I motivi dei dazi di Trump contro l’Ue sono poco solidi

Nella lettera a von der Leyen il presidente degli Stati Uniti ha elencato le ragioni della sua decisione, ma non sono supportate dai numeri e dalla teoria economica
ANSA
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Negli ultimi giorni l’Unione europea sta valutando come reagire alla decisione del presidente degli Stati Uniti Donald Trump di imporre nuovi dazi verso i Paesi europei. L’11 luglio, infatti, Trump ha inviato una lettera alla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen in cui ha annunciato l’intenzione di imporre dal 1° agosto tariffe del 30 per cento sui beni europei importati dagli Stati Uniti. Nella lettera, Trump ha elencato una serie di motivazioni dietro a questa sua scelta di riproporre i dazi, dopo la minaccia fatta lo scorso aprile, e che però non ha avuto seguito. Dal canto suo, l’Unione europea potrebbe rispondere a Trump imponendo dei contro-dazi alle merci statunitensi. Questa strategia, però, vede contrari diversi leader europei, tra cui la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, che si è espressa a favore di un negoziato. Sull’utilità dei contro-dazi ci torneremo più avanti.

I motivi per cui Trump ha scelto di imporre i dazi all’Europa sono diversi ma, allo stesso tempo, non del tutto solidi. Vediamoli uno per uno.

La grandezza del mercato statunitense 

Nella parte iniziale della lettera, Trump (il cui testo si può leggere qui in originale e qui tradotto) ha sottolineato l’importante disavanzo commerciale tra Stati Uniti e Unione europea, a svantaggio degli Stati Uniti. La bilancia commerciale è la differenza tra quanto gli Stati Uniti importano da un Paese – in questo caso l’Unione europea – e quanto esportano verso quel Paese. Quando il suo saldo è negativo, si parla appunto di “disavanzo commerciale”. Il disavanzo indica che gli Stati Uniti importano più prodotti e servizi dall’Ue di quanti non ne riescano a vendere ai cittadini europei. Secondo i dati più aggiornati dell’Ufficio del Rappresentante per il Commercio degli Stati Uniti d’America, nel 2024 il disavanzo commerciale per i beni tra Stati Uniti ed Unione europea valeva circa 253 miliardi di dollari. Semplificando, questo significa che l’Ue “guadagna” dal commercio con gli Stati Uniti mentre quest’ultimi “ci perdono”. In realtà, come vedremo più avanti, le cose non sono così semplici. 

Comunque, in virtù del disavanzo commerciale, Trump vorrebbe risolvere le controversie attraverso un «commercio giusto» (fair TRADE). Come dovrebbe essere questo commercio giusto? Secondo Trump, il primo passo per l’Unione europea è partecipare a quello che ha definito «di gran lunga il più grande mercato al mondo», ossia gli Stati Uniti. Ma che cosa significa il più grande mercato al mondo? Stabilire quanto un mercato economico sia effettivamente grande non è semplice. Se prendiamo in considerazione la dimensione di una singola economia statale, gli Stati Uniti sono in effetti il primo Paese al Mondo per Prodotto interno lordo (PIL), con un valore di quasi 30 mila miliardi di dollari (la Cina, al secondo posto, si ferma a 19 mila miliardi).

Se consideriamo però un “libero mercato”, ossia un sistema di libero scambio tra più Paesi, il discorso è diverso. Nel 2023 il World Economic Forum ha pubblicato uno studio, basato su dati del 2019, sulle aree di libero scambio più grandi al mondo. Lo studio ha preso in considerazione il PIL prodotto dal commercio, e non da tutta l’economia di un’area di libero scambio, che comprende anche i consumi, gli investimenti e la spesa pubblica. Secondo il World Economic Forum, l’area di libero scambio con il PIL più elevato al mondo è la Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP), ossia l’unione di 15 Paesi asiatici e oceanici, tra cui Vietnam, Malesia e Australia. L’insieme di questi Paesi ha un PIL pari a circa 26 mila miliardi di dollari ed è al primo posto. Come zona di libero scambio, l’Unione europea è terza con 19 mila miliardi di dollari di scambi dietro al trattato di libero scambio tra Canada, Messico e Stati Uniti, che vale 25 mila miliardi.

