venuti a conoscenza dei dettagli dell’accordo solo dopo la firma. La notizia è stata data in una conferenza stampa congiunta il 6 novembre, quando Meloni e Rama hanno spiegato in italiano il contenuto dell’accordo a grandi linee. La conferenza stampa è stata diffusa anche dal canale Youtube di Rama con la traduzione in albanese. Secondo i media italiani, i negoziati erano iniziati prima, nell’agosto 2023, durante una visita privata di Meloni in Albania. In Italia l’accordo è stato pubblicato online dal Ministero degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale qualche giorno prima della conferenza congiunta, il 2 novembre 2023, ma la stampa ha iniziato a parlarne solo dal 6 novembre. Il governo albanese invece ha pubblicato il testo dell’accordo il giorno successivo alla conferenza. 

In Italia e in Albania l’annuncio dell’accordo è stato dato in modo differente. Come dicevamo, Meloni ha informato gli italiani con una conferenza stampa congiunta, che Rama ha poi diffuso sul suo canale Youtube in albanese. Secondo Faktoje, in Albania è mancata trasparenza da parte del primo ministro, che per dare notizia dell’accordo ha ricondiviso sui social un video di Meloni senza la traduzione in lingua albanese e non ha rivolto nessun messaggio al suo Paese, ma solo ai media italiani.

Le proteste albanesi e italiane

La scarsa trasparenza sull’accordo tra Italia e Albania ha portato in Albania alla diffusione non solo di teorie del complotto e panico, ma anche all’uso di un linguaggio razzista e discriminatorio nei confronti delle persone che sarebbero state ospitate nei centri. Queste reazioni sono state registrate sia nella società sia a livello parlamentare, dove l’opposizione ha sollevato preoccupazioni sulla sicurezza nazionale e su possibili minacce terroristiche. Alcuni attivisti delle aree di Lezhë, a nord-ovest del Paese, hanno protestato contro la creazione dei centri, esprimendo preoccupazione per il loro impatto sulla vita e la sicurezza del territorio, mentre alcune organizzazioni della società civile e attivisti dei diritti umani hanno criticato la mancanza di coinvolgimento delle maggiori istituzioni del Paese (il presidente e il parlamento), delle istituzioni locali, nonché della comunità locale e della società in generale.

Un mese dopo l’accordo, il Partito Democratico in Albania – all’opposizione – ha presentato due cause separate alla Corte costituzionale, sostenendo che l’accordo violava la Costituzione, la Convenzione europea sui diritti umani e il diritto internazionale dei rifugiati. Parallelamente alla causa, 31 organizzazioni non governative (ONG) albanesi hanno firmato un amicus curiae, cioè un documento che contiene informazioni aggiuntive indirizzate alla Corte costituzionale, in merito all’importanza della trasparenza e al rispetto dei diritti fondamentali dei richiedenti asilo e dei rifugiati. Anche in Italia alcune ONG hanno espresso preoccupazione per la possibile violazione dei diritti umani nei centri in Albania e a questo tema molti giornali hanno dedicato approfondimenti e inchieste.

Sebbene subito dopo l’accordo in Albania ci siano state forti contestazioni, in realtà si sono presto dimostrate frammentarie e senza una regia comune. La maggior parte degli albanesi non si è opposta all’accordo per diversi motivi. Come abbiamo spiegato, la parte albanese ha concesso alla parte italiana il diritto di utilizzare gratuitamente le zone designate dal protocollo. L’Italia, a sua volta, ha coperto e coprirà tutti i costi, dalla creazione dei campi alle spese. Al termine del protocollo, la parte italiana restituirà le aree alla parte albanese, senza alcun obbligo di compensazione per i miglioramenti apportati. Inoltre, i centri per i migranti sono stati costruiti in una zona povera, di conseguenza i residenti hanno visto l’accordo come una buona opportunità per trovare lavoro.
Nonostante le proteste man mano si siano affievolite, in Albania rimangono ancora dubbi sul rispetto dei diritti dei migranti, in particolare sulle condizioni nei centri, le garanzie di protezione legale, la trasparenza nell’esame delle richieste di asilo e il controllo giudiziario durante la detenzione. Inoltre, dato che i centri sono vuoti e che nessun migrante è ancora stato rimpatriato, rimangono punti di domanda anche sullo svolgimento delle procedure di rimpatrio.
Un gruppo di attivisti albanesi davanti al porto di Shengjin a ottobre 2024 - Fonte: ANSA
Un gruppo di attivisti albanesi davanti al porto di Shengjin a ottobre 2024 - Fonte: ANSA

