Salvini assolto su Open Arms: che cosa dice davvero la sentenza

Abbiamo analizzato le motivazioni della sentenza sulla nave Ong, giunta a conclusioni diverse rispetto a quelle di altri giudici
ANSA
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Il 19 giugno il Tribunale di Palermo ha pubblicato le motivazioni della sentenza sul caso Open Arms, con cui lo scorso dicembre ha assolto il segretario della Lega Matteo Salvini dall’accusa di sequestro di persona e omissione di atti d’ufficio.

«I giudici hanno confermato che difendere l’Italia non è reato, rilevando l’ostinazione e l’arroganza di Open Arms che ha fatto di tutto per venire in Italia, scartando tutte le altre alternative che erano più logiche e naturali», ha commentato Salvini sui social network. 

In attesa di sapere se l’accusa farà ricorso in Corte d’Appello contro la sentenza di primo grado, davvero i giudici hanno stabilito quanto afferma il segretario della Lega? In breve, il Tribunale di Palermo non ha confermato la lettura politica di Salvini sulla difesa dei confini, ma l’ha assolto ritenendo che non avesse l’obbligo giuridico di indicare un porto sicuro. Alcune sentenze precedenti, della Cassazione e non solo, hanno però interpretato in modo diverso i doveri dello Stato in casi simili.

I fatti

Prima di tutto è utile ricostruire i fatti relativi al caso Open Arms, avvenuto durante il primo governo guidato da Giuseppe Conte, sostenuto da Movimento 5 Stelle e Lega. 

Il 1° agosto 2019 la nave della organizzazione non governativa (Ong) spagnola Proactiva Open Arms ha effettuato un primo salvataggio di naufraghi migranti nella zona SAR (sigla dall’inglese Search and Rescue) della Libia. Tra il 2 e il 9 agosto sono seguiti altri due salvataggi, portando il numero complessivo dei naufraghi salvati a 164. 

Il 1° agosto Salvini – all’epoca ministro dell’Interno – ha firmato, insieme al ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Danilo Toninelli e alla ministra della Difesa Elisabetta Trenta (entrambi del Movimento 5 Stelle), un decreto per vietare alla Open Arms l’ingresso nelle acque territoriali italiane. Alla nave è stato più volte negato un porto di sbarco, finché il 14 agosto il Tribunale amministrativo regionale (TAR) del Lazio ha sospeso il divieto, consentendo così l’avvicinamento della nave alle coste di Lampedusa.

Quello stesso giorno, Salvini ha firmato da solo un nuovo decreto di divieto d’ingresso, e il giorno dopo, il presidente del Consiglio Conte ha invitato il ministro dell’Interno ad assicurare assistenza e tutela ai minori a bordo. I minori sono stati fatti sbarcare il 17 agosto, decisione criticata dallo stesso segretario della Lega. Infine, lo sbarco di tutti i migranti rimanenti è avvenuto il 20 agosto, dopo che la Procura di Agrigento ha disposto il sequestro della nave.

Il processo contro Salvini è iniziato nell’aprile 2021, oltre un anno e mezzo dopo i fatti. Al termine del dibattimento, la Procura di Palermo ha chiesto sei anni di carcere per sequestro di persona e omissione di atti d’ufficio, accusando Salvini di aver trattenuto i migranti a bordo della Open Arms tra il 14 e il 20 agosto 2019, senza indicare un porto di sbarco.

Nel dicembre 2024, il Tribunale di Palermo ha assolto Salvini con la formula «il fatto non sussiste», perché i giudici hanno ritenuto che i reati contestati non siano stati commessi.
Nave Open arms uno – Fonte: Open arms
Nave Open arms uno – Fonte: Open arms

La difesa dei confini nazionali

Passiamo ora alle motivazioni della sentenza. Secondo Salvini, «i giudici hanno confermato che difendere l’Italia non è reato». Ma le motivazioni della sentenza non dicono questo.

La Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS) stabilisce che il passaggio di una nave straniera può essere considerato «non inoffensivo» – e quindi offensivo – se la nave è coinvolta nel carico o scarico di persone in violazione delle leggi sull’immigrazione dello Stato costiero. Il cosiddetto “decreto Sicurezza bis”, approvato nel 2019, ha attribuito al ministro dell’Interno, insieme ai ministri dei Trasporti e della Difesa, il potere di «limitare o vietare l’ingresso, il transito o la sosta» di navi che trasportassero migranti irregolari.

