Critica non troppo velata da parte di Angelino Alfano nei confronti della riforma Fornero, approvata nel 2012 dal governo Monti. Secondo il ministro degli Interni, infatti, la riforma avrebbe avuto un effetto negativo sull’occupazione nel suo complesso e, in particolare, sull’aumento del numero dei contratti a tempo determinato. Un’affermazione complessa, che merita un’analisi attenta e tutt’altro che facile.
Innanzittutto, è vero che la disoccupazione nel corso degli ultimi anni è aumentata, come mostra il grafico qui di seguito: siamo infatti passati da un tasso di disoccupazione del 9,5% a gennaio 2012 ad un tasso del 12,7% a fine 2013 (fonte: Tasso di disoccupazione mensile, Popolazione totale, Eurostat).
E’ tuttavia difficile imputare interamente alla riforma il catastrofico andamento occupazionale quando, a livello Paese, la situazione economica complessiva continua a registrare un tasso di crescita che, benché in ripresa, è ancora negativo.
Inoltre è piuttosto opinabile la possibilità di valutare gli effetti di una riforma a così breve distanza dalla sua introduzione, in quanto sono poche le informazioni a disposizione. Tra queste, lo studio del 30 luglio 2013 dell’Isfol (Istituto per lo Sviluppo della Formazione Professionale dei Lavoratori) che considera i dati forniti dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali attravero il sistema Col (Comunicazioni Obbligatorie OnLine), e tenta così di quantificare la situazione contrattuale pre- e post-riforma Fornero.
Dal punto di vista dei dati assoluti (quelli che pare citare Alfano), è vero che si assiste ad una diminuzione dei contratti a tempo determinato, ma non si può dire che siano “franati”, soprattutto in rapporto al livello di inizio 2012. Viceversa, sono sensibilmente diminuiti i nuovi contratti a tempo indeterminato, un andamento in linea con il tasso di disoccupazione crescente e le cui cause sono, per l’appunto, difficilmente discernibili da quelle legate all’andamento economico nazionale.
Più interessante è andare ad osservare l’incidenza delle singole tipologie contrattuali sul totale nuovi contratti (i dati sono riportati nella tabella che segue e sono tratti dallo stesso studio Isfol).
In questo modo è possibile mettere in luce come, a partire dal secondo semestre 2012, sia identificabile un’inversione di tendenza nel mix contrattuale. Diminuiscono, infatti, i contratti di collaborazione e quelli ad intermittenza, a favore di un aumento dei contratti di tipo determinato. La riforma – sostiene Isfol – avrebbe promosso il passaggio da una flessibilità “cattiva”, perché legata ad una minore protezione del lavoratore, ad una flessibilità “buona”, perché capace di tutelare il lavoratore pur rispondendo alle esigenze delle imprese. Questa lettura appare in linea con un’interpretazione estensiva degli obiettivi della riforma espressi all’articolo 1 della legge 92 del 2012, anche alla luce del perdurare del contesto economico negativo (che non ha favorito l’implementazione della legge) e della sua recente introduzione.
Per riassumere: Alfano ha ragione quando afferma che la disoccupazione è aumentata, mentre riporta in maniera meno precisa l’andamento dei contratti. Quelli a tempo determinato sono effettivamente aumentati dopo la riforma Fornero (dal II trimestre 2012 in poi), mentre hanno continuato a diminuire quelli a tempo indeterminato, in linea con il complessivo andamento economico. Appare, inoltre, un po’ forzato il rapporto tra occupazione e riforma Fornero, i cui effetti non erano diretti ad aumentare l’impiego ma a migliorare le forme di assunzione, come dimostrato dai cambiamenti registrati nel mix contrattuale.
Pronta ad accogliere eventuali commenti da parte dei lettori, Pagella Politica assegna un “Nì” ad Alfano.