I ritardi

Dalla ratifica del protocollo l’accordo ha subito ritardi nella sua attuazione, dovuti principalmente a motivi logistici e operativi. L’apertura era prevista il 20 maggio 2024, ma è stata posticipata a ottobre, quando i centri sono stati aperti con capacità limitata. Secondo il protocollo, a pieno regime possono ospitare fino a 3 mila migranti contemporaneamente.

I primi 16 migranti sono arrivati ai centri di accoglienza a metà ottobre, seguiti da un secondo gruppo più piccolo. Poco dopo l’arrivo in Albania, 4 dei primi 16 migranti sono stati riportati in Italia: due perché minorenni e altri due a causa di problemi di salute. In entrambi i casi, i controlli sanitari per gli sbarchi erano durati diverse ore, sollevando preoccupazioni sulle risorse umane disponibili nel caso di un flusso migratorio più ampio e sull’attuabilità futura dell’accordo. Pochi giorni dopo poi il Tribunale di Roma ha deciso di non convalidare il trattenimento degli altri migranti.

I dubbi sugli appalti

Tra i principali dubbi sull’accordo tra Italia e Albania ci sono gli appalti. Secondo Faktoje, ci sono segnalazioni di società subappaltatrici provenienti dall’Albania il cui ruolo non è chiaro. Quello che si sa grazie a fonti non ufficiali è che alcune di queste aziende sono state appaltate per la manutenzione, la pulizia dei centri e la fornitura di cibo. A Tirana è stato pubblicato solo il protocollo con i due allegati, ma senza le appendici contenenti i dettagli specifici relativi agli eventuali appalti.

In Italia la situazione è un po’ più chiara, anche se rimangono comunque dei punti di domanda. Come stabilisce l’articolo 5 della legge di ratifica del protocollo, la progettazione e l’esecuzione dei lavori è stata assegnata al Genio Militare, cioè il corpo militare che fa capo al Ministero della Difesa e che si occupa della progettazione, realizzazione e manutenzione delle costruzioni edili. La legge di ratifica indica anche che il Genio Militare può stipulare contratti di appalto di lavori, servizi o forniture. L’appalto per il funzionamento e la gestione dei centri in Albania è stato assegnato a maggio a Medihospes, una cooperativa sociale con sede a Roma che offre su tutto il territorio italiano servizi rivolti agli anziani e alle persone disabili, oltre ad occuparsi di accoglienza ai migranti.

Negli anni la Medihospes, che prima si chiamava Senis Hospes, è stata al centro di diverse inchieste giornalistiche. Nel 2016 la rivista L’espresso aveva raccontato la situazione del Centro di accoglienza per richiedenti asilo di Borgo Mezzanone, in provincia di Foggia, gestito dalla Senis Hospes. L’inchiesta aveva messo in luce le condizioni disumane in cui le persone migranti erano costrette a vivere, portando anche l’allora ministro dell’Interno Angelino Alfano a disporre verifiche su quel centro. Poi nel 2017 l’Osservatorio sulla detenzione amministrativa degli immigrati e l’accoglienza dei richiedenti asilo in Puglia aveva redatto un documento dopo aver fatto un sopralluogo nel centro di Borgo Mezzanone. La struttura, che nel 2017 era ancora gestita dalla Senis Hospes, viene descritta dall’Osservatorio come «in condizioni di cronico sovraffollamento», con moduli abitativi e servizi «letteralmente fatiscenti o inservibili».
Il centro di Shëngjin a ottobre 2024 - Fonte: ANSA
Il centro di Shëngjin a ottobre 2024 - Fonte: ANSA
In questi mesi sono stati anche sollevati dubbi sul contratto che avrebbe dovuto essere stipulato tra la prefettura di Roma e Medihospes. Il 20 novembre la rivista mensile indipendente Altreconomia ha denunciato per prima la mancanza del contratto tra la prefettura di Roma, che è la stazione appaltante, cioè l’ente pubblico che affida l’appalto, e Medihospes che ha vinto l’appalto. Come hanno spiegato il giornalista Luca Rondi e il consulente legale Lorenzo Figoni su Altreconomia, «secondo il codice degli appalti è previsto che dal momento dell’aggiudicazione la stazione appaltante entro sessanta giorni stipuli il contratto con chi ha vinto la gara pubblica: un termine ampiamente superato dall’aggiudicazione da parte della Cooperativa sociale Medihospes del 16 aprile 2024». Del contratto ancora non c’è traccia online.

