Il 27 settembre, ospite a Zapping su Rai Radio 1, la sottosegretaria al Ministero del Lavoro Rossella Accoto (Movimento 5 stelle) ha difeso (min. 58:13) l’introduzione del salario minimo in Italia, dicendo che è una «norma richiesta dall’Europa». Con l’espressione “salario minimo” si fa riferimento alla soglia di retribuzione sotto la quale un datore di lavoro non può andare per legge.

Negli ultimi giorni il tema è tornato di attualità nel dibattito politico italiano, rilanciato dal segretario del Partito democratico Enrico Letta e dal leader del M5s Giuseppe Conte. Dall’inizio della legislatura diversi partiti, tra cui il il Pd e il M5s, hanno presentato in Parlamento proposte di legge per introdurre un salario minimo in Italia, al momento senza risultati.

È vero, come dice Accoto, che il salario minimo introdotto per legge “ce lo chiede” l’Europa? Abbiamo verificato e le cose non stanno proprio così. Il Parlamento Ue sta esaminando una direttiva proposta dalla Commissione per migliorare i salari minimi negli Stati membri, lasciando però una certa libertà di azione ai singoli Paesi.

I salari minimi in Europa

Secondo i dati Eurostat più aggiornati, ad oggi sei Stati membri su 27 nell’Unione europea non hanno un salario minimo fissato per legge. Tra questi, oltre all’Italia, ci sono Danimarca, Cipro, Austria, Finlandia e Svezia. Negli altri Paesi le norme sono piuttosto variegate, così come i livelli minimi salariali stabiliti per legge: la Bulgaria ha il salario minimo mensile più basso (332 euro), mentre il Lussemburgo il più alto (2.202 euro).

Come abbiamo spiegato in passato, sebbene in Italia non esista un salario minimo orario o mensile stabilito per legge, in molti casi i datori di lavoro sono comunque tenuti a non scendere sotto a una certa soglia salariale. Esistono infatti i contratti collettivi nazionali di lavoro (985 secondo le stime più aggiornate), stipulati tra i rappresentanti dei lavoratori e i datori di lavoro, che stabiliscono i minimi contrattuali salariali per i diversi settori economici.

Questi minimi possono avere anche ricadute sui compensi di tutti i lavoratori, compresi quelli che non sono direttamente coperti dai contratti. Nel 2015 la Corte Costituzionale ha infatti stabilito che i minimi dei contratti collettivi sono un «parametro esterno di commisurazione» per i livelli salariali dei lavoratori non coperti da un contratto collettivo. Ciò vuol dire che una paga oraria non in linea con quanto previsto dal contratto collettivo di settore è da considerarsi contraria alla legge. Il codice penale stabilisce (art. 603-bis) inoltre che è indice di sfruttamento del lavoro «la reiterata corresponsione di retribuzioni in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale».

Il sistema italiano ha comunque diversi limiti. I datori di lavoro possono utilizzare diverse scappatoie per aggirare le norme sui minimi salariali, per esempio sottoscrivendo i cosiddetti “contratti pirata”, ossia con sindacati poco rappresentativi per fissare salari più bassi. Inoltre, pur avendo formalmente diritto a un certo minimo salariale, i lavoratori sottopagati sono costretti a fare ricorso a un giudice del lavoro per vederselo riconosciuto. Un’azione che spesso rischia di esporre il lavoratore a ripercussioni negative sul posto di lavoro presente e su quelli futuri.

Per far fronte a questa situazione, davvero l’Unione europea ha chiesto di introdurre un salario minimo? In breve: no, anche se è vero che da almeno quattro anni l’Ue si sta impegnando a rendere più adeguati i salari minimi nei vari Stati membri.

Che cosa ha chiesto l’Ue

Nel 2017 il Parlamento europeo, il Consiglio dell’Ue e la Commissione hanno presentato i 20 principi del pilastro europeo dei diritti sociali, per «un’Europa sociale forte, che sia equa, inclusiva e ricca di opportunità».

Il principio numero 6 è dedicato ai salari e sancisce che nell’Ue i lavoratori hanno diritto a una «retribuzione equa, che offra un tenore di vita dignitoso» e che «sono garantite retribuzioni minime adeguate». Nel testo si legge anche che «le retribuzioni sono fissate in maniera trasparente e prevedibile, conformemente alle prassi nazionali e nel rispetto dell’autonomia delle parti sociali». Una prima indicazione sulla volontà dell’Ue di intervenire sul tema, senza condizionare però troppo le dinamiche dei singoli Stati.