Nel processo la difesa di Salvini si è fondata sulla necessità di difendere i confini nazionali. Secondo questa linea, il passaggio della Open Arms nelle acque territoriali italiane doveva essere considerato offensivo ai sensi della Convenzione UNCLOS, perché si trattava di «un’imbarcazione battente bandiera non italiana che aveva raccolto immigrati in acque non di competenza italiana, senza il coordinamento italiano». Da ciò – ha sostenuto la difesa – si doveva desumere l’intenzione di trasferire illegalmente migranti in Italia, rendendo quindi il passaggio della nave “non inoffensivo” secondo quanto previsto dalla Convenzione.

Il Tribunale di Palermo ha respinto questa impostazione e ha bocciato l’automatismo «per cui ogni transito di nave Ong con a bordo migranti salvati “in autonomia” doveva essere considerato “non inoffensivo”». Secondo i giudici, è proprio questo automatismo «a dirla lunga sullo spessore dei presupposti che avevano determinato l’adozione del decreto interdittivo e a indurre a dubitare seriamente sulla conformità del provvedimento ai dettami delle norme», che prevedono invece «che il passaggio non sia considerato offensivo se finalizzato a prestare soccorso a persone, navi ecc. in difficoltà». In sintesi, i giudici hanno ritenuto che non si possa considerare automaticamente ostile il passaggio di una nave solo perché ha soccorso migranti senza coordinarsi con l’Italia. 

Inoltre secondo la sentenza «non è emerso alcun elemento dotato di minima suggestività di un collegamento tra Open Arms e le organizzazioni dedite al favoreggiamento del flusso migratorio clandestino via mare». Anzi, la nave Ong ha «agito all’interno del perimetro normativo delle convenzioni internazionali, avendo il comandante salvato donne, uomini e bambini che si trovavano in alto mare, a bordo di imbarcazioni precarie e in imminente pericolo di vita, così adempiendo agli obblighi impostigli» dalle convenzioni internazionali, tra cui quella UNCLOS.

Di conseguenza, l’affermazione di Salvini secondo cui i giudici hanno riconosciuto il suo diritto a difendere le coste nazionali da trafficanti di uomini non trova conferma nelle motivazioni della pronuncia.

L’attesa di Open Arms

Commentando la sentenza, Salvini ha scritto che i giudici hanno rilevato «l’ostinazione e l’arroganza di Open Arms, che ha fatto di tutto per venire in Italia, scartando tutte le altre alternative che erano più logiche e naturali». Vediamo che cosa emerge dalla sentenza.

Dopo i tre salvataggi di migranti, l’Italia non è stato l’unico Paese a negare lo sbarco alla nave Ong: anche Malta lo ha negato. La Spagna invece ha proposto alla Open Arms di portare i migranti salvati nel porto di Algeciras, vicino allo Stretto di Gibilterra, il 18 agosto 2019, ossia 18 giorni dopo il primo salvataggio.

Il giorno successivo, vista la distanza tra Lampedusa e Algeciras (raggiungibile in sei o sette giorni di navigazione, secondo la ricostruzione della Procura di Palermo), la Spagna – che era lo Stato di bandiera della nave Ong – ha proposto un altro porto nelle isole Baleari. Questa soluzione è stata declinata dalla Open Arms, viste le condizioni di difficoltà in cui si trovavano le persone a bordo della nave. È stata anche scartata l’ipotesi, avanzata da Open Arms, di trasbordare i migranti su un’altra nave, che li portasse in Spagna.

Nella sentenza, si menziona il «lungo lasso di tempo» che è «trascorso dalla nave in ostinata attesa di ottenere l’ingresso nelle acque nazionali italiane». In più, la sentenza sottolinea che il comandante della Open Arms si è «trattenuto, per giorni, al largo delle coste italiane, confidando in un’improbabile evoluzione favorevole della vicenda, anziché esperire le altre valide soluzioni disponibili». 

Queste valutazioni confermano almeno in parte la lettura fatta da Salvini, sebbene in forma più sfumata. Tuttavia, come si vedrà nel confronto con altre decisioni giudiziarie, le affermazioni del Tribunale di Palermo su questo punto non sono pienamente in linea con precedenti sentenze.

Chi doveva indicare un porto sicuro?

Per capire meglio la questione, è utile considerare due aspetti chiave.

Primo: secondo il Tribunale di Palermo, l’obbligo di fornire un luogo sicuro (in inglese place of safety, o POS) non spettava all’Italia. «In virtù di quanto stabilito dalla convenzione SAR – si legge nella sentenza – l’obbligo di garantire che in ogni caso venga fornito un luogo sicuro entro un tempo ragionevole» grava «sul governo responsabile della regione SAR in cui i sopravvissuti sono stati recuperati». Nel caso in questione, il Paese responsabile era Malta. 

