Gli errori di Giorgia Meloni a Quarta Repubblica

Dal Pnrr all’andamento dell’economia italiana, la presidente del Consiglio ha fatto almeno tre dichiarazioni fuorvianti e non supportate dai fatti
Pagella Politica
Il 5 giugno, ospite a Quarta Repubblica su Rete 4, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha fatto alcune dichiarazioni fuorvianti e non supportate dai fatti parlando, tra le altre cose, del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) e dell’economia italiana.

Nella sua intervista Meloni ha anche riportato alcuni dati corretti. Per esempio è vero che, secondo i dati più aggiornati di Istat, ad aprile il numero degli occupati in Italia è il più alto da quando ci sono le serie storiche; è vero che nel 2023 il governo ha tagliato di 7 punti percentuali il cuneo fiscale per i redditi fino a 25 mila euro e di 6 punti percentuali per quelli fino a 35 mila euro; ed è vero che il tasso di occupazione italiano è più basso della media europea per il fatto che il tasso di occupazione femminile è molto più basso di quello maschile. 

Su almeno altre tre questioni, però, la presidente del Consiglio è stata meno precisa.

I controlli sul Pnrr

«Quello che noi stiamo facendo sulla Corte dei Conti in rapporto ai controlli sul Pnrr non è nulla di difforme da quello che ha fatto il precedente governo»

Durante la sua intervista Meloni ha difeso la scelta del governo di limitare il controllo della Corte dei Conti sul Pnrr, dicendo una cosa non vera. 

Nel decreto “Pubblica amministrazione”, su cui il governo ha posto la questione di fiducia alla Camera, è stato inserito un emendamento che esclude il piano dal cosiddetto “controllo concomitante” della Corte dei Conti. Come suggerisce il nome, questo controllo viene fatto sui progetti del Pnrr in corso di svolgimento, e non al loro compimento. 

Non è vero, come dice Meloni, che su questo punto il suo governo sta facendo come il suo predecessore, guidato da Mario Draghi. Il controllo concomitante è stato introdotto per la prima volta nel 2009, ma è rimasto inattuato fino al 2020, quando il secondo governo Conte lo ha richiamato in un decreto-legge di luglio 2020, chiedendo che fosse applicato sui «principali piani, programmi e progetti relativi agli interventi di sostegno e di rilancio dell’economia nazionale». All’epoca il Pnrr ancora non esisteva, ma a novembre 2021 la Corte dei Conti ha istituito il collegio per condurre il controllo concomitante anche sul Pnrr, visto che rientrava nella definizione di cui sopra. Da otto mesi era in carica il governo Draghi, che poi non ha messo mano al controllo concomitante durante il suo mandato, a differenza di quanto detto da Meloni.

A maggio 2021 il governo Draghi aveva approvato un decreto-legge in cui stabiliva che una delle funzioni della Corte dei Conti fosse quella di realizzare «valutazioni di economicità, efficienza ed efficacia circa l’acquisizione e l’impiego delle risorse finanziarie provenienti dai fondi» del Pnrr. Secondo il governo Meloni questo provvedimento non sarebbe compatibile con quello del 2020, ma non è così, come abbiamo spiegato più nel dettaglio in un fact-checking sul tema. 

Con un emendamento al decreto “Pubblica amministrazione”, il governo Meloni ha poi prorogato fino al 30 giugno 2024 il cosiddetto “scudo erariale”, introdotto dal già citato decreto del 2020 dal secondo governo Conte fino al 31 dicembre 2021 per limitare la responsabilità erariale dei dirigenti solo ai danni compiuti con dolo. Con il decreto di maggio 2021, questo scudo era stato prorogato dal governo Draghi fino al 30 giugno 2023, e ora il governo Meloni l’ha prorogato di un altro anno. Al di là della legittima scelta del governo (contestata però dalla Corte dei Conti), la presidente del Consiglio omette due dettagli importanti. Il primo: la scelta del governo Draghi era stata fatta in un contesto diverso rispetto a quello attuale, ossia in piena pandemia di Covid-19 (e anche a maggio 2021 il Pnrr non era ancora stato approvato definitivamente dall’Ue). Il secondo: come ha sottolineato il presidente della Corte dei Conti Guido Carlino in un’audizione alla Camera, il controllo concomitante era stato previsto nel 2020 proprio come una sorta di «compensazione» per l’introduzione dello scudo erariale. Ora il governo Meloni ha tolto il primo, lasciando in vigore il secondo.

