Che fine ha fatto il Green Deal

Il piano dell’Ue per raggiungere la neutralità climatica nel 2050 era stato annunciato come una priorità, ma di recente è stato oggetto di compromessi al ribasso
ANSA
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Negli ultimi anni le politiche ambientali sono diventate centrali nell’attività dell’Unione europea, che in questa legislatura ha approvato leggi ambiziose per contrastare i cambiamenti climatici. In questo ambito ha giocato un ruolo di primo piano il cosiddetto Green Deal europeo, l’insieme di riforme con cui l’Ue si è data l’obiettivo di diventare entro il 2050 il primo continente a impatto climatico zero. In altre parole, entro quella data l’Ue si è impegnata ad azzerare le emissioni nette di gas a effetto serra: nel 2050 la differenza tra le emissioni generate e quelle riassorbite, per esempio dalle foreste, dovrà essere pari a zero. 

Dopo le proteste di alcuni Stati membri contro il Green Deal, l’attuazione di questo piano è rallentata e, in alcuni casi, le istituzioni europee hanno rivisto al ribasso gli obiettivi originari, per non scontentare le categorie che ritengono di essere più penalizzate dalle nuove politiche ambientali. Anche per questo motivo il Green Deal è uno dei temi più dibattuti in questa campagna elettorale per le elezioni europee, che tra il 6 e il 9 giugno vedranno circa 359 milioni di cittadini europei recarsi alle urne per rinnovare i 720 membri del Parlamento europeo. In Italia i partiti che sostengono il governo Meloni chiedono una profonda revisione del Green Deal, mentre i partiti all’opposizione – anche se non tutti – difendono il piano e vogliono un suo rafforzamento.

Come lo sbarco sulla Luna

La presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha presentato il Green Deal ormai oltre quattro anni fa, l’11 dicembre 2019, all’inizio del suo mandato da presidente. Esponente del Partito Popolare Europeo (PPE), von der Leyen ha posto la lotta ai cambiamenti climatici in cima alla lista delle sue priorità e ha affidato la delega al Green Deal al “numero due” della Commissione Ue, il vicepresidente olandese Frans Timmermans. Nel 2023 Timmermans, esponente del Partito Socialista Europeo (PSE), si è candidato alle elezioni politiche nei Paesi Bassi e da allora è stato sostituito dal commissario europeo Maroš Šefčovič (Slovacchia).

Annunciando il Green Deal, von der Leyen l’aveva paragonato allo sbarco sulla Luna e all’inizio di un viaggio di cui ancora non si conoscevano tutte le risposte. Pochi giorni più tardi, il Consiglio europeo ha dato il via libera al piano, seguito a gennaio 2020 dal parere favorevole del Parlamento europeo. Tra i primi passi del Green Deal, nel 2021 è stata approvata la “legge europea sul clima”: da un lato, questa ha reso vincolante l’impegno a raggiungere la neutralità climatica entro il 2050; dall’altro lato, ha fissato l’obiettivo di ridurre entro il 2030 le emissioni dell’Ue di almeno il 55 per cento rispetto ai livelli del 1990. La legge prevedeva inoltre la definizione di un obiettivo intermedio di riduzione delle emissioni per il 2040, che a febbraio 2024 è stato indicato dalla Commissione europea al 90 per cento.

Pronti per il 55

Per raggiungere l’obiettivo fissato per il 2030, nel luglio 2021 la Commissione europea ha proposto il pacchetto Fit for 55 (in italiano “Pronti per il 55 per cento”), una serie di proposte legislative che illustrano come l’Ue intende raggiungere l’obiettivo di riduzione delle emissioni. Negli ultimi due anni queste proposte sono state esaminate e modificate dal Parlamento europeo e dal Consiglio dell’Ue. 

Per esempio, per azzerare le emissioni nel settore dei trasporti è stato approvato un regolamento che prescrive il blocco alla produzione e alla vendita di auto e furgoni con motori a diesel e benzina dal 2035. L’unica eccezione prevista riguarda i veicoli alimentati da carburanti sintetici, i cosiddetti e-fuel, ricavati dall’idrogeno e dalla CO2. Al momento del voto l’Italia si è astenuta, non essendo riuscita a far inserire tra le eccezioni i biocarburanti.

