Il Jobs Act ha funzionato o no? Che cosa dicono gli studi

Secondo i suoi sostenitori ha fatto crescere l’occupazione, secondo i suoi detrattori la precarietà. Abbiamo analizzato la ricerca scientifica, a quasi dieci anni dall’avvio della riforma che ha cambiato il mercato del lavoro
Ansa
Ansa
Nonostante siano passati quasi dieci anni, cinque governi e tre legislature dalla sua approvazione, il Jobs Act rimane uno dei provvedimenti più citati nel dibattito politico italiano. Ancora oggi infatti i suoi sostenitori ritengono che questa serie di riforme del mercato del lavoro, varata dal governo Renzi tra il 2014 e il 2016, abbia rilanciato l’occupazione nel nostro Paese dopo la crisi economica del 2011. Al contrario, secondo i suoi detrattori queste misure non hanno fatto altro che aumentare la precarietà e l’insicurezza dei lavoratori italiani.

Ma che cosa dicono oggi gli studi sul Jobs Act? Abbiamo fatto un po’ di ordine tra i risultati raccolti dai ricercatori.

Di che cosa parliamo quando parliamo di Jobs Act

Innanzitutto è necessario fare chiarezza su che cosa si intende per “Jobs Act”. Con questa espressione, che riprende il nome di una legge sul lavoro firmata dall’ex presidente degli Stati Uniti Barack Obama nel 2012, viene indicata una serie di interventi voluti dal governo Renzi che hanno cambiato il mondo del lavoro italiano. L’obiettivo della riforma del governo Renzi era raggiungere una maggiore liberalizzazione del mercato del lavoro per far crescere l’occupazione. 

In ordine cronologico il primo provvedimento del Jobs Act, noto come decreto “Poletti” dal nome dell’allora ministro del Lavoro Giuliano Poletti, è stato approvato a marzo 2014. Il provvedimento principale è arrivato a dicembre 2014 all’interno di un disegno di legge delega. Queste misure hanno modificato diversi ambiti del mondo del lavoro, ma gli interventi principali e più discussi sono stati due.

In primo luogo il governo Renzi ha introdotto un nuovo regime sanzionatorio per i casi di licenziamento illegittimo dei lavoratori assunti a tempo indeterminato. In sintesi, con la nuova disciplina del contratto “a tutele crescenti” l’azienda che licenzia illegittimamente un lavoratore non è più tenuta a reintegrarlo (come previsto in precedenza dall’articolo 18 dello statuto dei lavoratori) ma solo a garantirgli un indennizzo economico basato sull’anzianità in azienda. 

Il secondo intervento, fatto per stimolare l’occupazione, è stato una forte decontribuzione (ossia una riduzione del costo del lavoro) prevista dalla legge di Bilancio per il 2015 per i lavoratori assunti con il nuovo contratto a tutele crescenti. Questa decontribuzione consisteva in uno sgravio fino a 8 mila euro sui contributi a carico del datore di lavoro per ogni nuovo contratto a tempo indeterminato, valido per tre anni. Nel 2016 questo sgravio è stato tagliato, portando il limite a circa 3 mila euro per due anni. 

Oltre al nuovo contratto e alla decontribuzione prevista per i lavoratori assunti con esso, altri interventi del Jobs Act sono stati l’introduzione dei cosiddetti “voucher”, buoni lavoro per retribuire vari lavori che in precedenza venivano pagati in nero; la creazione della Nuova prestazione di assicurazione sociale per l’impiego (Naspi), un’indennità mensile di disoccupazione per i lavoratori subordinati che hanno perso involontariamente l’occupazione; e l’aumento delle proroghe dei contratti a tempo determinato da 12 a 36 mesi rispetto a quanto previsto dalla legge “Fornero”.

Aumento di occupati: sì o no?

Ma al di là del giudizio politico sugli effetti di questi interventi, quanti posti di lavoro ha creato il Jobs Act?

Su questo tema si sono espressi più volte gli stessi promotori della riforma, tra cui l’ex presidente del Consiglio Matteo Renzi e l’ex ministra per le Riforme costituzionali e i Rapporti con il Parlamento Maria Elena Boschi, esagerandone però gli effetti positivi. Secondo i sostenitori del Jobs Act, i posti di lavoro in Italia sarebbero cresciuti di circa un milione di unità tra il periodo in cui la riforma è stata in vigore e il 2018, quando è stata modificata dal decreto “Dignità”, approvato dal primo governo Conte.