A luglio 2019 la neo-eletta presidente dell’Ue Ursula von der Leyen aveva dichiarato che nel suo mandato si sarebbe battuta per garantire un salario minimo «in tutti i Paesi dell’Ue».

Per trasformare in concreto questo principio, a ottobre 2020 la Commissione Ue ha presentato al Parlamento Ue e al Consiglio dell’Ue una proposta di direttiva sul salario minimo. Una direttiva è un atto legislativo con cui si stabilisce un obiettivo che tutti gli Stati membri dell’Ue devono realizzare attraverso disposizioni nazionali entro un termine prestabilito. In questo caso si propone due anni dall’adozione della direttiva.

Il documento presentato dalla Commissione istituisce (art. 1) un quadro di riferimento nell’Ue per la «determinazione di livelli adeguati di salari minimi» e «l’accesso dei lavoratori alla tutela garantita dal salario minimo, sotto forma di salari determinati da contratti collettivi o di un salario minimo legale, laddove esistente». Il riferimento ai contratti collettivi lascia intendere che non sia obbligatorio per tutti i Paesi, tra cui l’Italia, l’introduzione di un salario minimo per legge. A chiarire questo punto è la stessa direttiva: «Nessuna disposizione della presente direttiva può essere interpretata in modo tale da imporre agli Stati membri nei quali la determinazione dei salari sia garantita esclusivamente mediante contratti collettivi l’obbligo di introdurre un salario minimo legale o di rendere i contratti collettivi universalmente applicabili», si legge infatti al comma 3 dell’articolo 1.

Tra le altre cose, il testo non determina una soglia precisa per i vari salari minimi, anche se nei considerando si fa riferimento a indicatori come il 60 per cento del salario lordo mediano e il 50 per cento di quello lordo medio per valutare l’adeguatezza della paga minima. La direttiva chiede poi ai Paesi che hanno un salario minimo legale di determinarlo tenendo in considerazione il potere d’acquisto, il livello generale dei salari lordi e la loro distribuzione. In più, ai Paesi in cui la copertura della contrattazione collettiva è inferiore al 70 per cento dei lavoratori (in Italia siamo intorno all’80 per cento) si chiede di prevedere un quadro per la contrattazione collettiva e di istituire un piano d’azione per promuoverla.

Nella relazione che accompagna la direttiva, la Commissione sottolinea ancora una volta che «la tutela garantita dal salario minimo può essere fornita mediante contratti collettivi, come accade in sei Stati membri, o mediante salari minimi legali stabiliti per legge, come accade in 21 Stati membri».

Questa caratteristica della direttiva è stata evidenziata anche a gennaio 2021 dalla Commissione Politiche sull’Ue del Senato, in una risoluzione sul testo presentato dalla Commissione Ue. «La proposta non interferisce con la tradizione e le specificità di ciascun Paese, lasciando intatta la potestà del legislatore nazionale di scegliere se demandare la determinazione del salario minimo a norme di legge o alla contrattazione collettiva, pur nel rispetto comune di garantire un livello del salario minimo non inferiore ad indicatori adottati a livello internazionale, quali il 60 per cento del salario lordo mediano o il 50 per cento del salario lordo medio», si legge nella risoluzione.

Al momento la direttiva è all’esame del Parlamento europeo, che dovrebbe votare il testo entro ottobre.

Il verdetto

Secondo la sottosegretaria al Lavoro Rossella Accoto (M5s), il salario minimo orario – assente in Italia, così come in altri cinque Paesi dell’Ue – è «una norma richiesta dall’Europa». Abbiamo verificato e le cose non stanno proprio così.

È vero che il Parlamento Ue sta analizzando una proposta della Commissione Ue, che ha l’obiettivo di garantire retribuzioni minime adeguate a tutti i lavoratori dell’Unione europea. Ma questo traguardo non necessariamente va raggiunto con l’introduzione di un salario minimo per legge. La Commissione ha infatti in più punti chiarito che i salari minimi adeguati possono essere raggiunti anche con la contrattazione collettiva, cosa che teoricamente potrebbe avvenire anche con gli strumenti oggi esistenti nel nostro Paese.

In conclusione, Accoto si merita un “Nì”.