In un post pubblicato sulla propria pagina Facebook Luigi Di Maio ha affermato che il salario minimo orario è una misura non presente in Italia ma molto diffusa in Europa. Secondo il leader del M5s, inoltre, i governi di «sinistra» non hanno mai inserito nella propria agenda politica questa misura.
Ma davvero siamo tra i pochi Paesi dell’Unione europea a non prevedere un salario minimo orario? E che cosa hanno fatto in questo ambito i governi di (centro)sinistra? Abbiamo verificato.
Il salario minimo orario in Europa
Eurofond, l’agenzia europea per il miglioramento degli standard lavorativi nell’Ue, conferma i numeri riportati da Luigi Di Maio. Secondo i dati relativi al 2019, infatti, i Paesi membri che prevedono un salario minimo orario garantito per legge sono esattamente 22. Tra questi ci sono anche la Germania e la Francia, che hanno fissato la paga minima oraria per il 2019 rispettivamente a 9,19€ e 10,03€.
In generale, nei Paesi che lo prevedono, il valore del salario minimo orario varia da un minimo di 1,62€ in Bulgaria ad un massimo di 11,97€ in Lussemburgo. Il valore deve essere naturalmente messo in relazione con il livello dei prezzi e, di conseguenza, con il costo della vita di ciascuno dei Paesi che lo adottano.
Eurofond nota poi un trend generale: tutti i 22 Paesi hanno previsto un aumento del salario minimo orario per l’anno in corso.
Tab. 1: Salario minimo orario e mensile nel 2018 e nel 2019 nei 22 Paesi Ue che adottano la misura – Fonte: Eurofond
Ci sono, però, anche Paesi senza un salario minimo stabilito per legge. In totale, all’interno dell’Ue, sono sei: l’Italia, l’Austria, Cipro e i tre Paesi scandinavi Danimarca, Finlandia e Svezia.
Pur non avendo una legge nazionale sul salario orario minimo, alcuni di questi Paesi adottano però un salario minimo settoriale. In altre parole, attraverso contratti collettivi, i sindacati e i datori di lavoro stabiliscono quale sia il minimo orario per i lavoratori di un certo settore. Questo è, per esempio, il caso della Danimarca e, come vedremo, anche quello dell’Italia.
La situazione in Italia
Se in Italia non esiste una legge nazionale che stabilisca una paga minima oraria da applicare a tutti i lavoratori, i datori di lavoro sono però comunque tenuti, in molti casi, a non scendere sotto a una certa soglia salariale.
In primo luogo, i contratti collettivi nazionali di lavoro (Ccnl) stabiliscono i minimi contrattuali salariali per ogni settore economico. Così fa ad esempio il nuovo Ccnl per il lavoro domestico, annunciato il 15 gennaio 2019.
In secondo luogo, i minimi stabiliti dai diversi Ccnl hanno ricadute sui compensi di tutti i lavoratori, compresi quelli che non sono direttamente coperti dai contratti (secondo le stime elaborate dal professor Cappellari, citato da l’Espresso nel 2015, sono circa il 13% del totale, poco più di 2 milioni di lavoratori dipendenti). La Corte Costituzionale ha infatti stabilito che i minimi dei Ccnl sono un «parametro esterno di commisurazione» per i livelli salariali dei lavoratori non coperti da un contratto collettivo. Ciò vuol dire che una paga oraria non in linea con quanto previsto dal Ccnl di settore è da considerarsi contraria alla legge.
Il codice penale (art. 603-bis) stabilisce inoltre che è indice di sfruttamento del lavoro «la reiterata corresponsione di retribuzioni in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale». Allo stesso tempo però, i datori di lavoro hanno spesso trovato scappatoie per aggirare questa norma.
Inoltre, pur avendo formalmente diritto ad un certo minimo salariale, i lavoratori sottopagati sono costretti a fare ricorso ad un giudice del lavoro per vederselo riconosciuto. Un’azione che spesso rischia di esporre il lavoratore a ripercussioni negative sul posto di lavoro presente e su quelli futuri.