Anche capire quanti dipendenti di Medihospes lavorano nei centri non è facile. «Quando siamo andati a fare il sopralluogo a novembre c’erano poche persone di Medihospes, ma penso sia normale considerando che i centri erano vuoti e che la società viene pagata in base al numero di persone che gestisce», ha spiegato a Pagella Politica la presidente del partito progressista Volt Europa Francesca Romana D’Antuono. La presidente di Volt Europa a fine novembre è andata a visitare i centri in Albania insieme a una delegazione del partito: hanno visto da fuori  Shëngjin e sono entrati a Gjadër. Oltre a Romana D’Antuono, c’erano quattro eurodeputati, la presidente di Volt Albania e due presidenti di Volt Italia.

Il 22 novembre Il Manifesto aveva rivelato che il personale di Medihospes sarebbe rientrato tutto in Italia entro la fine di quella settimana quindi, stando alle indiscrezioni diffuse dal quotidiano, nei centri al momento non dovrebbe esserci nessuno della cooperativa sociale. Pagella Politica ha contattato Medihospes per una conferma, ma l’ufficio stampa ha detto di non poter diffondere quelle informazioni perché non autorizzato dalla prefettura di Roma.

Quante persone lavorano nei centri?

Molti punti di domanda rimangono anche sul personale assunto nei centri, sia albanese che italiano, oltre a quello assunto grazie agli appalti. Per quanto riguarda l’Albania, al momento non sono disponibili informazioni ufficiali su quanti albanesi sono stati assunti, né su quanti hanno fatto richiesta di assunzione, quali sono le condizioni dei contratti, i salari, la durata dell’impiego e cosa succede se i centri non funzionano. Faktoje ha inviato una richiesta di informazioni all’Ambasciata d’Italia a Tirana chiedendo il numero di persone impiegate nei centri, sia albanesi che italiane, e che tipo di lavoro svolgono. L’ambasciata ha risposto che «il Ministero dell’Interno italiano, oltre all’Accordo Italia-Albania, ha contratto una società estera per fornire una serie di servizi all’interno dei centri, come pulizia, cucina, assistenza sanitaria, psicologica, legale, ecc. È questa società che effettivamente impiega personale italiano e/o albanese. Pertanto, l’Accordo Italia-Albania non prevede l’assunzione di personale da parte dello Stato italiano o dello Stato albanese». L’ambasciata quindi ha dichiarato che non è prevista l’assunzione di personale da parte dello Stato italiano o albanese, eppure secondo gli articoli della ratifica del protocollo sono state assunte diverse persone per lavorare nei centri e nella loro gestione, anche se non è chiaro il numero preciso. 