Secondo i dati Istat, in effetti da febbraio 2014 (anno di insediamento del governo Renzi) alla fine del 2016 (data delle dimissioni del governo Renzi), il numero complessivo degli occupati in Italia è cresciuto da poco meno di 22 milioni a circa 22,9 milioni: quindi un aumento in linea con quanto affermato da Renzi e Boschi. Usare questo dato a sostegno del Jobs Act ha però vari limiti. In primo luogo è necessario sottolineare che “occupati” e “posti di lavoro” non sono sinonimi, almeno per le statistiche Istat. Ricordiamo che l’istituto considera come “occupato” chi ha tra i 15 e gli 89 anni e nella settimana in cui sono stati raccolti i dati ha dichiarato di aver svolto almeno un’ora di lavoro retribuita. Rientrano tra gli occupati anche i lavoratori in ferie, in maternità o paternità, e quelli temporaneamente assenti per un periodo inferiore ai tre mesi. Gli occupati sono quindi una categoria più ampia di quella dei posti di lavoro, un’espressione che indica invece lavori più stabili. 

Ma il problema principale, già più volte sottolineato riguardo altre dichiarazioni di politici, è la difficoltà nello stabilire un rapporto di causa-effetto tra l’introduzione (o l’abrogazione) di una misura e l’aumento (o la diminuzione) di indicatori economici, come in questo caso il numero degli occupati. Per individuare nessi causali di questo tipo, infatti, bisogna basarsi su studi scientifici e metodi statistici rigorosi: senza un’analisi attenta si rischia di avere stime troppo grossolane. 

Nel periodo in cui il mercato del lavoro è stato regolato dal Jobs Act, come visto, si è assistito a un aumento di quasi un milione di occupati. Questo aumento però non dipende necessariamente dal Jobs Act, ma potrebbe essere stato causato da processi macroeconomici e da una generale ripresa dell’economia dopo la crisi del 2011. Per comprendere davvero l’impatto che il Jobs Act ha avuto sugli occupati in Italia è necessario quindi uno studio più accurato. Il più noto tra questi è quello pubblicato nel 2019 dagli economisti Pietro Garibaldi e Tito Boeri, quest’ultimo presidente dell’Inps al tempo dell’approvazione del Jobs Act.

Sfruttando una metodologia ormai classica nello studio dei problemi empirici, i due studiosi hanno confrontato gli effetti del Jobs Act sulla dinamica occupazionale tra le imprese con più di 15 dipendenti e quelle con meno di 15 dipendenti, dove i cambiamenti sono stati trascurabili. Il risultato dello studio mostra che il Jobs Act ha sì aumentato il numero di contratti a tempo determinato del 60 per cento, ma anche i licenziamenti rispetto alle aziende non trattate. 

Uno studio compiuto sulla regione Veneto nel 2018 da Paolo Sestito ed Eliana Viviano, economisti della Banca d’Italia, mostra che anche in questo caso il Jobs Act ha avuto un impatto significativo nella crescita occupazionale, sia grazie al contratto a tutele crescenti sia grazie alla decontribuzione, ma questo a fronte di una minor selezione dei lavoratori. Allo stesso modo, i risultati di una ricerca compiuta dagli economisti Valeria Cirillo, Marta Fana e Dario Guarascio hanno mostrato che l’aumento dell’occupazione sia stato perlopiù concentrato in settori a bassa specializzazione. 

Per quanto riguarda l’impatto sui salari, uno studio di Michele Catalano ed Emilia Pezzola, ricercatori dell’istituto di consulenza e ricerca economica Prometeia, ha evidenziato che il Jobs Act ha comportato un aumento del Pil e della domanda di lavoro, con una lieve riduzione del tasso di disoccupazione, ma a fronte di un calo della “quota salari”, ossia della parte di reddito nazionale che va ai lavoratori. 

In generale gli studi sono concordi nel ritenere che il Jobs Act abbia avuto un impatto positivo sull’occupazione, limitato in alcuni ambiti e non nell’ordine di grandezza rivendicato dai suoi promotori.

L’incentivo economico ha funzionato, ma quello legislativo?

L’obiettivo del contratto a tutele crescenti era quello di creare occupazione stabile e a tempo indeterminato, rendendo questa tipologia contrattuale più conveniente rispetto a quella a termine. Ma il Jobs Act ha funzionato sotto questo punto di vista? In realtà a osservare i dati sembra che l’aumento del numero di contratti a tempo indeterminato sia avvenuto in concomitanza con lo sgravio fiscale del 2015, e che quindi a diminuire il lavoro precario sia stata la riduzione del costo del lavoro più che il contratto a tutele crescenti.

Come osservato infatti da un’analisi del think tank economico Tortuga, se si studia la dinamica occupazionale nel 2016 – quando lo sgravio fiscale era terminato – si assiste a un aumento dei contratti a tempo determinato, che contribuiscono per il 73 per cento alla crescita occupazionale di quell’anno, e a un calo del 27 per cento dei contratti a tempo indeterminato che, fino all’anno prima, arrivano a pesare per l’81 per cento alla crescita occupazionale. 

Secondo l’analisi del think tank, la riduzione del costo del lavoro attraverso la decontribuzione, ossia un incentivo economico, avrebbe avuto i suoi effetti nella lotta alla precarietà. Ma non si potrebbe dire lo stesso dell’incentivo legislativo, ossia il contratto a tutele crescenti, che non avrebbe avuto un impatto significativo. 