Il centrosinistra e il salario minimo
Di Maio ha anche accusato «la sinistra» di aver parlato molto del salario minimo, ma di non averla mai messa «in agenda». Questa critica sembra, almeno in parte, ingenerosa: da un lato la questione non è mai stata davvero centrale e dall’altro alcune iniziative in quella direzione erano state prese.
Il Pd ha iniziato a parlare di salario minimo con Veltroni nel 2008, seppure in via sperimentale, in modo che potesse tutelare i lavoratori non coperti dai Ccnl. Nella campagna elettorale per il 2013 il tema non era stato tra i più dibattuti dell’agenda politica, ma l’allora segretario del Pd Pierluigi Bersani lo inserì, poco dopo le elezioni, tra quegli “otto punti” su cui aveva chiesto al Parlamento – e in particolare il M5s – di votargli la fiducia. Anche con Renzi al governo se ne era parlato e la proposta di un salario minimo è contenuta anche nel programma elettorale per le elezioni del 4 marzo 2018.
Vediamo le varie tappe di questo percorso.
Il programma elettorale di Veltroni per le elezioni del 2008 proponeva di sperimentare un «compenso minimo legale» per «i collaboratori economicamente dipendenti» e, se le parti sociali fossero state d’accordo, anche «per quei lavoratori dipendenti che non godono di adeguata protezione da parte della contrattazione collettiva».
Il programma di Bersani per le elezioni del 2013, invece, non includeva il salario minimo. Ma dopo la mancata vittoria alle elezioni di febbraio, a marzo 2013 Bersani propose al Parlamento “otto punti” per un “governo di cambiamento” che potesse, su questi, ottenere i voti necessari. Tra le «misure urgenti sul fronte sociale e del lavoro», era contenuto anche un «salario o compenso minimo per chi non ha copertura contrattuale».
Anche il programma di Matteo Renzi per il congresso del Pd e per le primarie del 2013 non faceva menzione del salario minimo, così come quello del 2017. Inoltre, nei discorsi programmatici con i quali hanno richiesto la fiducia alle camere, nessuno dei tre presidenti del Consiglio del Partito Democratico (Letta, Renzi e Gentiloni) ha fatto riferimento all’introduzione del salario minimo.
Tuttavia il governo Renzi aveva messo per iscritto nel 2014, col Jobs Act, una delega legislativa che andava nella direzione già immaginata da Veltroni. Nella legge delega approvata a dicembre 2014 dal Parlamento era infatti data facoltà al governo di emanare un decreto che introducesse «eventualmente anche in via sperimentale, il compenso orario minimo» per i lavoratori subordinati e per i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa. Anche in questo caso tale compenso orario minimo era limitato ai «settori non regolati da contratti collettivi» (per quelli coperti da Ccnl, infatti, non ce n’è necessità).
La facoltà contenuta nella legge delega non aveva però trovato seguito nei decreti attuativi, come riportato da alcune fonti di stampa (l’Espresso e la Voce.info, ripresa anche dal Fatto Quotidiano).
Con il programma per le elezioni del 2018 il Pd ha di nuovo avanzato la proposta di un salario minimo garantito.
Dunque Di Maio ha ragione nel dire che il Pd è parla da tempo di salario minimo come soluzione per tappare i buchi lasciati dai Ccnl, ma in concreto non ha approvato alcuna legge che lo istituisse (neppure in via sperimentale, come proposto nel 2008 e nel 2014). Sembra tuttavia esagerato, visto appunto la natura sperimentale delle proposte precedenti e contemporanee agli anni di governo del Pd, sostenere che il Partito democratico si sia «riempito la bocca per anni» con quella proposta.
Il verdetto
Luigi Di Maio ha dichiarato che 22 Paesi (tra cui Germania e Francia) su 28 dell’Ue prevedono il salario minimo orario e che la «sinistra», sul punto, ha parlato molto ma fatto poco.
Il leader del M5s ha ragione quando afferma che Germania, Francia e altri Paesi Ue (in totale proprio 22) prevedono il salario minimo orario. La sua accusa alla «sinistra», se riferita al Partito Democratico, è in sostanza fondata ma sembra eccessiva nei toni, considerato, che fino al 2018, i democratici hanno inserito la misura diverse volte nei loro programmi, senza però farne davvero una battaglia centrale. Luigi Di Maio si merita quindi un “C’eri quasi”.