Un contratto collettivo su tre è scaduto e rinnovarlo non è facile

Molti accordi vanno aggiornati e adeguati all’inflazione, ma spesso le trattative tra sindacati e aziende rimangono bloccate a lungo, per vari motivi
Ansa
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In questi giorni quasi 10 mila dipendenti RAI stanno trattando con l’azienda per rinnovare il loro Contratto collettivo nazionale di lavoro (Ccnl), scaduto alla fine del 2022. I Ccnl sono validi per interi settori economici e stabiliscono una serie di tutele per i lavoratori, tra cui i minimi salariali, e in genere sono il frutto di un accordo tra le principali sigle sindacali (tra cui Cgil, Cisl, Uil) e i datori di lavoro.

Nel caso del contratto dei dipendenti RAI, il 17 luglio l’azienda e i sindacati hanno trovato un’intesa iniziale, che però è stata bocciata dieci giorni dopo da un referendum dei dipendenti stessi. Fonti interne all’azienda hanno rivelato a Pagella Politica che il rinnovo proposto non era adeguato alle richieste dei lavoratori, soprattutto per quanto riguarda l’aumento dei salari. Non è chiaro che cosa succederà in seguito al parere negativo dei dipendenti, se i sindacati riusciranno a trovare una soluzione che soddisfi azienda e lavoratori o se le trattative per il rinnovo del contratto dovranno ricominciare da capo. 

Va detto però che la situazione dei dipendenti RAI è piuttosto diffusa in Italia: secondo l’Istat, a giugno 2024 il 36 per cento dei Contratti collettivi nazionali di lavoro risultava scaduto, con quasi 5 milioni di lavoratori dipendenti che aspettavano un rinnovo. Addirittura il 100 per cento dei contratti della pubblica amministrazione risulta scaduto mentre in alcuni settori, come quello giornalistico, i contratti sono in attesa di rinnovo da otto anni, da dicembre 2016.

Ma perché periodicamente i Ccnl vanno rinnovati? E perché spesso questi rinnovi avvengono in ritardo? 

Il funzionamento dei Ccnl

Come anticipato, i contratti collettivi sono accordi tra uno o più datori di lavoro e una o più organizzazioni di lavoratori che stabiliscono le condizioni — non solo economiche — che dovranno essere rispettate in qualsiasi rapporto di lavoro in un determinato settore. Tra gli aspetti disciplinati da questi contratti ci sono solitamente la retribuzione, l’orario di lavoro, le ferie e i permessi, l’eventuale quattordicesima mensilità, la sicurezza sul lavoro, l’accesso alla formazione professionale e i diritti sindacali. Lo scopo di questi contratti è garantire ai lavoratori un trattamento equo e uniforme indipendentemente dall’azienda per cui lavorano.

Dal punto di vista giuridico, i Ccnl sono fonti del diritto del lavoro e hanno una forza vincolante sia per le parti che li hanno stipulati sia per tutti i lavoratori e datori di lavoro appartenenti al settore o comparto economico di riferimento. L’articolo 39 della Costituzione stabilisce che i contratti collettivi sono stipulati dai sindacati registrati e hanno efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce. In termini giuridici, questo principio è espresso con la formula latina “erga omnes”. 

In realtà, questo articolo della Costituzione non è pienamente attuato perché la registrazione dei sindacati non è mai stata disciplinata da una legge dello Stato, e quindi le organizzazioni dei lavoratori non possono di fatto stipulare accordi vincolanti per intere categorie e i contratti collettivi non sono dunque validi erga omnes. «La ragione storica è legata al fatto che dopo il 1948 i contrasti tra i sindacati vicini alla Democrazia Cristiana e al Partito Comunista Italiano si sono fatti molto duri e questa divisione ha impedito alle parti di trovare un accordo per realizzare una norma unica a livello nazionale che disciplinasse la registrazione dei sindacati», ha spiegato a Pagella Politica Lucio Imberti, professore di Diritto del lavoro all’Università di Bergamo. 

Ma qual è l’effetto pratico di questa mancata applicazione dell’articolo 39? «Oggi i contratti collettivi stipulati non sono efficaci per tutti i lavoratori e per tutti i datori di lavoro, ma vanno inseriti nell’ambito del diritto privato», ha continuato Imberti. «In parole povere, un datore di lavoro può scegliere quale contratto collettivo applicare. Questo in qualche modo spiega perché ci sono un migliaio di contratti collettivi nazionali di lavoro, anche nello stesso settore, che sono quasi identici dal punto di vista formale tranne che per il fatto di avere livelli salariali molto diversi».

