Fiscal Compact, questo sconosciuto.



Se per gli elettori non è forse ancora chiarissimo cosa comporta questo trattato, sembra che politici di ogni schieramento abbiano a loro volta qualche difficoltà a riportare con chiarezza i vincoli che esso porrà in essere. Dopo le stime – alquanto apocalittiche – sul costo annuo dell’aggiustamento richiesto, fatte da Giorgia Meloni e Beppe Grillo, ecco che anche Silvio Berlusconi sceglie di presentare in maniera creativa il Fiscal Compact.



Il Fiscal Compact è una parte della nuova governance economica che l’Unione Europea si è data in seguito alla crisi, nello specifico una sezione del Trattato sulla Stabilità, sul Coordinamento e sulla Governance nell’Unione Economica e Monetaria.



Partiamo con il primo errore di Berlusconi: il Fiscal Compact non è un accordo tra i soli Paesi dell’eurogruppo ma è vincolante – pur in diverse maniere – per i 25 firmatari, ossia tutti i Paesi dell’Unione Europea salvo il Regno Unito e la Repubblica Ceca (che nel frattempo ha aderito) che si sono astenuti, e la Croazia che non era ancora membro dell’Unione Europea al momento della firma.

Come si può leggere nell’ultimo articolo del preambolo del trattato (pag. 9), i Paesi che attualmente sono al di fuori dell’euro sono vincolati solo dal momento in cui aderiscono alla moneta unica oppure possono essere vincolate, […] solo dalle disposizioni dei titoli III e IV del presente trattato dalle quali dichiarino, al momento del deposito del loro strumento di ratifica o a una data successiva, di voler essere vincolate”. Ad oggi hanno scelto di aderire al Titolo III (quello che disciplina il Fiscal Compact) la Danimarca, la Romania e la Bulgaria. E’ vero che gli altri Paesi non euro firmatari hanno scelto di non sottoporsi al Fiscal Compact (si veda la lista di Paesi con ‘osservazioni’ qui), ma è impreciso, pur senza essere drammaticamente scorretto, dire che il contratto fiscale leghi i soli Paesi dell’eurogruppo.



Decisamente più grave il secondo errore dell’ex Cavaliere: egli sostiene che i Paesi devono rientrare sotto il tetto del 60% entro 20 anni. In realtà il trattato parla solo di una riduzione di un ventesimo del rapporto debito/Pil (vedi articolo 4).

Poniamo un ipotetico caso di un Paese – “Debitolandia” – con un rapporto debito/Pil del 140%. Il primo anno dovrebbe effettuare un taglio del debito di 1/20 della differenza tra 140% e 60%, ovvero 1/20 di 80 = 4%. Se dovesse tagliare
il suo rapporto debito/Pil ogni anno del 4% raggiungerebbe la soglia del 60% in 20 anni. Ma siccome è proprio il rapporto a dover cambiare ogni anno, l’anno successivo la riduzione obbligata dal Fiscal Compact sarebbe 1/20 della differenza tra 136% (140-4%) e 60% = un ventesimo di 76% = 3,8%. E così via. Visto che il Fiscal Compact richiede un taglio relativo ad una differenza, se quella differenza è in calo si ridurrà anche il taglio richiesto di anno in anno. In 20 anni (come si può vedere nei nostri calcoli) il debito sarebbe ancora ben lontano dal 60%: si attesterebbe invece al 90%.



I nostri lettori diranno “Eh, ma questo è un caso estremo!”; vediamo quindi un sempre ipotetico Paese con i conti pubblici maggiormente sotto controllo e il debito pubblico al 70%. Questo Paese – chiamiamolo Austeritonia – avrebbe bisogno di tagli molto più ridotti per rispettare il Fiscal Compact: lo 0,5% nel primo anno (1/20 di 10%), 0,48% nel secondo anno e così via. Siccome i tagli richiesti sarebbero così piccoli, anche ad Austeritonia, dopo 20 anni, il Fiscal Compact da solo non avrà obbligato ad un rientro sotto la soglia del 60%. Come si può vedere nel link sopra, infatti, dopo 20 anni un Paese che parte da un rapporto debito/Pil del 70% può rispettare il Fiscal Compact ed essere ancora sopra alla soglia del 60% (63,8% per la precisione).



Berlusconi è impreciso sui Paesi che dovranno rispettare il Fiscal Compact e fuorviante rispetto ai limiti che pone. Non vi è, difatti, un orizzonte massimo di 20 anni per rientrare nel limite del 60%: “Nì”