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Davvero il governo usa dati vecchi per chiudere le regioni?

| 05 novembre 2020
La dichiarazione
«Conte ha deciso di chiudere la Lombardia con i dati della settimana scorsa, che equivalgono alla situazione epidemiologica di due settimane fa»
Fonte: Facebook | 4 novembre 2020
Ansa
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Verdetto sintetico
C'eri quasi
In breve
  • Secondo Fontana e altri leghisti, il governo ha deciso di mettere la Lombardia in “area rossa” sulla base di dati vecchi, relativi alla «scorsa settimana». TWEET
  • Le misure del nuovo Dpcm poggiano in particolare su un documento approvato lo scorso 12 ottobre e sul monitoraggio di 21 indicatori, stabiliti dal Ministero della Salute a fine aprile scorso. TWEET
  • È vero che i dati più aggiornati del monitoraggio fanno riferimento alla settimana fino al 25 ottobre scorso, ma molto difficilmente si sarebbe potuto fare diversamente. I dati raccolti, sia per come funziona l’epidemia sia per i ritardi delle regioni, hanno bisogno di essere consolidati. E pure i numeri pubblicati ogni giorno, meno approfonditi di quelli elaborati dagli esperti, sono comunque una fotografia di quanto avvenuto giorni fa. TWEET
Il 4 novembre il presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana (Lega) ha criticato su Facebook le disposizioni contenute nel nuovo Dpcm, firmato il giorno prima dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte.

Tra le altre cose, il nuovo provvedimento ha inserito la Lombardia – insieme a Piemonte, Valle d’Aosta e Calabria – nella cosiddetta “area rossa”, con l’introduzione di misure molto stringenti per contenere la diffusione del coronavirus (qui il riassunto di tutte le misure, divise per area) (Figura 1).
Figura 1. Le regioni italiane divise per aree – Fonte: Ministero della Salute
Figura 1. Le regioni italiane divise per aree – Fonte: Ministero della Salute
Secondo Fontana, il problema di questa decisione è che stata presa sulla base di «dati della settimana scorsa», che mostrano qual era la situazione epidemiologica in Lombardia di «due settimane fa». Lo stesso Fontana, in un video del 4 novembre, aveva detto che il governo usava «dati vecchi di oltre 10 giorni».

Ma è davvero così? Abbiamo verificato e in breve la risposta è sì, anche se le critiche di Fontana sono fuorvianti. Il punto centrale da capire, infatti, è che molto difficilmente si sarebbe potuto fare altrimenti, visto il modo in cui funzionano la raccolta dei dati e il monitoraggio con cui si è deciso di prendere i nuovi provvedimenti. Vediamo con ordine i dettagli.

I documenti alla base del Dpcm

Le nuove disposizioni del Dpcm del 3 novembre poggiano in particolare su due documenti: uno piuttosto recente, pubblicato lo scorso 12 ottobre; e un altro approvato a fine aprile scorso, quando il lockdown nazionale stava ormai terminando. Partiamo prima da quest’ultimo.

I 21 indicatori di monitoraggio

Il 30 aprile scorso il Ministero della Salute ha adottato i criteri relativi alle attività di monitoraggio del rischio sanitario legato all’epidemia di coronavirus nel nostro Paese. In totale gli indicatori del monitoraggio del Ministero della Salute sono 21, divisi in tre ambiti: indicatori di processo sulla capacità di monitoraggio; indicatori di processo sulla capacità di accertamento diagnostico, indagine e gestione dei contatti; indicatori di risultato relativi a stabilità di trasmissione e alla tenuta dei servizi sanitari.

Il primo ambito conta sei indicatori su vari tipi di casi notificati per mese (per esempio, sintomatici o con storia di ricovero), che in sostanza dicono come è messa una regione nella raccolta dei dati sull’epidemia. Anche nel secondo ambito ci sono sei indicatori – dedicati per lo più alla capacità delle regioni di fare un numero adeguato di test e di fare contact tracing – mentre il terzo ambito contiene nove indicatori, con i dati relativi, per esempio, all’indice di trasmissione Rt, ai nuovi focolai o al numero di posti letto occupati negli ospedali (qui sono consultabili i 21 indicatori nel dettaglio).