Ufficialmente, infatti, i Ccnl registrati nell’archivio del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (Cnel) sono quasi mille, e circa la metà di questi è stato sottoscritto da organizzazioni poco rappresentative dei lavoratori, prevedendo spesso condizioni economiche e tutele inferiori rispetto a quelli siglati dai sindacati principali. Contratti di questo tipo sono definiti a volte “contratti pirata” e sono proliferati negli ultimi anni soprattutto a causa della mancanza di regole chiare.

In ogni caso, rimanendo sui contratti collettivi “reali”, perché le tutele garantite dai contratti rimangano adeguate al costo della vita e agli eventuali aumenti dell’inflazione, i Ccnl vanno periodicamente aggiornati, in genere ogni tre anni. Questo rinnovo però spesso incontra una serie di ostacoli, che in alcuni casi porta alla scadenza dei contratti collettivi e allo stallo — che può durare anche anni — delle trattative tra i sindacati e i datori di lavoro. I contratti scaduti rimangono comunque in vigore dal punto di vista legale, grazie alla clausola di “ultrattività”, presente in tutti i Ccnl, che permette a questi documenti di durare anche dopo la scadenza e fino alla stipula di un nuovo accordo.

Il rinnovo e gli ostacoli

Anche se sono più di mille, i Ccnl italiani non sono distribuiti equamente tra tutti i lavoratori: basti pensare che, secondo i dati più aggiornati dell’Inps, i dieci contratti collettivi più diffusi coprono da soli quasi il 53 per cento di tutti i lavoratori dipendenti italiani. 
Immagine 1. I dieci Ccnl più diffusi in Italia alla fine del 2022 – Fonte: Inps
Immagine 1. I dieci Ccnl più diffusi in Italia alla fine del 2022 – Fonte: Inps
Partiamo dal tipo di contratto più diffuso, quello che riguarda i dipendenti del settore terziario e quindi dei servizi, che è noto col nome di “contratto commercio”. Il 22 marzo questo contratto, che da solo riguarda circa 2,8 milioni di lavoratori, è stato rinnovato per il triennio 2024-2027 e rispetto all’accordo precedente prevede un riconoscimento forfettario una tantum di 350 euro e un aumento della retribuzione — parametrato al livello di inquadramento — per contenere la perdita di potere d’acquisto dovuta al recente aumento dell’inflazione. Questo rinnovo però non è avvenuto nei tempi previsti, dato che il precedente contratto del settore terziario è scaduto alla fine del 2019. Questi oltre quattro anni prima del rinnovo sono stati segnati da numerose proteste dei lavoratori, che già a fine 2022 avevano portato i sindacati a raggiungere un “accordo ponte” con Confcommercio (che rappresenta in questo caso i datori di lavoro) per ottenere in busta paga un incentivo una tantum e degli acconti sui futuri aumenti.

Rimanendo nel gruppo dei contratti più diffusi, il contratto dei metalmeccanici, la cui scadenza è prevista per la fine di quest’anno, è già in fase di rinnovo e le trattative tra i sindacati e l’organizzazione dei datori di lavoro (in questo caso Federmeccanica) stanno proseguendo, con il prossimo incontro previsto per il 19 settembre. Il 5 luglio le organizzazioni sindacali del settore turistico hanno invece stipulato con Federalberghi l’accordo di rinnovo del Ccnl per i dipendenti da aziende del settore turismo, dopo che il precedente contratto è scaduto a fine 2021 e le trattative sono state a lungo bloccate dalla pandemia di Covid-19. 

«Difficilmente in settori produttivi come l’industria si rilevano ritardi nel rinnovo dei contratti collettivi», ha spiegato a Pagella Politica Marco Leonardi, professore di Economia all’Università di Milano, già capo del Dipartimento per la programmazione economica della Presidenza del Consiglio dei ministri durante il governo Draghi. «Anche gli aumenti sono in linea con l’inflazione, almeno nei contratti stipulati dai grandi sindacati: i contratti “pirata” invece, che sono molto più diffusi in settori come i servizi, spesso non garantiscono aumenti adeguati».

Due casi particolari

Oltre a eventi eccezionali come la pandemia di Covid-19, spesso il mancato rinnovo del contratto collettivo è determinato da cause strettamente economiche. È il caso per esempio del Ccnl per i giornalisti, scaduto il 31 marzo 2016, oltre otto anni fa. In poche parole, nel nostro Paese l’informazione vive da anni un periodo difficile e molte testate giornalistiche — anche di livello nazionale — sono in crisi profonda. A causa del calo delle vendite gli editori sono restii a rinnovare i contratti e adeguare le retribuzioni all’aumento dell’inflazione. Non solo: il contratto attuale, firmato nel 2013, non rispecchia più il mondo del giornalismo attuale, fatto di nuove figure professionali, di una precarietà sempre più diffusa e di strumenti come i social network e l’intelligenza artificiale, che stanno modificando profondamente questa professione. 

