Il fact-checking delle “bugie” contro il Jobs Act

Italia Viva ha provato a difendere la riforma del lavoro, oggetto del referendum. Abbiamo controllato se ha ragione oppure no
l post su Instagram pubblicato da Italia Viva, con in copertina uno dei personaggi dei video brainrot, diventati famosi negli ultimi mesi su TikTok
l post su Instagram pubblicato da Italia Viva, con in copertina uno dei personaggi dei video brainrot, diventati famosi negli ultimi mesi su TikTok
Il 7 maggio Italia Viva ha pubblicato su Instagram un carosello con quelle che – a suo dire – sono «tutte le bugie sul referendum sul Jobs Act». Quattro dei cinque referendum in programma per l’8 e 9 giugno riguardano il mercato del lavoro, e due di questi chiedono di eliminare norme introdotte proprio dalla riforma approvata durante il governo guidato da Matteo Renzi, oggi leader di Italia Viva.
Il post vuole essere una sorta di “fact-checking” sui referendum, ma quanto è affidabile? In breve, il tentativo di smontare alcune critiche contro il Jobs Act è riuscito solo in parte. In certi casi, le argomentazioni di Italia Viva si basano su dati concreti, in altri risultano parziali o troppo semplificatorie.

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«Se viene cancellato il Jobs Act torna l’articolo 18»

Secondo Italia Viva, la prima «bugia» riguarda il referendum sul contratto a tutele crescenti e i licenziamenti illegittimi. A detta del partito di Renzi, è falso che in caso di vittoria del Sì al referendum torni in vigore «l’articolo 18»: tornerebbe invece «la legge sul lavoro Monti-Fornero». Quest’ultima è conosciuta anche come riforma “Fornero”, dal nome della ministra del Lavoro Elsa Fornero: è la legge con cui, nel 2012, il governo tecnico guidato da Mario Monti ha riformato il mercato del lavoro. In questo caso, Italia Viva ha sostanzialmente ragione, ma procediamo con ordine.

Il quesito referendario numero 1 (quello sulla scheda verde) propone di abrogare un decreto legislativo del 2015, parte del Jobs Act, che ha introdotto il contratto a tutele crescenti. Negli anni successivi, questo decreto è stato modificato più volte ed è stato oggetto di sentenze della Corte Costituzionale, come ricorda anche il testo del quesito. 

Tra le altre cose, il decreto oggetto del referendum è intervenuto sull’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, che era già stato modificato dalla riforma “Fornero”. Questo articolo disciplina i licenziamenti dei dipendenti con contratto a tempo indeterminato. Prima del 2012, se un giudice dichiarava illegittimo il licenziamento di un lavoratore, il datore di lavoro doveva reintegrare il lavoratore licenziato, a meno che quest’ultimo non scegliesse un risarcimento al posto del reintegro. 

La riforma “Fornero” ha introdotto nell’articolo 18 una distinzione tra diversi gradi di illegittimità del licenziamento per «giustificato motivo oggettivo», cioè per ragioni economiche o organizzative. Nelle imprese con più di 15 dipendenti è stato eliminato il reintegro automatico del lavoratore, sostituito da un’indennità economica. Nelle imprese con meno di 15 dipendenti, la possibilità di reintegro è rimasta solo nei casi decisi dal giudice.

Con il Jobs Act, per un lavoratore assunto dopo il 7 marzo 2015, in caso di licenziamento illegittimo non è previsto il reintegro, ma solo un indennizzo economico. Di fatto, questa regola ha superato l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori per i nuovi assunti, limitando in modo significativo la possibilità di tornare al proprio posto di lavoro.

Dunque, se al referendum sul contratto a tutele crescenti e sui licenziamenti illegittimi si raggiungesse il quorum e vincessero i Sì, la norma introdotta dal Jobs Act verrebbe abrogata del tutto. Di conseguenza, tornerebbe in vigore la disciplina precedente, cioè l’articolo 18 così come modificato dalla riforma “Fornero”.

«Il Jobs Act ha creato solo lavoro precario»

Secondo Italia Viva, non è vero che la riforma del lavoro del governo Renzi abbia creato solo occupazione precaria. «Sono stati creati oltre 1.270.000 posti di lavoro, di cui più della metà a tempo indeterminato», si legge nel carosello, che fa riferimento ai governi Renzi e Gentiloni. Il primo è rimasto in carica dal 22 febbraio 2014 al 12 dicembre 2016, il secondo lo ha succeduto fino al 1° giugno 2018. Da dove viene il numero indicato da Italia Viva?

