Perché l’agricoltura è così importante per l’Ue

Il settore genera meno del 2 per cento del Pil europeo ma i suoi sussidi pesano per un terzo sul bilancio comunitario. Questo apparente paradosso ha radici lontane 
ANSA
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Nelle ultime settimane molti agricoltori in vari Paesi europei, tra cui Italia, Francia e Germania, stanno protestando contro le politiche dell’Unione europea, accusata di mettere in difficoltà il comparto agricolo. La stessa Ue, però, è un’indispensabile fonte di finanziamento per l’agricoltura: attraverso la Politica agricola comune (PAC), che vale circa un terzo dell’intero bilancio dell’Ue, gli agricoltori degli Stati membri ricevono sussidi che sostengono i redditi e assicurano la competitività dei prodotti sul mercato europeo e su quello estero. Al tempo stesso il settore dell’agricoltura contribuisce per meno del 2 per cento al Prodotto interno lordo (Pil) dell’Ue.

Come si spiega questo apparente paradosso? Da un lato l’agricoltura sembra un settore marginale per l’economia europea, dall’altro lato è centrale in termini di risorse ricevute. Insomma, perché l’agricoltura è così importante per l’Europa? In estrema sintesi, dalla fine della Seconda guerra mondiale in poi «l’interesse per l’agricoltura non è mai scemato e tuttora resta un ambito strategico per l’Ue: da un lato c’è l’attenzione alla salvaguardia dell’ambiente, che l’opinione pubblica guarda con interesse, ma dall’altro c’è la volontà di tutelare quella parte importante del reddito interno che si produce in agricoltura e che ha permesso ai lavoratori di questo settore di migliorare le proprie condizioni dagli anni Cinquanta a oggi», ha spiegato a Pagella Politica Piero Graglia, professore di Storia delle relazioni internazionali all’Università Statale di Milano.

Aziende piccole e a conduzione famigliare

Innanzitutto bisogna tenere a mente che, per ragioni economiche e geografiche, le attività agricole non sono distribuite in modo uniforme tra i 27 Stati membri dell’Ue, come dimostrano alcuni numeri. Secondo Eurostat, nell’Ue ci sono poco più 9 milioni di aziende agricole, di cui quasi il 60 per cento è concentrato in tre Paesi: Romania (32 per cento), Polonia (14,4 per cento) e Italia (12,5 per cento). 

La stragrande maggioranza di queste aziende ha piccole dimensioni: nell’Ue il 64 per cento delle aziende agricole ha infatti una superficie inferiore ai 5 ettari, pari a circa sette campi da calcio (in Italia la percentuale è la stessa). Solo il 4 per cento delle imprese opera invece su terreni grandi oltre i 100 ettari. La dimensione media di un’azienda agricola europea è di 17,4 ettari, ma solo il 18 per cento delle aziende supera questa soglia. 

Il 95 per cento delle aziende agricole in Europa, poi, è a conduzione familiare, ossia almeno la metà della forza lavoro che ogni azienda impiega arriva da componenti che fanno parte della stessa famiglia. In Italia le imprese agricole a conduzione familiare raggiungono quasi il 98 per cento sul totale.
Grandi differenze tra i Paesi Ue ci sono anche a livello occupazionale. In Europa il settore agricolo impiega circa 8,6 milioni di lavoratori, un numero pari a poco più del 4 per cento del totale dei 210 milioni di occupati nei 27 Stati membri. In Italia questa percentuale si aggira intorno al 3 per cento, così come in Spagna, mentre in Francia e Germania l’agricoltura ha un peso leggermente più basso sull’occupazione, rispettivamente intorno al 2 e all’1 per cento. In Romania questa percentuale supera invece il 20 per cento e in Bulgaria il 15 per cento.

Perché è nata la PAC

Per tutte queste aziende e tutti questi occupati un ruolo fondamentale è svolto dalla Politica agricola comune (PAC), ossia l’insieme di norme che regolano il comparto agricolo nei Paesi dell’Ue. La PAC è finanziata da due fonti: il Fondo europeo agricolo di garanzia (abbreviato in italiano con la sigla “FEAGA”), che eroga sussidi agli agricoltori e finanzia misure di sostegno del mercato; e il Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale (FEASR), che contribuisce allo sviluppo sostenibile delle zone rurali. Entrambi questi fondi ricevono soldi dal bilancio pluriennale dell’Ue, che è finanziato da varie entrate, tra cui i contributi degli Stati membri e i dazi.

