Quanto faranno male i dazi di Trump

Questo è il secondo numero di Conti in tasca, la nuova newsletter di Pagella Politica sull’economia
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L’elezione di Donald Trump ha fatto tornare a discutere dell’importanza del commercio internazionale per la nostra economia, dato che i dazi annunciati dal nuovo presidente degli Stati Uniti potrebbero essere un colpo durissimo per le nostre imprese esportatrici. Secondo ISTAT, infatti, quasi metà delle imprese esportatrici italiane avrebbe difficoltà a sostituire un cliente estero perso a causa dei dazi.

Ma quanto pesa davvero il commercio sulla nostra economia? Indossiamo i nostri occhiali da economisti e proviamo a capirlo!

Il nuovo Trump non sembra molto diverso dal vecchio, per quanto riguarda la strategia adottata: imporre dazi a destra e a manca per proteggere l’economia statunitense dalla concorrenza – secondo lui sleale – delle imprese straniere.

Oggi, però, sappiamo qualcosa in più sull’efficacia di questa strategia: i dazi imposti da Trump nel 2017 e nel 2018 rappresentavano un totale cambio di rotta rispetto a quanto era stato fatto fino a quel momento. Dalla fine degli anni Novanta, la Cina si era sempre più integrata nel commercio globale, diventando presto il maggiore esportatore al mondo. Questo risultato è stato raggiunto sfruttando i benefici dell’ingresso nel libero mercato e nell’Organizzazione mondiale del commercio (o WTO, dalla sigla inglese). 

Trump ha rappresentato un netto cambio di rotta in questo senso, imponendo dazi che hanno fruttato maggiori entrate per 380 miliardi di dollari e chiudendo in parte gli Stati Uniti al commercio globale. All’epoca si potevano prevedere le conseguenze di questa scelta, ma regnava molta incertezza. Oggi, invece, siamo in grado di osservare se le politiche di Trump nel corso del suo primo mandato hanno funzionato.

I dazi funzionano?

Secondo una ricerca pubblicata nel 2025 da Tax Foundation, un centro di ricerca statunitense su temi fiscali, i dazi imposti nel 2017 e nel 2018 da Trump – e mantenuti in parte dal suo successore Joe Biden – hanno ridotto il PIL potenziale degli Stati Uniti di 0,2 punti percentuali nel lungo periodo. Questo indicatore rappresenta le potenzialità di crescita dell’economia e, quindi, il trend di lungo periodo. 

Anche una cifra che sembra piuttosto ridotta, come quella indicata da Tax Foundation, va in realtà a intaccare di molto la crescita futura: non si tratta infatti di un semplice calo dovuto a una recessione, ma un cambio di direzione che potrebbe portare la crescita a essere di 0,2 punti percentuali più bassa ogni anno per i prossimi decenni. Sempre secondo la Tax Foundation, una politica simile – se non più aggressiva – sui dazi porterà a una perdita di 142 mila potenziali occupati nei prossimi anni.

Ma perché i dazi danneggiano l’economia statunitense? Non dovrebbero proteggerla dalla concorrenza straniera? Il problema è che a pagare il prezzo dei dazi sono quasi solo i consumatori. Supponiamo che gli Stati Uniti impongano un dazio di un euro per ogni chilo di formaggio importato. A pagare il dazio non sarà il Consorzio del Parmigiano Reggiano, che ha esportato il bene all’estero, ma la società importatrice statunitense, che per far passare il formaggio dalla dogana dovrà pagare il dazio. Questo maggiore costo di produzione viene di solito scaricato del tutto sul prezzo, per cui l’importatore aumenterà di un euro il prezzo di un chilo di parmigiano. Chi paga, alla fine, è il consumatore statunitense. 

I dazi, quindi, portano innanzitutto all’aumento dell’inflazione, un fatto che tende ad avere un effetto negativo sull’economia. Inoltre, l’aumento dei prezzi porterà meno persone ad acquistare i beni importati (in teoria avvantaggiando le aziende statunitensi), ma non è detto che, per ogni bene importato non comprato, automaticamente se ne acquisti un altro statunitense. In totale, il numero di beni venduti potrebbe calare, con un impatto negativo sull’economia.