Il partito di Renzi non lo dice, ma secondo ISTAT a giugno 2018 gli occupati in Italia erano 1.268.000 in più rispetto a gennaio 2014, di fatto il numero citato da Italia Viva. Nello stesso periodo di tempo, gli occupati dipendenti a tempo indeterminato sono aumentati di oltre mezzo milione. Per almeno tre motivi, però, è scorretto attribuire al Jobs Act il merito di tutto l’aumento degli occupati registrato durante i governi Renzi e Gentiloni.

Innanzitutto, il Jobs Act non è una singola legge, approvata dal governo Renzi appena insediato, ma è una riforma composta da vari provvedimenti, approvati in momenti diversi. Per esempio, il già citato contratto a tutele crescenti è del 2015. 

In secondo luogo, parlare di «posti di lavoro», invece che di occupati, può essere fuorviante. Il concetto di “occupato”, infatti, non coincide del tutto con quello di “posto di lavoro”. Per esempio, per essere considerati occupati da ISTAT non serve aver firmato un contratto. In più, basta anche un’ora di lavoro retribuito nella settimana di riferimento (un criterio usato a livello internazionale, che non falsifica i dati come sostengono erroneamente alcuni).

In terzo luogo, il limite principale della tesi di Italia Viva riguarda il nesso causa-effetto. Stimare gli effetti sul mercato del lavoro di una riforma come il Jobs Act non è per nulla facile: è un lavoro da ricercatori. Bisogna infatti valutare la differenza tra come sarebbero andate le cose in assenza di quel provvedimento e la realtà. Non basta prendere la differenza tra il numero di occupati in due diversi mesi e dire che quella differenza è merito di una riforma approvata in quel periodo. Magari senza la riforma ci sarebbe stato comunque un aumento degli occupati (nel periodo considerato da Italia Viva, tra l’altro, diversi Paesi europei hanno registrato un aumento dell’occupazione). 

Secondo vari studi, il Jobs Act ha contribuito a un aumento dell’occupazione, sia a tempo determinato sia a tempo indeterminato, ma anche dei licenziamenti. In quel periodo, un ruolo significativo nella crescita delle assunzioni a tempo indeterminato è stato giocato dalle agevolazioni per i datori di lavoro, che temporaneamente e per alcune assunzioni hanno potuto non versare i contributi dei lavoratori neoassunti.

«Il Jobs Act ha tolto le tutele ai lavoratori»

Secondo Italia Viva, poi, non è vero che il Jobs Act ha indebolito le tutele sul mercato del lavoro, anzi: ha permesso di abolire le “dimissioni in bianco”, «un’odiosa pratica che colpiva soprattutto le donne».

L’espressione “dimissioni in bianco” fa riferimento alla pratica con cui alcuni datori fanno firmare ai neoassunti (spesso giovani o donne) una lettera di dimissioni senza data, da tenere da parte e usare all’occorrenza per licenziare il lavoratore, simulando una sua dimissione volontaria. In passato, questo stratagemma veniva usato, per esempio, per licenziare dipendenti diventate madri o per ricattare lavoratori scomodi. 

Già tra il 2007 e il 2008 si cercò, senza successo, di contrastare questo fenomeno. Un primo tentativo è stato fatto nel 2007 con la riforma “Damiano” (dal nome del ministro del Lavoro del secondo governo Prodi, Cesare Damiano), che prevedeva l’obbligo per il lavoratore di compilare online un modulo di dimissioni. Il modulo, una volta protocollato, veniva inviato al Ministero del Lavoro e stampato per essere consegnato al datore. In mancanza di questa procedura, le dimissioni erano considerate nulle.

Nel 2012 è stato introdotto un nuovo sistema: le dimissioni e le risoluzioni consensuali sono diventate efficaci solo dopo una convalida presso un ente autorizzato. In alternativa, il lavoratore poteva firmare una dichiarazione in calce alla comunicazione di cessazione trasmessa per via telematica. Questa procedura si è rivelata nel tempo ancora macchinosa: in caso di mancata convalida o firma, il datore era tenuto a invitare formalmente il lavoratore alla convalida. Se dopo sette giorni il lavoratore non si presentava, il rapporto si considerava risolto. In ogni caso, il lavoratore conservava la possibilità di revocare le dimissioni.