L’idea di avere una politica per l’agricoltura unificata a livello europeo risale alla nascita del processo di integrazione europea. Già nel Trattato di Roma del 1957, che ha istituito la Comunità economica europea (CEE), compariva il primo riferimento all’«instaurazione di una politica comune nel settore dell’agricoltura». «In quegli anni il settore primario era decisivo per l’economia europea: in Italia il 40 per cento della popolazione era impiegato in attività agricole», ha spiegato Graglia. Come abbiamo visto, nel corso degli anni questa percentuale si è fortemente ridotta, arrivando al 3 per cento attuale.

Per i governi degli Stati fondatori della CEE (Italia, Francia, Germania, Paesi Bassi, Belgio, Lussemburgo) gli incentivi agli agricoltori erano considerati strategici per ottenere consenso elettorale. «Al contrario degli operai, le persone impiegate in agricoltura non avevano un atteggiamento di fedeltà politica predeterminato: il loro voto andava tradizionalmente a chi assicurava più sussidi e politiche di sostegno. Per questo erano soprattutto i governi di Francia e Italia a spingere in direzione della PAC, con l’obiettivo di guadagnare l’appoggio dei contadini e ostacolare l’ascesa dei partiti comunisti e socialisti, particolarmente forti in questi Paesi», ha continuato Graglia. 

Il controllo dell’andamento dei prezzi era uno degli altri obiettivi alla base della nascente politica comune per l’agricoltura. «La gran parte dei consumi riguardava prodotti derivanti dalla coltivazione o dall’allevamento. Mantenere prezzi ragionevoli, cioè convenienti per chi produce e accettabili per chi consuma, diventava uno strumento per controllare il livello dell’inflazione», ha sottolineato il professore della Statale di Milano. Per raggiungere questo obiettivo era considerata necessaria una politica di sussidi e aiuti che rendesse appetibile e conveniente proseguire l’attività agricola. In quegli anni, caratterizzati da una forte crescita dell’economia, l’industrializzazione stava spingendo sempre più contadini ad abbandonare le campagne per cercare lavoro nelle fabbriche di città. «Si voleva scongiurare a tutti i costi una carenza di beni alimentari. Anzi, l’obiettivo era raggiungere l’autosufficienza agroalimentare dell’Europa occidentale, evitando di ricorrere alle importazioni dall’estero», ha spiegato Graglia.

Quanto vale la PAC

Sulla base di queste premesse, negli anni successivi alla Seconda guerra mondiale i governi europei hanno varato una robusta politica di sostegno all’agricoltura. Nei primi anni della PAC, in vigore dal 1962, questa occupava fino a tre quarti del bilancio della CEE. «Era una politica estremamente costosa, che portava spesso a storture. Molte volte la CEE stimolava l’iperproduzione, per poi acquistare l’invenduto sul mercato e distruggerlo», ha spiegato Graglia. 

Sebbene le percentuali siano calate, ancora oggi alla PAC è destinata una quota rilevante delle risorse dell’Ue. Secondo i dati della Commissione europea, tra il 2023 e il 2027 alle misure finanziate dalla PAC andranno 387 miliardi di euro: 291 miliardi di euro sono messi a disposizione dal fondo FEAGA e 96 miliardi dal fondo FEASR. Il bilancio pluriennale dell’intera UE, per il periodo 2021-2027, vale nel complesso 1.076 miliardi di euro. Dunque l’intera PAC ha un valore superiore a un terzo del bilancio Ue. Questa percentuale supera ogni altra voce di spesa del bilancio, inclusi i fondi per la coesione economica, sociale e territoriale, che pesano per circa il 30 per cento. 

«Negli anni l’Ue ha acquisito sempre più competenze e il suo bilancio ha iniziato a comprendere nuovi capitoli di spesa. I fondi per l’agricoltura sono comunque rimasti elevati grazie all’accorpamento della PAC con le politiche di tutela ambientale, partendo dal presupposto che i contadini sono i principali interessati a mantenere l’equilibrio ambientale», ha spiegato Graglia. «Per esempio, l’Ue stanzia fondi per incentivare la rotazione delle colture: sostiene economicamente gli agricoltori che scelgono di coltivare mais, soia e colza, prodotti che rendono meno dei cereali estensivi, ma che sono meno dannosi per la biodiversità».