Un’altra misura contestata è stata la direttiva sulla prestazione energetica degli edifici, conosciuta in Italia come “direttiva case green”. Questa prevede che tutti gli edifici di nuova costruzione siano a emissioni zero entro il 2030 e che quelli esistenti siano convertiti in edifici a emissioni zero entro il 2050. In questo caso l’Italia si è schierata contro la direttiva, affermando che i costi degli interventi di efficientamento energetico ricadranno sui cittadini o sui conti pubblici. Al momento i costi effettivi sono però impossibili da stabilire.

Tra le altre novità del pacchetto Fit for 55 c’è il meccanismo di adeguamento del carbonio alle frontiere (CBAM). Questo meccanismo punta a garantire che gli sforzi per la riduzione delle emissioni nei Paesi dell’Ue non siano compromessi dall’aumento delle emissioni nei Paesi extra-Ue. Le aziende responsabili delle emissioni infatti potrebbero delocalizzare la produzione in Paesi dove le politiche di contrasto ai cambiamenti climatici sono meno stringenti. Pertanto, sui prodotti a elevato impatto ambientale è stato imposto un sovrapprezzo al momento dell’importazione. In questo modo, da un lato si garantisce un’equa concorrenza tra i produttori europei e quelli di Paesi terzi, e dall’altro si incentiva una riduzione delle emissioni anche al di fuori dell’Ue. Il CBAM è entrato in vigore nel 2023 per determinate categorie di prodotti (cemento, ferro e acciaio, alluminio, fertilizzanti, elettricità e idrogeno), con l’obiettivo di applicarlo a pieno regime a partire dal 2026.

Come si finanzia il Green Deal

Per finanziare il Green Deal la Commissione europea ha fissato l’obiettivo di usare un terzo dei 1.800 miliardi di euro di investimenti del Next Generation EU (NGEU) e del bilancio settennale dell’Unione europea. Il Next Generation Eu è il programma con cui la Commissione Ue ha finanziato, emettendo debito comune europeo, i piani di ripresa economica dei vari Paesi europei dopo la pandemia da Covid-19. Inizialmente il NGEU prevedeva che almeno il 37 per cento dei fondi fosse destinato al sostegno della transizione climatica. Secondo le stime più recenti della Commissione, questa soglia è stata superata e ha raggiunto il 40 per cento del totale, con circa 275 miliardi di euro destinati alla transizione ecologica. Di questi fondi, oltre 60 miliardi di euro provengono dal capitolo REPowerEU, che ha aggiornato i piani di ripresa e resilienza degli Stati membri in seguito all’invasione russa dell’Ucraina, per assicurare l’indipendenza energetica dalla Russia e incentivare la produzione di energia pulita.

Tra gli altri strumenti di finanziamento, la politica di coesione contribuisce per circa 118 miliardi di euro alla transizione ecologica. La politica di coesione è l’insieme delle iniziative messe in atto dall’Ue per colmare le disuguaglianze fra gli Stati membri. Per esempio, nel quadro della politica di coesione il Just Transition Fund (in italiano “Fondo per la Transizione Giusta”) sostiene i territori che devono far fronte a gravi sfide socio-economiche derivanti dalla transizione verso la neutralità climatica. Questo fondo mette a disposizione circa 19 miliardi di euro per interventi di riqualificazione dei lavoratori, investimenti nelle piccole e medie imprese, ricerca e innovazione.

Un’altra voce di finanziamento è il sistema per lo scambio delle quote di emissione (ETS), il principale strumento adottato dall’Ue per ridurre le emissioni nei settori industriali e nell’aviazione. Questo meccanismo stabilisce un tetto massimo alle emissioni consentite sul territorio europeo, che corrisponde a un numero equivalente di “quote” che possono essere acquistate e vendute su un mercato dedicato. Ogni operatore industriale o aereo deve “compensare” annualmente le proprie emissioni acquistando la quantità di quote corrispondente. Dal 2005 il sistema ETS ha prodotto oltre 180 miliardi di euro di entrate per l’Ue, una parte delle quali è stata usata per finanziare la transizione verde. Il Green Deal ha rivisto al rialzo gli obiettivi di riduzione delle emissioni ed esteso il sistema ETS al settore del trasporto marittimo.