In alternativa, vista la contrarietà di Malta, la responsabilità poteva ricadere sullo Stato di “primo contatto”, cioè la Spagna. Su quest’ultimo punto, però, i giudici del Tribunale di Palermo hanno sottolineato una «mancata chiarezza del disposto normativo». Insomma, le norme internazionali non sarebbero del tutto chiare o univoche nel definire se e in quali circostanze lo Stato di “primo contatto” – in questo caso la Spagna – debba assumersi l’obbligo di indicare un porto sicuro.

Secondo il tribunale, la scelta di individuare la Spagna come Stato responsabile si fonda su «tutta una serie di circostanze» che delineano «il naturale profilo centrale» assunto da quel Paese nella vicenda, «a dispetto di una artificiosa chiamata in causa dell’Italia». 

In altre parole, la Spagna era lo Stato di bandiera della nave, aveva garantito un «pur minimo coordinamento da “primo contatto”», fornendo indicazioni utili per individuare gli Stati responsabili della zona dell’evento (prima la Tunisia, poi Malta) e mettendo la Open Arms in contatto con i relativi Centri di coordinamento per il soccorso competenti. In più le coste spagnole non erano considerate «troppo distanti» per la concessione di un porto sicuro.

Raccomandazioni o obblighi?

Secondo punto: le modifiche del 2004 alle convenzioni internazionali che regolano i salvataggi in mare, recepite dall’Italia, hanno l’obiettivo dichiarato di garantire che sia fornito alla nave soccorritrice «un luogo sicuro entro un tempo ragionevole», riducendo «al minimo la deviazione rispetto alla rotta programmata». Queste modifiche – come riconosciuto anche dal Tribunale di Palermo – sono finalizzate a indurre i governi a coordinarsi e a cooperare per garantire che i comandanti delle navi, che avessero preso a bordo persone in difficoltà in mare, fossero liberati dai loro obblighi tempestivamente. 

Ma secondo i giudici quelle che discendono dalle citate modifiche alle convenzioni sono semplici «“raccomandazioni” a cooperare per fare in modo che le persone salvate ricevano adeguata assistenza e sia loro fornito, in tempi ragionevoli, un luogo sicuro di sbarco». 

A carico degli organi dello Stato che non rispettano queste raccomandazioni, secondo i giudici, non possono discendere «conseguenze giuridiche», nemmeno penali, «alla stessa stregua del mancato rispetto di ben definiti obblighi giuridici». 

Questo è il motivo per cui i giudici del Tribunale di Palermo hanno assolto l’ex ministro dell’Interno dalle accuse di sequestro di persona o omissione di atti d’ufficio. «Entrambi i reati attribuiti al Salvini muovono sostanzialmente dall’addebito relativo al mancato adempimento del dovere di esitare positivamente (…) la concessione del POS». Ma questo – concludono le motivazioni della sentenza – non era per l’Italia un «obbligo giuridico».

Le sentenze precedenti

Alla luce di quanto detto finora, si può confrontare la posizione del Tribunale di Palermo con quella di alcune sentenze precedenti, che hanno affrontato casi simili. In più occasioni, altri giudici hanno stabilito che la tutela delle persone soccorse in mare non può dipendere esclusivamente da criteri formali, come la zona SAR o la nazionalità della nave, ma deve rispondere all’obiettivo prioritario di salvaguardare la vita umana.

Una sentenza della Corte di Cassazione del 2020, relativa al caso della nave Sea Watch comandata da Carola Rackete, ha stabilito che secondo le convenzioni internazionali l’obbligo del comandante di prestare soccorso comprende anche quello di condurre i naufraghi in un luogo sicuro di sbarco. A questo obbligo corrisponde quello degli Stati costieri, tenuti a collaborare con il comandante per sollevarlo dalla responsabilità dell’assistenza alle persone a bordo.

La Cassazione ha ritenuto legittima la condotta di Rackete, che aveva forzato il blocco navale per far sbarcare i migranti a Lampedusa, ritenuto il porto sicuro più vicino e illegittimo il suo arresto avvenuto da parte delle autorità italiane. Il motivo? La comandante aveva agito in presenza «di una causa di giustificazione, individuata nell’adempimento del dovere di soccorso», considerata la mancata concessione del porto da parte dell’Italia, la quale, ai sensi della Convenzione SAR (punto 3.1.9), ha l’obbligo di «assicurare il coordinamento e la cooperazione necessari» ai «capitani delle navi che prestano assistenza imbarcando persone in pericolo in mare». 

Lo stesso principio è stato ribadito in una sentenza pubblicata lo scorso marzo dalla Corte di Cassazione, riguardante il caso della nave Diciotti, appartenente alla Guardia costiera. Ad agosto 2018, la nave aveva soccorso migranti a cui il governo Conte aveva impedito lo sbarco per alcuni giorni.

