Meloni non la racconta giusta sulle banche e i tassi di interesse

La presidente del Consiglio dice che i tassi «riconosciuti ai risparmiatori» sono rimasti fermi, mentre quelli sui mutui sono cresciuti. Le cose però stanno diversamente
ANSA/FABIO FRUSTACI
ANSA/FABIO FRUSTACI
Il 14 agosto il Corriere della Sera, la Repubblica e La Stampa hanno pubblicato tre interviste, di fatto identiche nei contenuti, alla presidente del Consiglio Giorgia Meloni, che ha difeso la nuova tassa introdotta dal governo sugli “extraprofitti” delle banche. Secondo Meloni, con gli aumenti dei tassi di interesse decisi dalla Banca centrale europea (Bce) il sistema bancario italiano ha alzato i tassi di interesse sui mutui, ma ha lasciato «invariati» i tassi «riconosciuti ai risparmiatori». 

Davvero le banche hanno sfruttato solo i lati positivi per loro dell’aumento dei tassi, senza condividerlo con i clienti? Oppure è vero il contrario? Abbiamo controllato che cosa dicono i numeri e Meloni non la racconta giusta.

Il meccanismo dei tassi

Prima di tutto bisogna capire quali sono i benefici di un aumento dei tassi d’interesse per le banche e i suoi clienti. Da luglio 2022 la Bce ha alzato nove volte i tassi d’interesse sul denaro che presta alle banche private dei Paesi membri dell’area euro, che a loro volta erogano prestiti e mutui ai cittadini e alle imprese. In un anno i tassi sono passati dallo 0,25 per cento al 4,5 per cento. 

Per le banche un tasso di interesse più alto significa, per esempio, maggiori ricavi dai mutui a tasso variabile, oltre che dai nuovi mutui sottoscritti a tasso fisso. I mutui a tasso variabile prevedono infatti il pagamento di un certo tasso di interesse che – semplificando un po’ – dipende direttamente dai tassi imposti dalla Bce, a cui si sommano una percentuale per coprire il costo dei servizi della banca e il cosiddetto “premio per il rischio”, ossia la ricompensa che la banca riceve per essersi presa il rischio di prestare i soldi. La differenza tra il tasso di riferimento e il tasso pagato dal cliente è detta spread e rappresenta il guadagno netto della banca rispetto al prestito.

Facciamo un esempio concreto: supponiamo che su un prestito di 100 euro il tasso della banca centrale sia dell’1 per cento e lo spread sia dello 0,5 per cento. I ricavi da interessi saranno pari a 1,50 euro. Se però il tasso di riferimento cresce al 3 per cento, i ricavi da interessi per il mutuo saranno ora pari a 3,50 euro (il calcolo è più complicato di così, anche perché i prestiti sono divisi in rate, ma questo esempio basti per farsi un’idea).

In teoria questo effetto positivo per le banche si dovrebbe registrare anche per i clienti che prestano loro risorse, per esempio aprendo conti deposito o comprando altri strumenti finanziari. Anche in questo caso – sempre semplificando un po’ – il cliente si aspetta un rendimento più o meno in linea con quello garantito dai tassi di interesse sul mercato, tolta una piccola quota che va alla banca per aver gestito questi risparmi. Se i tassi crescono, quindi, cresceranno i rendimenti per i clienti e i costi per la banca. 

Verrebbe quindi da pensare che il margine delle banche, ossia la differenza tra i costi e i ricavi, rimanga invariato nonostante l’aumento dei tassi della Bce perché sia i costi sia i ricavi delle banche crescono nella stessa maniera: l’unica cosa che rimarrebbe fissa sarebbe la percentuale che si aggiunge sui prestiti e che si sottrae sugli strumenti finanziari acquistati dai clienti. Ma non è andata così, anche se i numeri non confermano quanto detto da Meloni.

L’aumento dei tassi

Secondo la presidente del Consiglio, «il sistema bancario è stato veloce ad alzare i tassi dei mutui, ma ha lasciato invariati i tassi che venivano riconosciuti ai risparmiatori». Vediamo che cosa dicono i dati più aggiornati raccolti dall’Associazione bancaria italiana (Abi), che raggruppa e rappresenta gli istituti finanziari del nostro Paese.

Secondo il rapporto mensile pubblicato da Abi a luglio, tra giugno 2022 e giugno 2023 il tasso di interesse applicato dalle banche alle famiglie per l’acquisto di abitazioni è cresciuto (pag. 18) di oltre 200 punti base, passando dal 2,05 per cento al 4,25 per cento. Nello stesso periodo di tempo, però, sono aumentati (pag. 14) gli interessi riconosciuti sui nuovi conti deposito, dove le cifre depositate sono state vincolate con una durata prestabilita, passati dallo 0,29 per cento al 3,20 per cento (+300 punti base circa). Dunque c’è stato addirittura un aumento più forte rispetto a quanto avvenuto per i mutui, una dinamica che smentisce quanto dichiarato dalla presidente del Consiglio.

Lo stesso discorso non vale per gli interessi riconosciuti sui conti deposito aperti prima dell’aumento dei tassi, mentre i mutui a tasso variabile sono sì aumentati, e di molto come abbiamo visto. 

In un’analisi pubblicata a luglio, il Financial Times ha calcolato che i benefici degli aumenti dei tassi sono stati trasferiti dalle banche italiane ai propri clienti meno rispetto a quanto avvenuto in altri Paesi europei. Per esempio le banche francesi hanno trasferito il 35 per cento dell’aumento dei tassi a beneficio dei depositi dei clienti, mentre le banche italiane solo l’11 per cento. Sembra quindi che nella dichiarazione di Meloni un fondo di verità ci sia. Eppure, come abbiamo visto, i tassi di interesse attivi applicati ai nuovi conti deposito sono cresciuti in media più dei tassi passivi applicati ai mutui. Come si spiega questa apparente contraddizione?