Le retromarce

Al netto dei risultati raggiunti, di recente le istituzioni europee hanno ridimensionato alcuni obiettivi del Green Deal. Un esempio di questo cambio di passo è il ritiro da parte della Commissione europea della proposta di regolamento sull’uso sostenibile dei prodotti fitosanitari (SUR). Questo provvedimento prevedeva di ridurre l’uso dei pesticidi in agricoltura entro il 2030, ma in seguito alle proteste degli agricoltori contro le politiche ambientali dell’Ue è stato fermato. «I nostri agricoltori meritano di essere ascoltati: so che sono preoccupati per il futuro dell’agricoltura», ha detto von der Leyen a febbraio, motivando il ritiro della proposta. Il Parlamento europeo, comunque, aveva già respinto il regolamento SUR e all’interno del Consiglio dell’Ue le trattative erano in stallo da tempo.

Una situazione simile si sta verificando con la “legge sul ripristino della natura”, un provvedimento chiave nella strategia europea sulla biodiversità. Il regolamento, che prevede di riportare almeno il 20 per cento delle terre e dei mari europei al loro stato originale entro il 2030, è stato approvato dal Parlamento europeo lo scorso febbraio per pochi voti di scarto. La maggioranza che sostiene l’attuale Commissione Ue si è infatti divisa: il gruppo dei Socialisti e Democratici (S&D) e quello dei liberali di Renew Europe hanno votato a favore, insieme ai Verdi (Verdi/ALE) e al gruppo della sinistra (GUE/NGL), mentre i popolari del PPE, di cui fa parte la stessa von der Leyen, hanno votato contro insieme ai gruppi di Identità e Democrazia (ID) e dei Conservatori e Riformisti Europei (ECR) [1] . Alcuni eurodeputati del PPE hanno però votato in dissenso rispetto al loro gruppo, contribuendo al raggiungimento della maggioranza necessaria per l’approvazione. Il regolamento si è bloccato nel passaggio successivo: all’interno del Consiglio dell’Ue manca ancora la maggioranza qualificata di Stati che rappresentino almeno il 65 per cento della popolazione europea, necessaria per il via libera definitivo al regolamento.
Il 12 aprile il Parlamento e il Consiglio dell’Ue hanno invece raggiunto un accordo sul regolamento “Euro 7” che stabilisce lo standard di emissione per i veicoli stradali, ma anche in questo caso le ambizioni ambientaliste sono state ridimensionate rispetto alla proposta iniziale della Commissione. Il regolamento mantiene infatti invariati i limiti di emissione dei gas di scarico già previsti per lo standard “Euro 6”, seppur introducendo requisiti più stringenti per le particelle solide. Inoltre, i tempi per l’applicazione del regolamento sono stati dilatati, con scadenze diverse a seconda del tipo di veicolo.

Il futuro del Green Deal

Se da un lato le forze ambientaliste ritengono dannosa la marcia indietro compiuta sul Green Deal, dall’altro i partiti conservatori criticano le misure finora approvate, giudicate poco sostenibili dal punto di vista sociale ed economico. Di recente, ospite a un evento organizzato dal quotidiano La Verità, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha ribadito che «possiamo dire che qualcosa non ha funzionato in come abbiamo portato avanti questa transizione verde». Meloni ha aggiunto che il governo italiano è interessato a nominare il prossimo commissario al Green Deal per «correggere un po’ il tiro, come di fatto già si sta correggendo» con l’avvicinarsi delle elezioni europee. 

All’incarico è interessata per ragioni opposte la Spagna, dove il Partito Socialista Operaio di Pedro Sánchez ha candidato come capolista alle elezioni europee la ministra per la Transizione ecologica Teresa Ribera. Il 10 maggio, in un’intervista a Politico, Ribera ha criticato von der Leyen per il rallentamento nell’attuazione del Green Deal, definendolo «un grande errore» e ricordando che «non c’è tempo da perdere». Ribera, che da almeno vent’anni si occupa di lotta ai cambiamenti climatici, ha aggiunto che sulla transizione ecologica «dobbiamo ancora fare molto di più», aumentando la cooperazione europea in materia di energia, acqua e investimenti verdi e impegnandosi di più per attutire gli effetti economici della transizione.

[1] La votazione è la 9.3 sul “Nature restoration”.

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