Il Movimento 5 Stelle e Fratelli d’Italia devono leggere meglio il Financial Times

Entrambi i partiti hanno rilanciato due articoli del quotidiano finanziario – uno sul Superbonus, l’altro sullo spread – citando solo le parti che più facevano loro comodo
Pagella Politica
Negli scorsi giorni il Movimento 5 Stelle e Fratelli d’Italia hanno rilanciato due articoli del Financial Times che, a detta loro, elogerebbero rispettivamente i benefici del Superbonus e i risultati economici del governo Meloni. «Grazie al Superbonus l’economia italiana è cresciuta di più rispetto agli altri Paesi Ue. Chi lo dice? Lo scrive il Financial Times, che in questo modo ridicolizza i pietosi tentativi di Meloni e Giorgetti di scaricare sul Superbonus le colpe dei loro fallimenti economici», ha scritto il Movimento 5 Stelle il 15 marzo sul suo sito ufficiale. 

Due giorni dopo il partito della presidente del Consiglio ha dichiarato sui social network, riferendosi al Financial Times: «Anche il quotidiano londinese promuove l’azione del governo Meloni, riconoscendo che la crescente fiducia da parte dei mercati è merito di un’efficace gestione dell’economia».

In entrambi i casi, vari parlamentari dei due partiti hanno poi rilanciato i due articoli del Financial Times, con tanto di grafici a supporto. Abbiamo controllato che cosa ha scritto davvero il quotidiano finanziario nei due articoli citati: sia il Movimento 5 Stelle sia Fratelli d’Italia dovrebbero rileggerli con più attenzione.

L’articolo sul Superbonus

Iniziamo con l’articolo sul Superbonus, che è stato pubblicato dal Financial Times il 7 marzo scorso con il titolo: “Italy: Europes’ unlikely outperformer”. Come sostiene il Movimento 5 Stelle, è vero che il quotidiano finanziario ha attribuito al Superbonus parte dei meriti della crescita economica registrata dall’Italia negli ultimi anni. Fatto 100 il valore del Pil italiano all’inizio del 2019, infatti, a novembre 2023 il Pil del nostro Paese era pari a 104,2, con una crescita più alta di quella registrata da Germania, Francia e Regno Unito. 

L’articolo del Financial Times spiega che tra la fine del 2019 e la fine del 2023 gli investimenti in Italia, che conteggiano anche quelli nel settore dell’edilizia, sono cresciuti del 30 per cento. È l’aumento più alto mai registrata dal 2000, da quando si è iniziato a raccogliere dati comparabili. In Francia e nel Regno Unito la crescita è stata del 7 per cento, mentre in Germania si è registrata una riduzione del 5 per cento.

Questa forte crescita degli investimenti – scrive il Financial Times – è attribuibile in gran parte al Superbonus, che ha evidentemente avuto un impatto anche sulla crescita del Pil. Il suo contributo all’economia del Paese è stato comunque più basso rispetto a quanto ripetuto nei mesi scorsi dai suoi principali sostenitori. Per esempio, secondo l’Ufficio parlamentare di bilancio, nel 2021 e nel 2022 il contributo degli investimenti in costruzioni residenziali alla crescita del Pil è stato di due punti percentuali, di cui uno è riconducibile al Superbonus. Questa stima è più o meno in linea con quelle fatte dall’Agenzia dell’Entrate e dal Ministero dell’Economia.

L’impatto del Superbonus si vede anche nella crescita del settore delle costruzioni in Italia, la cui produzione è aumentata del 40 per cento tra la fine del 2019 e la fine del 2023. Nello stesso periodo, la produzione nelle costruzioni è calata del 13 per cento in Spagna, del 7 per cento in Germania ed è rimasta stabile in Francia.

Insomma, guardando solo questi dati, agli occhi del Movimento 5 Stelle il Superbonus potrebbe sembrare un successo, che ha permesso all’Italia di superare tutte le altre economie europee. Non basta però valutare solo l’efficacia di questa misura, ossia i risultati che ha permesso di raggiungere, ma va considerata anche la sua efficienza: quanto è costato infatti il Superbonus? In breve: moltissimo. Come sottolinea lo stesso articolo del Financial Times, l’impatto del Superbonus «sul deficit è stato molto forte negli ultimi anni, dato che il costo effettivo ha continuato a superare la stima ufficiale». Il deficit, lo ricordiamo, è la differenza in negativo tra quanto lo Stato spende e incassa.

Nel tempo il costo del Superbonus è cresciuto parecchio rispetto alle stime iniziali. Secondo i dati più aggiornati dell’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile (Enea), alla fine di febbraio 2024 le detrazioni maturate per i lavori conclusi con il Superbonus hanno raggiunto un valore superiore ai 114 miliardi di euro.  