La crescita del Pil

«Le segnalo che l’Italia è la nazione che sta crescendo di più in Europa»

Non è vero e questa dichiarazione nelle scorse settimane è stata fatta da molti esponenti di Fratelli d’Italia. La fonte citata da Meloni è la Commissione europea, che però nelle sue previsioni di primavera, pubblicate il 15 maggio, ha dato uno scenario diverso rispetto a quello presentato dalla presidente del Consiglio.

Secondo la Commissione Ue, nel 2023 il Pil italiano crescerà più delle passate previsioni, segnando un +1,2 per cento rispetto al 2022 (quando la crescita era stata del +3,7 per cento sul 2021). Il +1,2 per cento è una percentuale più alta di quelle registrate, per esempio, da Germania (+0,2 per cento) e Francia (+0,7 per cento). Ma almeno 13 Paesi, secondo la Commissione, registreranno una crescita del Pil più alta di quella italiana: tra questi ci sono Paesi come la Spagna, la Grecia, il Portogallo, i Paesi Bassi e la Polonia. 

Meloni ha poi omesso di dire che, secondo la Commissione Ue, nel 2024 il Pil italiano crescerà dell’1,1 per cento rispetto al 2023. È l’aumento più basso di tutti e 27 i Paesi Ue, a pari merito con quello della Svezia.

L’andamento dello spread

«Lo spread è più basso di quello che c’era nel precedente governo»

Anche qui Meloni ha detto una cosa non del tutto supportata dai numeri.

Lo spread è un indicatore con cui in Italia si fa generalmente riferimento alla differenza tra il rendimento dei Btp, ossia i titoli di Stato italiani con scadenza a 10 anni, e quello dei suoi corrispettivi tedeschi, i Bund. Il funzionamento dei mercati dei titoli di Stato è complicato, ma il principio da tenere a mente è il seguente: un eventuale aumento della differenza tra il rendimento dei Btp e quello dei Bund è di norma interpretato come un peggioramento della fiducia nei titoli di Stato italiani da parte degli investitori, che chiedono più soldi per finanziare il nostro debito pubblico. Viceversa, un calo dello spread è generalmente letto come un aumento di fiducia, con un conseguente calo dei rendimenti e un risparmio per lo Stato.

Il 5 giugno lo spread aveva un valore intorno ai 176 punti base. Il 21 ottobre 2022, il giorno prima dell’insediamento del governo Meloni, il suo valore era di 233 punti base. Dunque negli ultimi sette mesi un calo c’è stato, anche se ci sono stati rialzi soprattutto a dicembre. 

Come mostra il Grafico 1, durante i primi sette mesi del governo Draghi, insediatosi il 13 febbraio 2021, lo spread era rimasto intorno ai 100 punti base, un valore quindi più basso di quello attuale. Dalla fine del 2021 in poi c’è stata una crescita dell’indicatore, arrivando a toccare quota 250 tra giugno e luglio 2022. Il record dello spread in Italia si è però registrato tra l’autunno e l’inverno del 2011, dopo le dimissioni del quarto governo Berlusconi e l’entrata in carica del governo tecnico di Mario Monti. All’epoca lo spread superò i 500 punti base, avvicinandosi ai 600.
Grafico 1. Andamento dello spread tra Btp Italia e Bund a 10 anni dall’inizio del 2021 a oggi – Fonte: Il Sole 24 Ore
Grafico 1. Andamento dello spread tra Btp Italia e Bund a 10 anni dall’inizio del 2021 a oggi – Fonte: Il Sole 24 Ore

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