Nel 2016, con l’introduzione della piattaforma telematica per le dimissioni online, il governo Renzi ha effettivamente reso più semplice ed efficace il contrasto alle dimissioni in bianco. Da allora, le dimissioni devono essere compilate direttamente dal lavoratore tramite un sistema digitale gestito dal Ministero del Lavoro o con l’assistenza di soggetti abilitati. Questa procedura ha reso più difficile per i datori di lavoro abusare della firma preventiva e ha rappresentato un passo concreto nella tutela dei lavoratori più vulnerabili. 

Dunque, il governo Renzi non ha abolito le dimissioni in bianco partendo da zero, ma ha rafforzato e semplificato un percorso normativo avviato anni prima. 

Questo intervento, per quanto importante, non basta comunque da solo a smentire la critica secondo cui il Jobs Act avrebbe privilegiato le esigenze delle imprese più che quelle dei lavoratori. L’introduzione della procedura telematica ha inciso su un problema specifico e circoscritto, ma non ha modificato in modo strutturale il quadro complessivo delle tutele. Anzi, il cuore della riforma è rimasto l’allentamento delle garanzie contro i licenziamenti, accompagnato da misure di accompagnamento ancora oggi oggetto di valutazioni divergenti. Per questo, l’impatto del Jobs Act sui diritti dei lavoratori continua a essere al centro di un dibattito aperto, in cui dati ed evidenze forniscono letture tutt’altro che univoche.

«Con il Jobs Act avete favorito solo le imprese»

Italia Viva ha replicato anche a quella che, secondo lei, è un’altra «bugia» sul Jobs Act: è falso – si legge nel post – che la riforma del lavoro abbia «favorito solo le imprese». «Sono stati inseriti nuovi ammortizzatori sociali, nuove norme sui congedi parentali ed è stata introdotta la NASPI: una nuova indennità di occupazione», ha scritto il partito di Renzi. Vediamo se è davvero così.

Il Jobs Act non è intervenuto solo su contratti e licenziamenti: questa riforma ha modificato il welfare e i diritti dei lavoratori. Uno degli obiettivi dichiarati del Jobs Act, infatti, era modernizzare il sistema degli ammortizzatori sociali, estendendo le tutele e semplificando le regole, sulla base del modello della flexicurity: più flessibilità nelle assunzioni e nei licenziamenti, accompagnata da più sostegno al reddito e politiche attive per chi perde il lavoro.

In questa cornice, nel 2015 è stata introdotta la NASPI, sigla che sta per “Nuova assicurazione sociale per l’impiego”. Questa è un’indennità mensile rivolta ai dipendenti che perdono involontariamente il proprio posto di lavoro. La NASPI – va detto – non è nata comunque da zero, ma ha sostituito e accorpato strumenti già esistenti dal 2012. 

Le regole sui congedi parentali sono state modificate dal Jobs Act con due interventi. Prima della riforma, i genitori lavoratori potevano usufruire complessivamente di dieci mesi di congedo parentale nei primi otto anni di vita del figlio, fruibili in modo continuativo o frazionato. Questo limite poteva essere esteso a 11 mesi se il padre si asteneva dal lavoro per almeno tre mesi. Ogni genitore aveva diritto a un massimo di sei mesi di congedo, elevabili a sette nel caso in cui il padre avesse effettivamente fruito di almeno tre mesi. Inoltre, nei primi tre anni di vita del bambino, e per un periodo massimo complessivo di sei mesi fra entrambi i genitori, era prevista un’indennità pari al 30 per cento della retribuzione.

Con il Jobs Act, alcune di queste regole sono state ampliate e rafforzate. In particolare, è stato esteso da otto a 12 anni il periodo entro cui i genitori possono esercitare il diritto al congedo parentale, senza però modificarne la durata complessiva. Anche il diritto all’indennità pari al 30 per cento della retribuzione è stato esteso, passando dai primi tre ai primi sei anni di vita del figlio. È stata inoltre rafforzata la possibilità per i genitori di scegliere se usufruire del congedo su base giornaliera o oraria. 

Ricapitolando: il Jobs Act ha introdotto la NASPI e ha modificato la disciplina dei congedi parentali, ampliandone l’accesso e rendendola più flessibile. Ma si tratta perlopiù di interventi di razionalizzazione e semplificazione di strumenti già esistenti, più che di una svolta strutturale nel sistema di protezione sociale. 
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