Un assunto sbagliato

Per colmare il disavanzo degli Stati Uniti nei confronti dell’Unione europea, Trump ha deciso dunque di applicare dazi del 30 per cento ai beni provenienti dall’Unione europea. L’obiettivo è rendere più conveniente la produzione negli Stati Uniti.

I dazi, però, non sono un incentivo per le imprese a trasferirsi, ma un disincentivo a esportare negli Stati Uniti i loro prodotti. Un dazio è infatti un’imposta che si applica ai beni importati quando entrano in un Paese. Può essere calcolato in percentuale sul valore del bene (in questo caso si parla di dazio ad valorem) oppure in cifra fissa per unità di merce. Di fatto, imponendo i dazi verso l’Ue, Trump sta offrendo alle imprese straniere una sorta di “paradiso fiscale”. Se le imprese straniere decidessero di trasferire la produzione negli Stati Uniti, potrebbero accedere a un mercato grande avendo un vantaggio elevato: il fatto di non pagare i dazi. Così, a parità di costo di produzione, i beni prodotti dalle fabbriche negli Stati Uniti avrebbero un prezzo di gran lunga inferiore rispetto a quello dei beni prodotti in Europa.
Il ragionamento dietro a questa misura sembra sensato, ma si basa su un principio sbagliato: il fatto che le differenze commerciali tra Stati Uniti ed Europa sarebbero “ingiuste”, come ha fatto intendere Trump nella sua lettera. L’Unione europea e gli Stati Uniti sono due aree economiche simili: i costi delle materie prime e dell’energia sono infatti paragonabili, sebbene ci siano alcune differenze nella tutela dei lavoratori. L’indice di protezione dell’occupazione elaborato dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE), che sintetizza il livello di tutela in un Paese, è infatti più alto nei Paesi europei. La differenza potrebbe quindi dipendere da un diverso livello di produttività in determinati settori: gli statunitensi potrebbero decidere di acquistare dagli europei alcuni beni semplicemente perché sono di qualità migliore. L’esempio più semplice sono le esportazioni del lusso e dell’agroalimentare.

Secondo alcuni economisti, un fattore significativo dietro al disavanzo commerciale degli Stati Uniti verso l’Ue è il tasso di cambio. Nel 1987 gli economisti Paul Krugman e Richard Baldwin avevano ipotizzato che la persistenza del disavanzo degli Stati Uniti fosse legata al fatto che il dollaro è tendenzialmente una moneta molto forte, con un potere d’acquisto che tende a essere favorito con il tasso di cambio. In altre parole, questo significa che di solito per un cittadino statunitense acquistare beni dall’estero è conveniente perché alla sua moneta viene riconosciuto un valore superiore, per la sua stabilità, per il suo valore politico e per la sua semplicità nell’essere usata nelle transazioni. È noto, per esempio, che avere a disposizione dei dollari in contanti aiuta a fare scambi commerciali in quasi ogni parte del mondo ci si trovi. Una cosa che non si potrebbe dire, per esempio, del baht thailandese.

A questo, Krugman e Baldwin hanno aggiunto tra i motivi del disavanzo una crescita della domanda di prodotti da parte dei consumatori statunitensi più rapida rispetto al resto del mondo a partire dal 1980. In pratica, negli Stati Uniti i cittadini sarebbero più “consumisti” e questo costringerebbe il Paese a importare più beni dall’estero. Insomma, secondo Krugman e Baldwin, non sono i Paesi europei a fare concorrenza sleale agli Stati Uniti, ma sarebbero le politiche e le abitudini degli statunitensi stessi ad aver contribuito ad aumentare il disavanzo. 

Il disavanzo commerciale è anche indicativo del fatto che gli Stati Uniti riescono a generare più ricchezza da investire di quanta non ne riescano a spendere sul loro territorio. Il disavanzo commerciale può infatti anche essere visto come la differenza tra il risparmio e l’investimento. Se si accumulano grandi ricchezze (risparmi) e non si sa più come spenderle nel proprio Paese, si finisce per comprare beni e servizi stranieri, oltre a fare appunto investimenti all’estero. In questo senso, i Paesi stranieri «si approfittano» degli Stati Uniti, come sostiene Trump non perché facciano nulla di sbagliato, ma perché beneficiano di risorse investite da quel Paese. Per come viene presentata la cosa, però, sembrerebbe che gli Stati Uniti stiano facendo un favore a queste economie, quando in realtà stanno semplicemente acquistando prodotti o servizi in cambio di denaro. 