I dazi potrebbero rendere poi più costosi i materiali e i semilavorati usati nella produzione dalle imprese statunitensi. Per esempio, un’azienda che produce auto con acciaio cinese potrebbe trovarsi a pagare un costo molto più alto per la materia prima. Questo rischia di mettere in difficoltà l’impresa, che dovrà alzare i prezzi, ma rischia in questo modo di perdere clienti.

In più, vanno considerate le controffensive di questa guerra commerciale. Tax Foundation parla di una perdita di 0,1 punti percentuali sul PIL potenziale degli Stati Uniti in caso di una nuova guerra commerciale scatenata da Trump, ma nelle sue stime considera i possibili dazi che i Paesi potrebbero imporre nei confronti degli Stati Uniti proprio in risposta ai dazi voluti dal presidente. Questo avrebbe un ulteriore impatto negativo sull’economia statunitense. 

Viene da chiedersi: se l’impatto dei dazi è così negativo, perché Trump insiste in questa sua battaglia? Al di là del suo temperamento, secondo vari analisti il presidente starebbe usando la guerra commerciale anche e soprattutto come strumento diplomatico per raggiungere vittorie politiche, più che economiche. Un gioco sul filo dell’incertezza che non fa bene all’economia statunitense, ma che potrebbe rivelarsi un’arma utile per le ambizioni geopolitiche degli Stati Uniti.

E l’impatto su di noi?

Il fatto che anche l’economia statunitense sia danneggiata dai dazi non significa che una guerra commerciale non rappresenti una minaccia anche per noi. Gli scambi internazionali sono una parte fondamentale della nostra economia: nel 2024 l’Italia è stato il settimo Paese esportatore al mondo, e la (poca) crescita degli ultimi 15 anni del nostro Paese è stata trainata quasi esclusivamente dall’export.

Tra il 2000 e il 2023, infatti, i consumi interni delle famiglie, ossia la spesa degli italiani in Italia, è calata dell’8 per cento, mentre le esportazioni sono aumentate del 17 per cento. Insomma, la stagnazione economica degli ultimi anni sarebbe potuta essere peggiore se non fosse stato per la crescita delle imprese che vendono beni verso l’estero. E gli Stati Uniti sono il primo Paese extra-Ue per importazioni dall’Italia.

Non abbiamo ancora stime precise dell’effetto dei dazi di Trump sull’Italia, ma Tax Foundation stima che ridurranno di 0,2 punti percentuali il PIL potenziale dell’intera Unione europea. Considerando che il nostro Paese è più dipendente dal commercio con gli Stati Uniti rispetto ad alcuni dei nostri vicini, l’effetto potrebbe essere anche peggiore sull’Italia.

Quali sarebbero le aziende più esposte?

In un recente rapporto, ISTAT ha calcolato che circa il 18 per cento delle imprese esportatrici sarebbe vulnerabile a una guerra commerciale, così come il 17 per cento degli occupati del settore.

Secondo i dati raccolti dal Ministero degli Esteri, al primo posto tra le merci più esportate dall’Italia negli Stati Uniti ci sono i macchinari (circa 13 miliardi di euro), al secondo posto gli articoli farmaceutici (10 miliardi) e al terzo i mezzi di trasporto (quasi 8 miliardi).

Alcuni settori, come quello delle bevande, esportano meno, ma sarebbero più colpiti dai dazi. Il 40 per cento dell’export extra-Ue finisce infatti negli Stati Uniti: questo significa che i dazi influenzerebbero quasi metà del mercato internazionale dei produttori di bevande (di vino in particolare).

I dazi non avranno probabilmente un impatto devastante sull’economia nel suo complesso, ma potrebbero mettere in seria difficoltà le imprese più dipendenti dall’export, che, nel caso del nostro Paese, sono anche quelle che di solito performano meglio. 

In un’economia che già fa fatica a crescere, dunque, i dazi di Trump sembrano soprattutto una brutta notizia per l’Italia.

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