Tutti gli indicatori hanno un valore soglia oltre il quale scatta l’allerta, segno che la situazione si sta mettendo male. Per esempio, come abbiamo già spiegato in passato, il valore di allerta per le terapie intensive è il 30 per cento di posti occupati su quelli totali (valore ampiamente superato dalla Lombardia).

Sulla base di alcuni algoritmi, una Cabina di regia del Ministero della Salute – con dentro anche alcuni rappresentati delle regioni e dell’Iss – calcola poi per ciascuna regione un valore di rischio, che può andare da molto basso a molto alto (Figura 2).

 
Figura 2. Matrice di attribuzione del rischio in base agli algoritmi di valutazione di probabilità ed impatto – Fonte: Ministero della Salute
Figura 2. Matrice di attribuzione del rischio in base agli algoritmi di valutazione di probabilità ed impatto – Fonte: Ministero della Salute

Il rapporto “Prevenzione e risposta a Covid-19”


L’altro documento su cui poggiano le misure del nuovo Dpcm si intitola “Prevenzione e risposta a Covid-19: evoluzione della strategia e pianificazione nella fase di transizione per il periodo autunno-invernale” ed è stato realizzato, tra gli altri, dal Ministero della Salute e dall’Istituto superiore di sanità (Iss).

Il Capitolo 5 del rapporto è dedicato alle possibili «misure di contenimento e mitigazione a livello regionale» da prendere sulla base dei diversi scenari ipotetici di trasmissione del coronavirus nel periodo autunno-invernale.

Gli scenari individuati dal rapporto sono quattro e per ognuno sono stati pensati diversi provvedimenti «in base al verosimile livello di rischio che potrebbe essere identificato» nei monitoraggi settimanali, che si basano sui 21 indicatori visti in precedenza.

Il Dpcm del 3 novembre, per le misure dell’area rossa, fa riferimento alle Regioni «che si collocano in uno “scenario di tipo 4” e con un livello di rischio “alto”». Questo scenario è quello dove si registra una situazione di trasmissibilità non controllata (con un indice Rt sistematicamente maggiore di 1,5), con criticità nella tenuta del sistema sanitario nel breve periodo.

In base al documento “Prevenzione e risposta a Covid-19”, nelle regioni in questo scenario e a livello di rischio “alto” è consigliata, tra le altre cose, l’introduzione di zone rosse con restrizioni temporanee di almeno due settimane, la riduzione della didattica in presenza e la chiusura di alcune attività produttive. Misure in linea con quanto previsto dal nuovo Dpcm, per esempio per la Lombardia.

Dopo aver ricostruito l’articolato sistema di valutazione usato dal governo e dalle autorità, arriviamo dunque alla questione centrale: è vero, come ha detto Fontana, che l’introduzione della Lombardia è basata su dati vecchi e non aggiornati, relativi alla settimana scorsa?

Di quando sono i dati

L’ultimo monitoraggio settimanale pubblicato dal Ministero della Salute è uscito il 30 ottobre, quindi cinque giorni prima della firma del Dpcm del 3 novembre, ma contiene i dati relativi alla settimana dal 19 al 25 ottobre (è dunque precedente alle misure restrittive introdotte dal Dpcm dello scorso 24 ottobre).

In breve: le scelte prese dal governo sembrano in effetti basarsi su dati aggiornati a una decina di giorni precedenti all’approvazione dell’ultimo Dpcm. Inoltre questi numeri – come abbiamo spiegato nel dettaglio in passato – sono una fotografia ritardata della situazione epidemiologica nel Paese.

I dati di “oggi” non sono davvero di “oggi”

Lo dimostra bene un esempio concreto. Dalla data di contagio alla comparsa dei sintomi della Covid-19 passano in media circa cinque giorni; e dalla data di comparsa dei sintomi a quella del tampone oltre tre giorni. A questo va aggiunto che, a seconda delle regioni, ci sono poi ritardi nella comunicazione dei nuovi casi, che dunque non corrispondono mai davvero a quelli realmente “giornalieri”.

«Per i tempi che intercorrono tra l’esposizione al patogeno e lo sviluppo di sintomi e tra questi e la diagnosi e successiva notifica, verosimilmente molti dei casi notificati in questa settimana hanno contratto l’infezione all’inizio di ottobre», spiega il monitoraggio del Ministero della Salute.

