Lavoro e povertà: i numeri dietro al paradosso

In Italia crescono i lavoratori che, pur avendo un impiego, vivono a rischio di povertà
ANSA
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In vista dei referendum dell’8 e 9 giugno, il dibattito politico è tornato a concentrarsi sulle condizioni dei lavoratori, in particolare di quelli con i salari più bassi. Nonostante alcuni segnali positivi, come l’aumento del numero degli occupati, nel 2024 in Italia è cresciuto il numero dei lavoratori a rischio povertà. Secondo Eurostat, si trova in questa condizione il 10,2 per cento degli occupati nel nostro Paese, in aumento rispetto al 9,9 per cento del 2023.
L’ufficio statistico dell’Unione europea considera “a rischio povertà” chi ha lavorato come dipendente o autonomo per almeno sette mesi in un anno, ma ha un reddito inferiore a una determinata soglia. Il reddito preso in esame è il “reddito disponibile equivalente”, cioè la somma che una persona ha realmente a disposizione dopo aver pagato le imposte e ricevuto eventuali sussidi pubblici. Si definisce “equivalente” perché tiene conto della composizione del nucleo familiare, bilanciando il reddito in base al numero di componenti. La soglia di povertà è fissata al 60 per cento della mediana del reddito disponibile equivalente nazionale. La mediana divide in due metà uguali la popolazione: il 50 per cento delle persone ha un reddito inferiore alla mediana, e l’altro 50 per cento ha un reddito superiore [1]. Dunque, le varie soglie cambiano a seconda dei Paesi.

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In media, nei Paesi Ue l’8,2 per cento dei lavoratori è considerato a rischio povertà. Le percentuali più alte si registrano in Lussemburgo (13,4 per cento), Bulgaria (11,8 per cento) e Spagna (11,2 per cento), mentre le tre più basse si trovano in Belgio (4,3 per cento), Repubblica Ceca (2,3 per cento) e Finlandia (2,8 per cento). Tra gli altri grandi Paesi Ue, sia Francia (8,3 per cento) sia Germania (6,5 per cento) hanno percentuali più basse di quella italiana.
Nonostante l’aumento del 2024, il dato italiano resta il secondo più basso degli ultimi 14 anni: solo nel 2005 (primo anno per cui si hanno a disposizione i dati) la percentuale era sotto il 9 per cento.

Chi sono i lavoratori a rischio povertà

Tra i lavoratori uomini il rischio di povertà è più diffuso: l’11,7 per cento degli occupati si trova in questa condizione, rispetto all’8,3 per cento registrato tra le occupate. Negli anni, però, la percentuale delle donne è aumentata di più di quella degli uomini e la differenza si è ridotta. 

Anche chi ha un lavoro part-time è più probabile che viva a rischio di povertà: in Italia si trova in questa condizione il 15,7 per cento di chi lavora part-time, a fronte di una media europea del 12,8 per cento. Qui c’è comunque un segnale positivo: negli anni, nel nostro Paese si è ridotta la percentuale di lavoratori part-time a rischio di povertà (nel 2013 era pari al 19,2 per cento).

In un rapporto annuale del 2023, INPS ha spiegato che il rischio di povertà si concentra di più tra i lavoratori con un contratto a tempo determinato o con forme di contratto atipiche. Nel 2022, l’incidenza del rischio di povertà raggiungeva il 19,3 per cento tra gli occupati a tempo determinato part-time, percentuale che al Sud arrivava al 23,8 per cento. Tra i lavoratori full-time, il rischio di povertà più alto si riscontra soprattutto tra i lavoratori intermittenti e gli apprendisti.

Non tutti i lavoratori che sono a rischio di povertà vivono in questa condizione per ragioni strutturali. L’INPS ha distinto chi ha una retribuzione bassa per motivi transitori (come assenze per malattia, maternità o cassa integrazione) o per bassa intensità lavorativa (come contratti molto brevi o part-time ridottissimi) da chi invece è povero pur lavorando a tempo pieno e senza interruzioni. In questo modo, l’istituto ha isolato un nucleo ristretto ma significativo di lavoratori, la cui povertà deriva esclusivamente dal livello retributivo troppo basso, e non da fattori contingenti. È la componente più strutturale del fenomeno: lavoratori che, pur lavorando a tempo pieno e senza interruzioni, guadagnano comunque troppo poco. Questi lavoratori sono distribuiti in molti settori, compresi quelli coperti da contratti collettivi firmati dalle principali sigle sindacali. I più colpiti sono i dipendenti del commercio, della vigilanza privata, della logistica, della ristorazione e dei servizi alla persona. 

Per i restanti lavoratori a rischio di povertà, una parte consistente ha retribuzioni basse perché lavora poche ore o ha contratti discontinui: il part-time involontario o frammentato è una delle principali cause della povertà. 

A queste forme di povertà misurabile, si aggiunge un’area grigia difficilmente quantificabile, che comprende lavoratori autonomi di fatto dipendenti, partite IVA usate impropriamente e lavoro nero.
[1] Questa forma di povertà non va confusa con la povertà assoluta, che viene calcolata sulla base delle spese mensili delle persone, e non sulla base del loro reddito. Ne abbiamo parlato qui
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