Altri studi hanno indagato se l’aumento dell’occupazione stabile fosse dovuto all’incentivo monetario o a quello legislativo. Una di queste ricerche è stata condotta da Marco Centra e Valentina Gualtieri dell’Istituto nazionale politiche pubbliche (Inapp), che hanno confrontato l’andamento occupazionale del 2015 e del 2016. I risultati della ricerca sottolineano che «la drastica riduzione del costo del lavoro dovuto all’esonero contributivo ha certamente giocato un ruolo decisivo». Questa decontribuzione, quindi, sarebbe servita ad aumentare il numero di occupati a tempo indeterminato. Una volta finiti gli effetti di questo sgravio fiscale, le aziende avrebbero ricominciato ad assumere lavoratori con contratti a termine, a discapito del contratto a tempo indeterminato e di quello a tutele crescenti. Senza un incentivo monetario, secondo gli studi il contratto a tutele crescenti non sarebbe riuscito a garantire di per sé un’occupazione stabile.

Ma perché, nonostante la diversa disciplina riguardante il licenziamento, le imprese non si sono orientate verso il contratto a tutele crescenti e quindi verso contratti a tempo indeterminato? Il motivo, secondo vari economisti, è che il contratto a tutele crescenti non è stato correttamente incentivato, a differenza di quanto accaduto per vari tipi di contratto a tempo determinato. Nel 2014 infatti lo stesso governo Renzi, come sostiene su lavoce.info l’economista Tito Boeri, aveva facilitato il ricorso ai contratti a tempo determinato attraverso il decreto “Poletti”. Ricordiamo che per le aziende il contratto a tempo determinato è, per sua natura, più conveniente rispetto a un contratto di lavoro più duraturo. Per questo, secondo gli economisti Marco Leonardi e Lorenzo Cappellari, sarebbe stato necessario introdurre dei costi legati al contratto a tempo determinato per rendere il contratto a tutele crescenti più conveniente. 

L’effetto del Jobs Act su giovani e donne

Per valutare una riforma è necessario poi tenere conto anche dell’impatto eterogeneo sulle varie parti della società. Vediamo quindi l’impatto che il Jobs Act ha avuto su due categorie di lavoratori che in Italia fanno fatica a inserirsi stabilmente nel mercato del lavoro: le donne e i giovani. 

Per quanto riguarda l’occupazione femminile, a fine 2015 si è verificato un calo della disoccupazione, che però è tornata ad aumentare già l’anno successivo. Tra il 2015 e il 2016 è diminuito inoltre il tasso di occupazione femminile, passato dal 48,3 al 48,1 per cento. Ma gli effetti di un piano di misure ampio come il Jobs Act non si calcolano solo sui dati occupazionali. In uno studio pubblicato nel 2021 dalla rivista accademica Economic Policy, gli economisti Maria De Paola, Roberto Nisticò e Vincenzo Scoppa si sono interessati a come il Jobs Act abbia impattato sulle scelte familiari delle donne. Secondo lo studio, con l’introduzione della misura le donne che lavorano in grandi imprese hanno registrato un calo di 1,4 punti percentuali della probabilità di avere figli. Questo effetto è stato più forte per le donne più giovani, per quelle senza figli, con basse qualifiche, bassi salari e per quelle che vivono nelle regioni meridionali del Paese.

Risultati contrastanti sono stati evidenziati anche per quanto riguarda i giovani. Com’è noto, l’occupazione giovanile è un problema strutturale del nostro Paese, che presenta un tasso di disoccupazione giovanile superiore rispetto ai partner europei. Secondo un’analisi pubblicata su lavoce.info, con la decontribuzione il Jobs Act avrebbe portato a un aumento di giovani nel mercato del lavoro, tanto che il numero di assunzioni a tempo determinato risulta più alto tra i minori di 24 anni. Allo stesso tempo, ridotta la decontribuzione, si è assistito a un importante calo dei contratti a tempo indeterminato, sostituiti da contratti di apprendistato e a tempo determinato. La forte decontribuzione avrebbe quindi sì rilanciato l’occupazione, ma non in maniera strutturale, preferendo incentivi economici a breve termine rispetto a più duraturi investimenti in capitale umano.

AIUTACI A CRESCERE NEL 2024

Siamo indipendenti: non riceviamo denaro da partiti né fondi pubblici dalle autorità italiane. Per questo il contributo di chi ci sostiene è importante. Sostieni il nostro lavoro: riceverai ogni giorno una newsletter con le notizie più importanti sulla politica italiana e avrai accesso a contenuti esclusivi, come le nostre guide sui temi del momento. Il primo mese di prova è gratuito.
Scopri che cosa ottieni
Newsletter

I Soldi dell’Europa

Il lunedì, ogni due settimane
Il lunedì, le cose da sapere sugli oltre 190 miliardi di euro che l’Unione europea darà all’Italia entro il 2026.

Ultimi articoli