I dati sui redditi e sul commercio

Negli anni recenti la PAC sembra aver raggiunto una parte degli obiettivi che si era prefissata. Prendiamo due elementi: i redditi degli agricoltori e il commercio dei prodotti agricoli. 

Nel 2021 ogni lavoratore del settore agricolo ha dichiarato in media quasi 29 mila euro, un valore cresciuto nel tempo. Rispetto al 2013, infatti, il reddito medio degli agricoltori è cresciuto del 56 per cento (più dell’aumento registrato in media dagli altri lavoratori), a fronte di un aumento dell’inflazione superiore al 9 per cento. Questo ha fatto sì che non ci sia stato un aumento solo in termini nominali, ma anche reali. 

Secondo un rapporto della Commissione europea pubblicato lo scorso novembre, il progressivo aumento dei redditi degli agricoltori può essere attribuito al miglioramento della produttività. Tra il 2013 e il 2021 il valore della produzione è aumentato più dei costi, mentre il numero delle persone impiegate nel settore è diminuito.
I dati sul commercio con l’estero mostrano che l’Ue, nel complesso, esporta più di quello che importa. Nel 2022 i Paesi dell’Ue hanno importato prodotti agricoli con un valore pari a 196 miliardi di euro, mentre ne hanno esportati 229 miliardi, generando così un surplus commerciale di 33 miliardi. Nei tre anni tra il 2019 e il 2021 la differenza tra esportazioni e importazioni era stata addirittura più alta.

L’Ue esporta i prodotti della sua agricoltura soprattutto verso il Regno Unito (21 per cento del totale delle esportazioni), gli Stati Uniti (12 per cento), la Cina (8 per cento), la Svizzera (5 per cento) e il Giappone (4 per cento), mentre importa in particolare dal Brasile e dal Regno Unito (9 per cento delle importazioni per entrambi), dagli Stati Uniti (5 per cento), dalla Norvegia (5 per cento) e dalla Cina (5 per cento).
Negli ultimi vent’anni l’Ue è sempre stata un’esportatrice netta di prodotti agricoli, ma solo dal 2010 si è assistito a un aumento delle esportazioni rispetto alle importazioni. Tra il 2002 e il 2008, con l’eccezione solo del 2006, il surplus agricolo è stato tra uno e 5 miliardi di euro. Il forte aumento si è registrato tra il 2011 e il 2013 e poi tra il 2018 e il 2021. 

Quanto producono le aziende agricole

I dati che abbiamo appena visto su redditi e commercio sono numeri complessivi, che mettono insieme tutti e 27 i Paesi membri dell’Ue. Se si analizza più nel dettaglio il valore della produzione delle aziende agricole, si notano enormi differenze tra i vari Stati. 

In generale, le aziende agricole nell’Ue possono essere raggruppate in tre categorie: ci sono le cosiddette “imprese di semisussistenza”, che coltivano cibo per nutrire gli agricoltori e le loro famiglie; ci sono le aziende di piccole e medie dimensioni, anche queste generalmente a conduzione famigliare; e poi ci sono le grandi imprese agricole o cooperative.

Quasi il 40 per cento di tutte le imprese europee ha una produzione agricola con un valore inferiore ai 2 mila euro: qui rientrano le imprese di semisussistenza. Il 55 per cento delle imprese ha una produzione con un valore tra i due e i 10 mila euro, mentre solo il 3 per cento supera i 250 mila euro. Chi rientra in quest’ultima percentuale fa parte delle cosiddette “grandi imprese agricole”, che sono responsabili per il 56 per cento della produzione agricola europea. 

Tra i vari Paesi europei le percentuali sulla presenza delle grandi imprese agricole cambiano molto. Nei Paesi Bassi queste aziende sono la metà sul totale, mentre in Italia e Spagna sono solo il 3 per cento. In media ogni azienda agricola dell’Ue produce 40 mila euro, ma anche qui ci sono grosse differenze: nei Paesi Bassi la media supera i 470 mila euro, mentre in Romania si aggira intorno ai 4 mila euro. In Italia la media è pari a 50 mila euro.

