La Cassazione ha approvato i referendum sulla cittadinanza e sul Jobs Act

E anche quelli sull’indennità nei licenziamenti e sulla sicurezza sul lavoro. Ora dovrà esprimersi la Corte Costituzionale
ANSA/CLAUDIO PERI
ANSA/CLAUDIO PERI
Giovedì 12 dicembre la Corte di Cassazione ha dichiarato validi altri cinque referendum abrogativi, oltre a quello contro la legge sull’autonomia differenziata. Un referendum vuole modificare la legge che regola la concessione della cittadinanza italiana agli stranieri, mentre gli altri quattro referendum riguardano alcune regole del mercato del lavoro, e più nello specifico la riforma del Jobs Act approvata durante il governo di Matteo Renzi.

I referendum abrogativi servono a cancellare in tutto o in parte una legge, e i loro risultati sono validi solo se al voto partecipa almeno il 50 per cento più uno dei cittadini aventi diritto. Dopo il via libera della Cassazione, i cinque quesiti referendari dovranno passare l’esame della Corte Costituzionale, che dovrà giudicare se sono ammissibili oppure no. In caso di risposta positiva, gli elettori saranno chiamati a votare per i referendum in una domenica tra il 15 aprile e il 15 giugno 2025.

Il referendum sulla cittadinanza

Il referendum sulla cittadinanza propone di modificare in due punti l’articolo 9 della legge n. 91 del 1992, che stabilisce le modalità di concessione della cittadinanza italiana agli stranieri maggiorenni. 

Nella versione in vigore, la lettera “b” del comma 1 dell’articolo 9 prevede che la cittadinanza possa essere concessa «allo straniero maggiorenne adottato da cittadino italiano che risiede legalmente nel territorio della Repubblica da almeno cinque anni successivamente alla adozione». La lettera “f” dello stesso comma consente invece di diventare cittadino «allo straniero che risiede legalmente da almeno dieci anni nel territorio della Repubblica». 

Il referendum propone di cancellare le parole «adottato da cittadino italiano» e «successivamente alla adozione» dal comma “b” e di cancellare tutto il comma “f”. In questo modo, per tutti gli stranieri maggiorenni si porterebbe a cinque anni il periodo di residenza legale nel nostro Paese necessario a chiedere la cittadinanza italiana.
Lo scorso settembre, il quesito referendario sulla legge sulla cittadinanza ha superato in pochi giorni la soglia delle 500 mila firme necessarie per essere richiesto. È stato appoggiato da alcuni partiti all’opposizione, tra cui il Partito Democratico, Alleanza Verdi-Sinistra, Più Europa e Italia Viva, mentre i leader del Movimento 5 Stelle e di Azione, Giuseppe Conte e Carlo Calenda, hanno espresso dubbi sul referendum, che non è detto sarà ritenuto ammissibile dalla Corte Costituzionale, per vari motivi che abbiamo raccolto in un altro approfondimento.

I quesiti sul Jobs Act

Gli altri quattro quesiti referendari, promossi dal sindacato CGIL, da vari partiti e associazioni, riguardano alcune regole del mercato del lavoro. Due di questi referendum mirano a cancellare alcune norme introdotte dal Jobs Act, espressione che fa riferimento a una serie di provvedimenti adottati dal governo Renzi tra il 2014 e il 2016 per riformare il mercato del lavoro. 

Il primo quesito sul Jobs Act chiede di eliminare interamente il decreto legislativo n. 23 del 2015, che ha introdotto il “contratto di lavoro a tutele crescenti”. Con questo contratto, l’azienda che licenzia illegittimamente un lavoratore non è più tenuta a reintegrarlo (come previsto in precedenza dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori) ma solo a garantirgli un indennizzo economico basato sull’anzianità in azienda. Eliminando l’intero decreto-legislativo, il referendum punta a tornare alla situazione precedente al Jobs Act.

L’altro quesito sul Jobs Act propone di cancellare alcuni commi dell’articolo 19 e dell’articolo 21 del decreto legislativo n. 81 del 2015, sulla durata dei contratti di lavoro a tempo determinato. In concreto, il quesito vuole eliminare la possibilità per i datori di lavoro di stipulare contratti a termine della durata di un anno, come previsto oggi dalla legge, portando in ogni caso la durata massima a due anni. In più, il referendum esclude la possibilità di stipulare un contratto a termine per esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva dell’azienda e obbliga il datore di lavoro a comunicare sempre per iscritto le motivazioni del contratto a termine, non solo al momento di un eventuale rinnovo.

I referendum sull’indennità nei licenziamenti e sulla sicurezza sul lavoro

Gli altri due quesiti promossi dalla CGIL riguardano l’indennità che un datore di lavoro deve dare al lavoratore licenziato senza giusta causa e gli infortuni sul lavoro. 

Il primo quesito chiede di eliminare il limite massimo di indennizzo nel caso di licenziamento di un lavoratore senza motivo giustificato. Al momento la legge prevede che a un lavoratore licenziato senza giuste motivazioni (come l’inadempimento degli obblighi contrattuali) il datore di lavoro deve dare un risarcimento fino un massimo di sei stipendi mensili, che può arrivare fino dieci mensilità se il lavoratore licenziato ha lavorato per più di dieci anni nell’azienda e fino a 14 mensilità se ha lavorato per più di vent’anni (a patto però che l’azienda abbia più di quindici dipendenti). Il referendum della CGIL vuole eliminare il tetto massimo per l’indennità previsto dalla legge, affidando ai giudici il compito di stabilire l’importo del risarcimento caso per caso.

L’altro quesito referendario punta a eliminare una parte dell’articolo 26 del decreto legislativo n. 123 del 2008, che riguarda la sicurezza sui luoghi di lavoro. Il comma 4 di questo articolo esclude le aziende committenti di un appalto o di un subappalto dalla responsabilità per infortunio o malattia professionale di un lavoratore. Dunque, la legge prevede che in caso di appalto o subappalto la responsabilità per gli infortuni sul lavoro ricade solo sulle aziende appaltatrici, e non sulle aziende committenti, ossia chi affida l’appalto stesso. Il quesito referendario della CGIL chiede che sia cancellata la parte del comma 4 che esclude la responsabilità delle aziende committenti, estendendo anche a loro la responsabilità per gli infortuni sul lavoro.

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