Il Superbonus ha anche condizionato molto l’andamento dei conti pubblici. Di recente l’Istat ha rivisto al rialzo il deficit registrato nel 2023: il governo aveva previsto fosse pari al 5,3 per cento del Pil, in realtà è stato del 7,2 per cento, proprio a causa del bonus edilizio. Questa percentuale è pari al doppio della media dell’Unione europea ed è particolarmente preoccupante per il nostro Paese, che ha il secondo rapporto tra debito pubblico e Pil più alto nell’Ue. Il forte impatto del Superbonus sulla crescita non è bastato a far scendere il rapporto tra il debito e il Pil, suggerendo che l’efficacia della misura sia stata piuttosto limitata e, anzi, possa aver aggravato ulteriormente lo stato dei conti pubblici italiani.

Non a caso, gli analisti interpellati dal Financial Times ipotizzano che la crescita italiana subirà un brusco rallentamento nei prossimi mesi e nei prossimi anni perché si sarà esaurito l’effetto del Superbonus, mentre i problemi strutturali del nostro Paese saranno ancora irrisolti. Non si può infatti osservare la crescita sopra la media dell’Italia negli ultimi quattro anni senza contestualizzarla all’interno di un periodo di stagnazione ventennale: dal 2000 a oggi, il Pil italiano è cresciuto solo del 7 per cento, contro una media tra il 30 e il 40 per cento per le altre grandi economie europee.

Insomma, il Financial Times parla della “guarigione miracolosa” dell’economia italiana grazie alla medicina del Superbonus, ma sottolinea anche il rischio che questa misura si trasformi in un “doping” che migliora solo temporaneamente la situazione, senza un effetto positivo nel lungo periodo. Anzi, con possibili effetti collaterali.

L’articolo sullo spread

Fratelli d’Italia ha invece rilanciato un altro articolo del Financial Times, pubblicato il 14 marzo e intitolato: “Italy’s bond spread sinks to 2-year low as economy outshines Germany”, ossia: “Lo spread delle obbligazioni italiane scende al minimo da due anni mentre l’economia supera la Germania”.

Normalmente lo spread indica la differenza tra il rendimento dei Btp, ossia i titoli di Stato italiani con scadenza a 10 anni, e quello dei suoi corrispettivi tedeschi, i Bund. Un aumento dello spread è di norma interpretato come un peggioramento della fiducia nei titoli di Stato italiani da parte degli investitori, mentre un calo dello spread è letto come un aumento di fiducia.

Oggi lo spread vale circa 125 punti base, contro i 160 di inizio anno e i 250 nel momento in cui il governo Meloni si è insediato, a ottobre 2022. Il livello attuale rappresenta quindi il dato più basso da novembre 2021. Detto in altre parole, al momento c’è una differenza di 1,25 punti percentuali tra il rendimento dei titoli italiani e quelli tedeschi. Trattandosi di una differenza, per definizione lo spread può scendere per due motivi: se cala il rendimento dei titoli di stato italiani oppure se aumenta quello dei titoli tedeschi.

Nel suo articolo, il Financial Times descrive i meriti del governo Meloni nel mantenere costante il rendimento dei titoli italiani, nonostante molti analisti si aspettassero un suo aumento a causa delle posizioni euroscettiche di alcuni partiti della maggioranza. La svolta verso una maggiore stabilità e un maggiore rigore sui conti del governo, però, ha contribuito a evitare questo scenario. È vero, il costo di indebitarsi dell’Italia non è cresciuto da quando Meloni si è insediata, ma va detto che non è nemmeno calato in modo particolare. A oggi è pari in media al 3,7 per cento, contro il 3,9 per cento di novembre 2022, il primo mese in cui ha governato per intero l’attuale governo.

A peggiorare, invece, è stata la performance della Germania: il rallentamento economico ha fatto crescere le preoccupazioni intorno al Paese che negli ultimi anni è stato preso come esempio di stabilità e solidità economica (è proprio per questo motivo che si considera il differenziale con la Germania per valutare lo stato di salute di un’economia).

A novembre 2022, il rendimento dei Bund tedeschi a dieci anni era sotto il 2 per cento, mentre oggi è sopra al 2,4 per cento. È ancora peggiore la situazione rispetto alla metà del 2022: a luglio di quell’anno, il rendimento italiano era di soli 0,5 punti percentuali più basso rispetto ai livelli attuali, mentre quello tedesco era di ben 1,6 punti percentuali inferiore.

Il calo dello spread non ha riguardato solo l’Italia, proprio perché dipende dal peggioramento delle condizioni di indebitamento della Germania. In Grecia, per esempio, lo spread con i Bund tedeschi era superiore ai 200 punti base a ottobre 2022, mentre oggi si ferma a 86 punti base (0,86 punti percentuali), un livello inferiore a quello dell’Italia. Cali simili si sono registrati anche in Francia, Regno Unito e Spagna.

Insomma, se è vero che l’articolo del Financial Times elogia la capacità del governo italiano nel mantenere la fiducia dei mercati e, quindi, non far crescere il costo del debito, anche in questo caso questa notizia va contestualizzata, come del resto fa il quotidiano stesso nella sua analisi.

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