Il peso sull’ambiente

In queste settimane uno dei temi di maggiore dibattito nelle proteste degli agricoltori ha riguardato le politiche europee di tutela dell’ambiente, considerate dai manifestanti troppo rigide. Nonostante il ridotto peso sull’economia comunitaria, le attività agricole hanno un rilievo ben maggiore sull’uso del territorio e sulle emissioni di gas serra.

Circa il 38 per cento del territorio europeo è infatti dedicato all’agricoltura, con percentuali diverse tra i vari Stati membri. In Irlanda, Danimarca, Romania, Lussemburgo e Ungheria oltre il 50 per cento del territorio nazionale è occupato dalle attività agricole, mentre questa percentuale è sotto il 10 per cento in Svezia e Finlandia. Nei quattro grandi Paesi europei lo spazio destinato alle attività agricole è più o meno simile: è il 41 per cento in Italia, il 43 per cento in Francia, il 46 per cento in Germania e il 47 per cento in Spagna.
Secondo i dati dell’European Environment Agency, un organismo indipendente che si occupa del monitoraggio delle condizioni ambientali europee, dal 2005 a oggi le emissioni del settore agricolo sono diminuite del 4,8 per cento, in particolare grazie a un forte calo registrato nel 2022. Negli ultimi 17 anni le emissioni agricole sono diminuite in 14 Stati membri, mentre sono aumentate nei restanti 13. Per esempio Bulgaria, Lettonia e Estonia hanno registrato aumenti delle emissioni superiori al 20 per cento, mentre i quattro grandi Paesi europei (Italia, Francia, Germania e Spagna) le hanno ridotte. 
Nel 2022 l’agricoltura ha pesato per l’11 per cento sul totale delle emissioni di gas serra dell’Ue, mentre nel 2005 questa percentuale era intorno al 9 per cento [1]. Rispetto al 1990 le emissioni dell’agricoltura in percentuale sul totale non hanno avuto un grande cambiamento: hanno avuto un calo durante gli anni Novanta e i primi anni Duemila, ma poi sono risalite.

Anche in Italia le emissioni del settore agricolo hanno avuto un andamento simile. Secondo le stime dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra), l’agricoltura nel nostro Paese contribuisce a circa l’8 per cento delle emissioni nazionali, percentuale in leggero aumento sul totale. Questo non è dovuto a un aumento in valori assoluti delle emissioni agricole, ma a una più forte riduzione delle emissioni in altri settori, come quello energetico e dell’industria.

Le concessioni agli agricoltori

Tra gli altri, uno dei vincoli più criticati imposti dalla PAC è l’obbligo di lasciare incolto il 4 per cento dei propri terreni per favorire lo sviluppo della biodiversità. Questo vincolo sarebbe dovuto entrare in vigore dal 1° gennaio 2024, ma dopo le proteste degli agricoltori la Commissione Ue ha proposto una deroga, consentendo ai contadini di coltivare nella porzione di terra che sarebbe dovuta rimanere incolta le colture con un minore impatto ambientale, come fave, lenticchie o piselli. Ora questa deroga dovrà essere approvata dal Consiglio dell’Unione europea, che riunisce i ministri competenti dei 27 Stati membri.

Il 6 febbraio, durante la sessione plenaria del Parlamento europeo, la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha annunciato ulteriori concessioni agli agricoltori europei. In primo luogo la Commissione Ue ritirerà la proposta di legge che poneva l’obiettivo di ridurre l’utilizzo di pesticidi in agricoltura entro il 2030. «La proposta è diventata un simbolo di polarizzazione», ha spiegato von der Leyen annunciando il passo indietro, pur ricordando che «la questione rimane, ma servirà affrontarla con un approccio diverso». 

Nella comunicazione sugli obiettivi climatici per il 2040, la Commissione Ue ha poi evitato di definire un target preciso per l’agricoltura: rispetto alle prime bozze in circolazione, che fissavano l’obiettivo di riduzione delle emissioni in agricoltura al 30 per cento rispetto ai livelli del 2015, nel testo finale è stata scelta una formula più vaga: «L’agricoltura è fondamentale per garantire la sicurezza alimentare in Europa e, con politiche efficaci che premino le buone pratiche e un sostegno adeguato, può anche contribuire a ridurre le emissioni».

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