Sul tema è intervenuto anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Ad agosto del 2023, durante l’incontro annuale con i giornalisti della stampa parlamentare, Mattarella ha sottolineato che «il contratto di lavoro dei giornalisti, scaduto ormai da anni, costituisce il primo elemento dell’autonomia della categoria». A maggio 2024 la Federazione nazionale della stampa italiana (Fnsi) ha incontrato i rappresentanti della Federazione italiana editori giornali (Fieg) per iniziare a discutere del nuovo contratto nazionale.

«I Ccnl sono diretta espressione delle condizioni del mercato del lavoro», ha spiegato Imberti. «Fino a due anni fa l’inflazione cresceva poco e la pressione sul rinnovo dei contratti era bassa, perché i lavoratori non percepivano una diminuzione del loro potere d’acquisto. Adesso che l’inflazione cresce a un ritmo più alto, la questione retributiva è tornata centrale nel dibattito sul rinnovo dei contratti». Variabili come un aumento dell’inflazione non colpiscono solo i lavoratori: «Gli effetti si percepiscono da entrambe le parti, perché da un lato i dipendenti chiedono gli adeguamenti retributivi, dall’altro i datori di lavoro lamentano una serie di problematiche, dall’aumento del costo delle materie prime al calo delle vendite dovuto all’inflazione, e così si crea lo stallo: come diceva Luciano Lama, storico segretario della Cgil, “il salario non è una variabile indipendente”», ha sottolineato Imberti.

Nonostante l’inflazione alta, non tutte le categorie di lavoratori stanno avendo difficoltà a rinnovare i propri contratti collettivi nazionali. Per esempio, questo è il caso del contratto dei bancari, scaduto alla fine del 2022 e rinnovato a novembre 2023 al termine di una trattativa tra i sindacati e l’Associazione bancaria italiana (Abi), che prevede aumenti medi per i lavoratori di 435 euro mensili e una riduzione dell’orario lavorativo di mezz’ora la settimana. «Non tutti i settori sono uguali — ha commentato Imberti — ma questo rinnovo, avvenuto in un momento come questo, ha generato un certo spiazzamento e ha fatto sì che anche altre categorie rivendicassero degli aumenti».

I Ccnl e il salario minimo

Come abbiamo spiegato in un altro approfondimento sul tema, l’Italia ha una copertura dei contratti nazionali pari a circa l’80 per cento dei lavoratori coinvolti: questo significa che la stragrande maggioranza dei lavoratori dipendenti nel nostro Paese gode di una serie di tutele, tra cui l’individuazione di alcuni minimi salariali, sotto i quali i datori di lavoro non possono scendere. In Italia questo dato viene spesso citato per sostenere che l’introduzione di un salario minimo, ossia di una soglia di retribuzione minima per legge per tutti i lavoratori, potrebbe danneggiare la contrattazione collettiva e far aumentare i costi delle imprese. In realtà, come abbiamo spiegato nella nostra nuova Guida di Pagella Politica al salario minimo, i dati e le ricerche disponibili sembrano smentire questa tesi.

«I contratti collettivi nazionali e il salario minimo sono due cose diverse che convivono in molti Paesi», ha detto Marco Leonardi. «Solo in Italia si pensa che non possano convivere per questioni politiche». Gli esperti concordano sul fatto che i Ccnl e il salario minimo si rivolgono in larga parte a due platee diverse: «Il salario minimo riguarda tutti quei lavoratori per cui il contratto collettivo ha valore puramente formale, come per esempio chi fa le consegne, chi lavora nei bar, i giovani che lavorano la sera nel settore della ristorazione», ha continuato Leonardi, secondo cui «questo insieme di lavoratori, caratterizzato da forte marginalità e precarietà, rappresenta il 6-7 per cento del totale della forza lavoro del nostro Paese». 

«Alcuni sindacati sono restii all’introduzione del salario minimo perché temono che così i datori di lavoro non avrebbero più interesse a firmare i contratti collettivi», ha aggiunto Imberti. «Ma già oggi tanti lavoratori, nonostante siano coperti da qualche tipo di Ccnl, guadagnano meno delle 9 euro l’ora proposte dal salario minimo». Al di là delle posizioni dei sindacati, Imberti ha sottolineato che il ruolo di queste organizzazioni dei lavoratori è diventato negli anni sempre più difficile. «Prima i sindacati erano considerati l’autorità salariale, che si accordava con le organizzazioni datoriali e fissava il salario: non a caso gli antenati dei contratti collettivi erano i cosiddetti “concordati di tariffa”, fogli di poche righe in cui era scritto che l’ora di lavoro non poteva essere pagata meno di 10 lire. Adesso i corpi intermedi non possono accordarsi da soli sui salari, ma devono tenere conto di una serie di variabili imposte e guidate dal mercato, e quindi il loro raggio d’azione si è ridotto molto».

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