Alcune informazioni sui numeri sono contenute nella ratifica del protocollo tra il governo della repubblica italiana e il Consiglio dei ministri della Repubblica di Albania. L’articolo 5 stabilisce l’assunzione di 45 funzionari che fanno capo al Ministero dell’Interno, 10 funzionari per l’attuazione del Protocollo sotto il Ministero della Giustizia, altri 18 funzionari e 30 assistenti per il tribunale di Roma e l’ufficio del giudice di Pace di Roma e 10 magistrati ordinari sempre sotto il Ministero della Giustizia. A questi poi si aggiungono 5 dirigenti sanitari, 4 funzionari sanitari e 2 funzionari amministrativi selezionati dal Ministero della Salute, oltre a 28 persone assunte dall’Istituto nazionale per la promozione della salute delle popolazioni migranti e per il contrasto delle malattie della povertà, che è un ente del Servizio sanitario nazionale vigilato dal Ministero della Salute. Quindi, in tutto, 152 persone. Il numero è confermato anche da un dossier della Camera, che ha riepilogato le spese generate dall’accordo. Secondo il dossier, per le 152 persone assunte la spesa stimata è di 7,1 milioni di euro per il 2024, 8,6 milioni per il 2025 e 8,8 milioni per il 2026.
Due poliziotti all'ingresso del centro a Shëngjin a ottobre 2024 - Fonte: ANSA
Due poliziotti all'ingresso del centro a Shëngjin a ottobre 2024 - Fonte: ANSA
Il protocollo poi parla anche di responsabili italiani e vicari per ogni area dei centri e di «ulteriori posti di giudice onorario di pace», per questi ruoli non è noto il numero, ma il protocollo indica che non è previsto alcun costo aggiuntivo per la finanza pubblica. Il punto di domanda maggiore rimane sul numero delle forze dell’ordine. Nell’articolo 5 si specifica solo che per il personale delle forze armate, delle forze di polizia e delle amministrazioni pubbliche inviato in Albania si applica un’indennità di missione, in aggiunta allo stipendio, agli assegni e alle indennità già previste. Fonti del Ministero dell’Interno contattate da Pagella Politica spiegano che non è possibile sapere il numero esatto di agenti assunti per lavorare nei centri in Albania per motivi di sicurezza. «Non sono pubblici nemmeno i numeri degli agenti che lavorano a Rebibbia, nelle altre carceri o nei luoghi di sicurezza, non è una questione di scarsa trasparenza, ma di salvaguardia degli agenti e del luogo», hanno commentato dal ministero. «Il numero di chi si occupa della sicurezza nei centri ora è ai minimi termini. Ma qualcuno deve esserci sempre, non si possono lasciare le strutture non controllate e poi è necessario garantire un ripristino operativo immediato se ce ne fosse bisogno», hanno aggiunto dal Ministero dell’Interno italiano. 

Alcuni giornali riportano qualche numero, ad esempio secondo Sky Tg24, a metà novembre gli agenti in trasferta erano 170, ridotti dagli iniziali 220 per mancanza di persone migranti all’interno dei centri. Questo dato però non è confermato da nessuna fonte ufficiale pubblicamente disponibile online.

Per quanto riguarda la parte albanese, gli agenti garantiscono il mantenimento dell’ordine e della sicurezza pubblica nel perimetro esterno e durante il trasporto via terra da e verso tali zone, che avviene nel territorio albanese. I numeri del personale albanese, al contrario di quelli sul personale italiano, sono disponibili. Il Ministero degli Interni albanese ha informato Faktoje che «attualmente sono impegnate 117 forze dell’ordine albanesi, in particolare 80 per la sicurezza della zona di Gjadër e il resto a Shëngjin». Per quanto riguarda il pagamento e i contratti si tratta di una questione che coinvolge la parte italiana e non ci sono informazioni in merito.

«I numeri ufficiali del personale nei centri non si sanno, quello che sappiamo è che quando siamo andati noi c’erano 12 unità di polizia penitenziaria ed era previsto che alcune rientrassero in Italia», ha detto a Pagella Politica Francesca Romana D’Antuono. Quando la delegazione di Volt ha visitato i centri a fine novembre le persone migranti già non c’erano più. «Sono stata nei centri una prima volta con la delegazione di Volt e una seconda a inizio dicembre per una manifestazione, anche se a dicembre non siamo entrati ma siamo stati solo fuori e per le strade della capitale Tirana. Quando ci sono andata io non c’era nessuno nei centri oltre al personale e ancora oggi sono vuoti, di conseguenza è normale che chi lavora lì non abbia niente da fare», ha aggiunto la presidente di Volt Europa. Il 6 dicembre 2024 la trasmissione televisiva albanese Piranjat ha mandato in onda un’inchiesta sui poliziotti che lavorano al centro migranti di Shëngjin, in cui i giornalisti con la telecamera nascosta riprendono alcuni agenti che raccontano di aver visitato Durazzo, Scutari e Tirana perché hanno molto tempo libero. «Dobbiamo monitorare i centri, ma sono vuoti», ha detto nell’inchiesta uno degli agenti.

Che cosa sta succedendo adesso nei centri?