In quella sentenza, la Cassazione ha scritto che le convenzioni internazionali non prevedono semplici “raccomandazioni”, come sostiene invece il Tribunale di Palermo, ma «un dovere di attivazione sussidiario in capo agli Stati che ne sono parte». In particolare, «la mancata attivazione dello Stato competente impone agli altri Stati di collaborare per supplire alle necessità dei naufraghi e per portarli in salvo, e ciò a prescindere dalla nazionalità della nave che opera il salvataggio e, dunque, dai doveri dello Stato di bandiera». 

Il principio di fondo, secondo i giudici, è che «risulta prevalente» il «principio della massima rapidità ed efficacia nelle operazioni di salvataggio, piuttosto che sul dato formale della sussistenza della giurisdizione sulla nave soccorritrice». Questo passaggio – riportato testualmente – si ritrova anche in una sentenza del Consiglio di Stato pubblicata nel febbraio 2024.

Sempre sul caso Diciotti, la Cassazione ha chiarito che «lo Stato responsabile del soccorso deve organizzare lo sbarco “nel più breve tempo ragionevolmente possibile”», come previsto dalla Convenzione internazionale sulla ricerca ed il salvataggio marittimo (Convenzione SAR), fornendo un luogo sicuro dove concludere le operazioni di salvataggio. «È solo con la concreta indicazione del POS, e con il successivo arrivo dei naufraghi nel luogo sicuro designato, che, infatti, l’attività di Search and Rescue può considerarsi conclusa», ha scritto la Cassazione.

La stessa Corte ha affermato che, nelle operazioni di salvataggio, “luogo sicuro” è sinonimo di “porto sicuro”, poiché nessun’altra soluzione garantisce effettivamente la salvaguardia della vita e dell’incolumità delle persone soccorse. Per esempio, una nava in mare, «oltre a essere in balia degli eventi meteorologici avversi, non consente il rispetto dei diritti fondamentali delle persone soccorse». 
La nave Diciotti – ANSA
La nave Diciotti – ANSA

La durata dello stallo a bordo

La Cassazione ha dedotto da ciò che la “provvisorietà” della permanenza sulla nave come rifugio – di cui parlano le linee guida del 2004 dell’Organizzazione marittima internazionale sul salvataggio delle persone in mare – deve essere intesa come il tempo strettamente necessario affinché gli Stati costieri, adempiendo al loro obbligo di cooperazione, individuino un luogo dove far sbarcare le persone.

Di conseguenza, se lo stallo a bordo si protrae oltre questo lasso di tempo “ragionevole”, si configura una violazione degli obblighi di soccorso. Sul punto, il Tribunale di Palermo ha osservato che «pare quanto meno opinabile che le esigenze legate alla redistribuzione» dei migranti presenti sulla Open Arms in altri Paesi europei – motivazione portata in aula dal ministro Salvini per giustificare il ritardo nell’indicazione di un porto sicuro – «avrebbero di per sé potuto giustificare il ritardo stesso ove questo fosse stato obbligatorio».

Sulla durata “ragionevole” della permanenza a bordo in attesa dello sbarco, offre un chiarimento la sentenza della Cassazione sul caso Diciotti. In quella decisione, la Corte ha stabilito che il ritardo di cinque giorni nello sbarco dei naufraghi costituiva una violazione della normativa SAR.

Il controllo effettivo e la responsabilità dello Stato

Infine, un altro elemento rilevante emerge da una sentenza del 2012 della Corte europea dei diritti dell’uomo. Secondo la Corte, uno Stato costiero è responsabile della tutela dei diritti fondamentali delle persone in pericolo se queste si trovano sotto la sua giurisdizione, cioè se lo Stato esercita su di loro un controllo effettivo. Questa responsabilità non dipende dal fatto che le persone si trovino fisicamente nel territorio nazionale o nella zona SAR di quello Stato. Applicando questo principio al caso Open Arms, il fatto che l’Italia abbia impedito lo sbarco dalla nave sarebbe la prova del suo controllo effettivo sui naufraghi.

Dalle sentenze esaminate, risulta che l’Italia non poteva chiamarsi fuori solo perché la nave batteva bandiera spagnola e la Spagna aveva fornito un «pur minimo coordinamento». Inoltre, l’offerta di un porto lontano – come quello di Algeciras, in Spagna – non rispettava gli obblighi legati al POS. Una scelta del genere avrebbe causato un disagio eccessivo sia per i naufraghi sia per la nave. Anche se le convenzioni internazionali non parlano espressamente di “porto più vicino”, chiedono comunque che lo sbarco avvenga il prima possibile in un luogo sicuro, tenendo conto delle «circostanze del caso concreto», come ha ricordato anche il Consiglio di Stato.

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