In più, questa condizione di Paese che ha sempre un credito da incassare porta molti vantaggi dal punto di vista politico agli Stati Uniti. Ciò è dimostrato proprio dalla risonanza delle decisioni di Trump sui dazi. Essendo gli Stati Uniti il principale mercato di esportazioni per molti Paesi del mondo – per l’Italia, per esempio, sono il secondo mercato di sbocco –, la dipendenza commerciale permette agli Stati Uniti di avere un’influenza politica su questi Paesi. Per esempio, Trump potrebbe decidere di vietare la vendita di vino italiano negli Stati Uniti se l’Italia non dovesse incentivare con sgravi fiscali la vendita di auto statunitensi. È un esempio piuttosto estremo, ma è evidente che una minaccia di questo tipo avrebbe conseguenze molto negative sul settore agroalimentare, che rappresenta una componente importante della nostra economia.

Comunque, la lettera di Trump termina con la minaccia da parte del presidente degli Stati Uniti di alzare ulteriormente i dazi in futuro se l’Unione europea decidesse di rispondere con dei contro-dazi. Se, per esempio, l’Unione europea decidesse di imporre dazi ai beni e ai servizi statunitensi al 10 per cento, gli Stati Uniti potrebbero replicare con un’ulteriore dazio sui prodotti importati dall’Ue, che farebbe salirebbe al 40 per cento le tariffe sui prodotti europei (il 30 per cento iniziale più il 10 per cento in risposta ai contro-dazi). Con questa minaccia, Trump vuole impedire qualsiasi tipo di ritorsione da parte dell’Ue. In ogni caso, come abbiamo spiegato in un altro approfondimento, un’eventuale ritorsione dei Paesi europei attraverso i contro-dazi rischierebbe di danneggiare ancora di più l’Unione europea.

Perché è così importante ridurre il deficit?

Per valutare la decisione di Trump un aspetto fondamentale è poi la deindustrializzazione, ossia il processo che porta le imprese a spostare la loro attività industriale.

Si può anche sostenere che i Paesi europei abbiano sfruttato a loro vantaggio il disavanzo statunitense, ma è difficile dimostrare che grazie a queste politiche l’economia europea abbia fatto meglio. Basti pensare al fatto che nel 2008 l’economia degli Stati Uniti e quella dell’Ue erano più o meno delle stesse dimensioni, mentre oggi il PIL statunitense vale 1,5 volte di più rispetto a quello dell’Unione europea. Il punto è che questa accelerazione non è stata trainata da settori in cui a beneficiare della crescita è stata la classe media o, perlomeno, non la tradizionale classe media bianca operaia. 

Per esempio, secondo la Federal Reserve, la banca centrale statunitense, dal 2001 a oggi il salario reale mediano dei cittadini caucasici (white) è rimasto superiore a quello degli altri gruppi etnici, ma è cresciuto meno: +10 per cento, contro il +14 degli afroamericani e il +25 degli ispanici. Il motivo è l’impoverimento di molte zone industriali, come quelle della cosiddetta Rust Belt, l’area degli Stati Uniti che comprende anche il Michigan e l’Illinois, in cui si è sviluppata una forte industrializzazione nel Ventesimo secolo, trainata soprattutto dal settore dell’auto. Questa crisi ha creato un’importante porzione di elettori che è disposta a tutto pur di invertire la tendenza alla deindustrializzazione. Come abbiamo visto, l’imposizione dei dazi può aiutare a riportare la produzione negli Stati Uniti, ma bisogna capire quanto una politica fatta per favorire un determinato gruppo di persone arriverà a costare all’intera collettività. Per il momento, nel primo trimestre di quest’anno gli Stati Uniti hanno registrato la prima diminuzione del PIL dopo 11 trimestri consecutivi di crescita, mentre il dollaro ha perso valore rispetto alle altre valute. Tra l’altro, i dazi sono generalmente pagati dai cittadini del Paese che li impone, per cui a pagare questa sorta di aiuto alle imprese statunitensi saranno gli statunitensi stessi. L’obiettivo principale dei dazi è aumentare il prezzo dei prodotti esteri, rendendo più competitivi quelli nazionali. In parallelo, però, se il venditore non riesce ad assorbire il costo aggiuntivo dovuto ai dazi, questo si trasferisce sul consumatore.
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