Faktoje ha visitato le aree in cui sono stati allestiti i centri per migranti a Shëngjin e Gjadër per osservare da vicino la situazione. Dai contatti sul campo (in via non ufficiale), la redazione ha appreso che attualmente lavorano nei centri quattro medici (tre a Gjadër e uno a Shëngjin), mentre a Gjadër si reca regolarmente anche uno psicologo, oltre al personale che si occupa delle pulizie. 

Gjadër è una zona povera, un tempo caratterizzata dalla presenza di un aeroporto militare, un piccolo cinema e un’impresa. Oggi, il paese è contraddistinto da edifici in rovina e da una scuola con poche aule. Gli abitanti vivono principalmente grazie al supporto economico delle famiglie. Oggi, a differenza di qualche mese fa, mostrano poco interesse per le attività all’interno del centro migranti, anche se una semplice curva li separa dal perimetro principale del centro, situato nella piana di Zadrima.

A Gjadër la parte posteriore del centro è sorvegliata da una società di sicurezza privata, mentre l’ingresso principale è monitorato da due agenti di polizia albanesi che lo sorvegliano 24 ore su 24. Intorno al campo di Gjadër, Faktoje ha contato dieci auto con targhe albanesi parcheggiate e ha visto lavori in corso per l’installazione di tubature idriche da parte di una compagnia privata, di cui gli abitanti non sono però al corrente.

A Shëngjin il centro di accoglienza è “nascosto” all’interno dell’area del porto ed è circondato da edifici. Si distingue solo per le bandiere italiane e per la diversa struttura architettonica rispetto agli altri edifici. L’intera area si perde nell’infrastruttura del porto, circondata da un lato da barche e dall’altro da due navi abbandonate e due auto bruciate. All’ingresso principale del porto Faktoje ha visto tre auto con targhe italiane e un autobus vuoto utilizzato per il trasporto dei migranti. Le visuali all’esterno del campo sono limitate a causa delle rigide norme di sicurezza. È severamente vietato fotografare i centri, sia dall’interno che dall’esterno, senza il permesso delle autorità competenti. Questo divieto si estende anche alle auto della polizia italiana parcheggiate nella parte posteriore di un hotel a Shëngjin, dove di solito alloggiano le forze dell’ordine italiane. C’è poi un altro hotel, più lontano dal porto, che ospita anch’esso le forze dell’ordine italiane e che durante la visita di Faktoje era vuoto all’ingresso. L’unica traccia visibile della presenza italiana era la bandiera affissa. Anche il ristorante noto con il soprannome “Meloni”, situato di fronte al porto, era quasi vuoto. In entrambi i centri le attività sono attualmente sospese, ma i lavori a Gjadër e le informazioni dal campo suggeriscono che saranno riattivati.

Secondo quanto hanno potuto vedere i giornalisti di Faktoje, è evidente che la popolazione non è completamente al corrente di ciò che succede nei pressi dei centri e in molti casi l’atmosfera è dominata dal timore e dalla diffidenza, sia tra gli abitanti che tra i dipendenti.

Diverse coperture mediatiche

Ricapitolando: la stampa albanese e quella italiana hanno trattato in modo diverso la questione della costruzione e gestione dei centri in Albania. 

In Albania la copertura mediatica è stata limitata e formale, si è focalizzata principalmente sul racconto delle proteste, senza però l’osservazione diretta di ciò che sta accadendo nei centri per migranti e limitandosi in molti casi a tradurre ciò che scrivevano i media italiani. Il dibattito in Albania è stato riacceso a inizio dicembre dopo che alcuni attivisti italiani e albanesi hanno organizzato delle proteste a Shëngjin, Gjadër e Tirana. Le proteste hanno ricevuto una regolare copertura mediatica albanese, anche se in Italia è stata data molta più attenzione. 

Dalla firma dell’accordo tra Meloni e Rama infatti i media italiani periodicamente sono tornati a interessarsi dei centri per persone migranti, anche con inchieste giornalistiche, focalizzando spesso l’attenzione sulla possibile violazione dei diritti umani delle persone ospitate nei centri. Nonostante la copertura mediatica italiana sia stata più completa, rimangono molti punti di domanda da risolvere. Dagli appalti al numero di persone che lavorano nei centri, senza dimenticare che al momento nessuna persona migrante è stata rimpatriata nel Paese di origine.

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