La crescita disomogenea degli interessi

Per rispondere a questa domanda bisogna capire perché il margine di interesse delle banche, ossia la differenza tra interessi passivi e attivi, è cresciuto così tanto negli scorsi mesi e bisogna capire se questo aumento sia stato legittimo oppure no. Occorre poi capire perché le banche italiane siano state (apparentemente) in media meno generose rispetto alle altre banche europee.

Il fatto che i margini di interesse delle banche crescano in un periodo di aumento dei tassi è normale, soprattutto dopo un periodo di tassi vicino allo zero come è stato quello negli ultimi 15 anni nell’Unione europea. Questo fa parte del modello di business delle banche: ci sono periodi in cui il denaro costa di più (quando i tassi di interesse sono più alti) e periodi in cui invece i margini calano perché i tassi passivi si riducono più velocemente di quelli attivi. Gli ultimi 15 anni, con i tassi di interesse a zero o addirittura negativi, hanno rappresentato un periodo particolarmente negativo per le banche. Oltre ai ricavi inferiori dai mutui, infatti, spesso le banche hanno visto azzerato il proprio margine sui servizi finanziari offerti: non è però accaduto che i conti deposito offrissero tassi negativi, necessari per garantire un profitto per la banca, e questo ha eroso ulteriormente il margine di interesse.

Il periodo positivo attuale per le banche, dunque, arriva dopo anni di condizioni di mercato poco favorevoli per gli istituti di credito e molto a vantaggio dei clienti, per cui non è necessariamente fuori dall’ordinario che i profitti delle banche siano cresciuti così tanto nell’ultimo periodo, anche se è difficile valutare quanto profitto in più sia “giusto” e quanto invece sia “extra”.

Va poi ricordato che le banche hanno un maggiore potere di mercato nella contrattazione rispetto ai clienti. Il fatto che le banche “comprino” denaro a un prezzo inferiore e lo “rivendano” a un prezzo superiore rientra nelle normali dinamiche di mercato, un po’ come accade per un concessionario di auto usate che le acquista a un prezzo più basso per poi rivenderle a un prezzo più alto. Non è strano dunque che, soprattutto in un primo periodo di aggiustamento, i prezzi di vendita crescano più velocemente rispetto a quelli di acquisto.

C’è inoltre il discorso dei mutui a tasso variabile già in essere: dopo anni di interessi bassi, in cui le banche hanno, per così dire, “perso la scommessa dei tassi”, che non sono cresciuti, oggi le parti si sono invertite e i ricavi dagli interessi sono in crescita.

Perché in Italia la posizione dominante delle banche è stata maggiore rispetto al resto d’Europa? Una delle ragioni potrebbe essere la minore concorrenza: secondo la Bce, le prime cinque banche italiane coprono il 50 per cento del mercato interno, contro il 30 per cento circa di Regno Unito e Germania. Ma questa non può essere l’unica spiegazione: anche in Francia, uno dei Paesi più “virtuosi” verso i clienti in questa fase di innalzamento dei tassi, l’indice di concentrazione delle banche è piuttosto alto, intorno al 45 per cento. Come abbiamo visto, in Italia i tassi sui nuovi depositi sono cresciuti di più rispetto ai tassi sui nuovi mutui, per cui non sembra esserci una qualche forma di manipolazione del mercato da parte delle banche.

L’importanza dell’educazione finanziaria

Un’altra possibile spiegazione, più credibile, è legata al livello di alfabetizzazione finanziaria della popolazione. Solo il 25 per cento degli adulti italiani ha un livello elevato di educazione finanziaria, poco al di sotto della media Ue (26 per cento), ma lontano dal 43 per cento degli olandesi e dal 32 per cento dei tedeschi. Questa differenza si riflette nelle scelte di investimento: quasi due terzi degli italiani non investono i propri risparmi e solo il 9 per cento ne investe una quota consistente. 

La poca consapevolezza degli italiani sull’importanza di investire fa sì che le banche abbiano a disposizione una grande quantità di denaro a basso prezzo attraverso i conti corrente. Annunciando la nuova tassa sugli “extraprofitti” in conferenza stampa, il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Matteo Salvini si è lamentato che i tassi di interesse sui conti corrente siano rimasti molto bassi, nonostante gli aumenti della Bce. Ma aspettarsi che i tassi su questi strumenti crescano è ormai anacronistico: un tempo i conti corrente erano un’alternativa al tenere i contanti in casa e servivano a proteggersi dall’inflazione medio-alta, che fino agli Novanta era la norma. Oggi i conti corrente non sono più uno strumento di investimento, ma di semplice riserva di denaro, ritirabile agli sportelli o trasferibile con bonifico, e di pagamento, attraverso le varie carte bancarie.

Nel tempo il modo in cui utilizziamo i conti corrente è cambiato e, a meno che la situazione di alta inflazione attuale non diventi strutturale (improbabile, visto l’obiettivo di inflazione di medio periodo al 2 per cento per la Bce), è normale aspettarsi che i tassi sui conti corrente rimangano molto bassi o nulli. Eppure, anziché proteggersi dall’inflazione con investimenti vincolati sui conti deposito, buona parte dei consumatori italiani sembra preferire tenere i propri risparmi sui conti corrente, dove non otterranno nessun rendimento. 

In questo modo non sarebbero quindi le banche a non aumentare i rendimenti sui depositi, ma i consumatori a non sfruttare questi rendimenti più alti, mantenendo i propri risparmi sui conti corrente privi di rendimento.

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