In primo luogo, dunque, in base a come funziona l’epidemia e la raccolta dei numeri, è già di per sé evidente che è di fatto impossibile avere dati aggiornatissimi sull’attuale stato dell’epidemia in Italia. E anche avendo tutti i numeri a disposizione, come ha spiegato il decreto del Ministero della Salute di fine aprile 2020, è necessario comunque del tempo per accertare «la qualità del dato».

Questo lungo procedimento lo ha riassunto il 5 novembre, in una conferenza stampa, anche il presidente dell’Iss Silvio Brusaferro, che ha sottolineato i vari passaggi necessari per validare le statistiche raccolte. Lo stesso presidente Conte, in una conferenza stampa del 4 novembre, ha parlato (min. 32:35) della necessità di attendere un consolidamento dei dati, per prendere decisioni.

In secondo luogo, nelle ultime settimane le cose si sono fatte ancora più complicate, come ha evidenziato il Ministero nel monitoraggio del 19-25 ottobre. «Si osserva una sempre maggiore difficoltà a reperire dati completi a causa del grave sovraccarico dei servizi territoriali, questo potrebbe portare a sottostimare la velocità di trasmissione in particolare in alcune Regioni», si legge sul sito del dicastero.

Questo è un problema grave, perché «può portare ad una sottostima della velocità di trasmissione e del rischio».

Il calcolo dell’indice Rt

Un discorso a parte merita poi l’indice Rt, di cui si sente tanto parlare e che stima quanti nuovi contagi vengono generati da chi è già stato contagiato. L’ultimo monitoraggio del Ministero della Salute contiene le stime più aggiornate dell’indice Rt, calcolato sui casi sintomatici, valide nel periodo 8-21 ottobre. Senza entrare nei dettagli, questo scostamento temporale è dovuto alla complessa metodologia con cui viene calcolato questo indice, che è uno degli indicatori più importanti per capire come si sta sviluppando l’epidemia (a cui, ricordiamo, si aggiungono gli altri 20).

La decisione di mettere la Lombardia in area rossa si spiega anche con l’elevato indice Rt della regione, superiore a 2, il secondo dato più alto a livello nazionale, dietro soltanto al Piemonte.

Tiriamo le somme

Ricapitolando: è vero che le decisioni prese dal governo sono basate su dati che a prima vista non sembrano aggiornati, ma a livello metodologico e pratico sarebbe molto difficile – se non impossibile – fare altrimenti. Anche se si utilizzassero i dati più recenti su andamento contagi giornalieri o ricoveri (per esempio contenuti nel bollettino della Protezione civile), da un lato si avrebbe un quadro meno dettagliato di quello ottenuto con i 21 indicatori; dall’altro lato si avrebbero comunque dati che fotografano una situazione relativa a diversi giorni fa: il ritardo ci sarebbe comunque.

In parole semplici, nella gestione dell’epidemia, si è sempre dietro alla reale diffusione del virus e i tentativi di contenimento – legittimamente criticabili, per esempio, dall’opposizione o dai singoli presidenti di regione – possono essere messi in campo solo sulla base dei dati a disposizione e delle previsioni di peggioramento.

Ricordiamo comunque che in base al Dpcm del 3 novembre, ogni settimana il Ministero della Salute valuta se ci sono i presupposti di lasciare una specifica regione in una delle tre aree sulla base delle nuove evidenze raccolte.

Il verdetto

Secondo Attilio Fontana, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte «ha deciso di chiudere la Lombardia con i dati della settimana scorsa, che equivalgono alla situazione epidemiologica di due settimane fa».

Abbiamo verificato e sì, è vero che la decisione del governo di mettere la Lombardia in “area rossa” si basa su statistiche aggiornate al 25 ottobre, ma è fuorviante lasciare intendere che si sarebbe potuto fare altrimenti.

Il nuovo Dpcm si basa infatti su una lunga serie di indicatori, che stanno alla base della valutazione del rischio per le singole regioni e che informano le misure da intraprendere per rallentare la diffusione del virus.

La raccolta, il consolidamento e la validazione dei dati, però, richiede tempo, e anche il modo in cui sono costruiti alcuni indici – come l’Rt – permette di fare una fotografia solo ritardata dell’andamento dell’epidemia.

A questo vanno aggiunti tutti i ritardi e le lacune di raccolta delle singole regioni, che nelle ultime settimane hanno sempre più problemi, rendendo meno efficace il sistema di monitoraggio. In conclusione, Fontana si merita un “C’eri quasi”.

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