Il rapporto “Prevenzione e risposta a Covid-19”
L’altro documento su cui poggiano le misure del nuovo Dpcm si intitola “Prevenzione e risposta a Covid-19: evoluzione della strategia e pianificazione nella fase di transizione per il periodo autunno-invernale” ed
è stato realizzato, tra gli altri, dal Ministero della Salute e dall’Istituto superiore di sanità (Iss).
Il Capitolo 5 del rapporto
è dedicato alle possibili «misure di contenimento e mitigazione a livello regionale» da prendere sulla base dei diversi scenari ipotetici di trasmissione del coronavirus nel periodo autunno-invernale.
Gli scenari individuati dal rapporto sono quattro e per ognuno sono stati pensati diversi provvedimenti «in base al verosimile livello di rischio che potrebbe essere identificato» nei monitoraggi settimanali, che si basano sui 21 indicatori visti in precedenza.
Il Dpcm del 3 novembre, per le misure dell’area rossa,
fa riferimento alle Regioni «che si collocano in uno “scenario di tipo 4” e con un livello di rischio “alto”». Questo scenario
è quello dove si registra una situazione di trasmissibilità non controllata (con un indice Rt sistematicamente maggiore di 1,5), con criticità nella tenuta del sistema sanitario nel breve periodo.
In base al documento “Prevenzione e risposta a Covid-19”, nelle regioni in questo scenario e a livello di rischio “alto”
è consigliata, tra le altre cose, l’introduzione di zone rosse con restrizioni temporanee di almeno due settimane, la riduzione della didattica in presenza e la chiusura di alcune attività produttive. Misure in linea con quanto
previsto dal nuovo Dpcm, per esempio per la Lombardia.
Dopo aver ricostruito l’articolato sistema di valutazione usato dal governo e dalle autorità, arriviamo dunque alla questione centrale: è vero, come ha detto Fontana, che l’introduzione della Lombardia è basata su dati vecchi e non aggiornati, relativi alla settimana scorsa?
Di quando sono i dati
L’ultimo monitoraggio settimanale pubblicato dal Ministero della Salute
è uscito il 30 ottobre, quindi cinque giorni prima della firma del Dpcm del 3 novembre, ma contiene i dati relativi alla settimana dal 19 al 25 ottobre (è dunque precedente alle misure restrittive
introdotte dal Dpcm dello scorso 24 ottobre).
In breve: le scelte prese dal governo sembrano in effetti basarsi su dati aggiornati a una decina di giorni precedenti all’approvazione dell’ultimo Dpcm. Inoltre questi numeri – come
abbiamo spiegato nel dettaglio in passato – sono una fotografia ritardata della situazione epidemiologica nel Paese.
I dati di “oggi” non sono davvero di “oggi”
Lo dimostra bene un
esempio concreto. Dalla data di contagio alla comparsa dei sintomi della Covid-19 passano in media circa cinque giorni; e dalla data di comparsa dei sintomi a quella del tampone oltre tre giorni. A questo va aggiunto che, a seconda delle regioni, ci sono poi ritardi nella comunicazione dei nuovi casi, che dunque non corrispondono mai davvero a quelli realmente “giornalieri”.
«Per i tempi che intercorrono tra l’esposizione al patogeno e lo sviluppo di sintomi e tra questi e la diagnosi e successiva notifica, verosimilmente molti dei casi notificati in questa settimana hanno contratto l’infezione all’inizio di ottobre»,
spiega il monitoraggio del Ministero della Salute.
In primo luogo, dunque, in base a come funziona l’epidemia e la raccolta dei numeri, è già di per sé evidente che è di fatto impossibile avere dati aggiornatissimi sull’attuale stato dell’epidemia in Italia. E anche avendo tutti i numeri a disposizione, come
ha spiegato il decreto del Ministero della Salute di fine aprile 2020, è necessario comunque del tempo per accertare «la qualità del dato».
Questo lungo procedimento
lo ha riassunto il 5 novembre, in una conferenza stampa, anche il presidente dell’Iss
Silvio Brusaferro, che ha sottolineato i vari passaggi necessari per validare le statistiche raccolte. Lo stesso presidente Conte, in una conferenza stampa del 4 novembre,
ha parlato (min. 32:35) della necessità di attendere un consolidamento dei dati, per prendere decisioni.
In secondo luogo, nelle ultime settimane le cose si sono fatte ancora più complicate, come
ha evidenziato il Ministero nel monitoraggio del 19-25 ottobre. «Si osserva una sempre maggiore difficoltà a reperire dati completi a causa del grave sovraccarico dei servizi territoriali, questo potrebbe portare a sottostimare la velocità di trasmissione in particolare in alcune Regioni»,
si legge sul sito del dicastero.
Questo è un problema grave, perché «può portare ad una sottostima della velocità di trasmissione e del rischio».
Il calcolo dell’indice Rt
Un discorso a parte merita poi l’indice Rt, di cui si sente tanto parlare e che
stima quanti nuovi contagi vengono generati da chi è già stato contagiato. L’ultimo monitoraggio del Ministero della Salute
contiene le stime più aggiornate dell’indice Rt, calcolato sui casi sintomatici, valide nel periodo 8-21 ottobre. Senza entrare nei dettagli, questo scostamento temporale
è dovuto alla complessa metodologia con cui viene calcolato questo indice, che è uno degli indicatori più importanti per capire come si sta sviluppando l’epidemia (a cui, ricordiamo, si aggiungono gli altri 20).
La decisione di mettere la Lombardia in area rossa
si spiega anche con l’elevato indice Rt della regione, superiore a 2, il secondo dato più alto a livello nazionale, dietro soltanto al Piemonte.
Tiriamo le somme
Ricapitolando: è vero che le decisioni prese dal governo sono basate su dati che a prima vista non sembrano aggiornati, ma a livello metodologico e pratico sarebbe molto difficile – se non impossibile – fare altrimenti. Anche se si utilizzassero i dati più recenti su andamento contagi giornalieri o ricoveri (per esempio
contenuti nel bollettino della Protezione civile), da un lato si avrebbe un quadro meno dettagliato di quello ottenuto con i 21 indicatori; dall’altro lato
si avrebbero comunque dati che fotografano una situazione relativa a diversi giorni fa: il ritardo ci sarebbe comunque.
In parole semplici, nella gestione dell’epidemia, si è sempre dietro alla reale diffusione del virus e i tentativi di contenimento – legittimamente criticabili, per esempio, dall’opposizione o dai singoli presidenti di regione – possono essere messi in campo solo sulla base dei dati a disposizione e delle previsioni di peggioramento.
Ricordiamo comunque che in base al Dpcm del 3 novembre, ogni settimana il Ministero della Salute
valuta se ci sono i presupposti di lasciare una specifica regione in una delle tre aree sulla base delle nuove evidenze raccolte.
Il verdetto
Secondo Attilio Fontana, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte «ha deciso di chiudere la Lombardia con i dati della settimana scorsa, che equivalgono alla situazione epidemiologica di due settimane fa».
Abbiamo verificato e sì, è vero che la decisione del governo di mettere la Lombardia in “area rossa” si basa su statistiche aggiornate al 25 ottobre, ma è fuorviante lasciare intendere che si sarebbe potuto fare altrimenti.
Il nuovo Dpcm si basa infatti su una lunga serie di indicatori, che stanno alla base della valutazione del rischio per le singole regioni e che informano le misure da intraprendere per rallentare la diffusione del virus.
La raccolta, il consolidamento e la validazione dei dati, però, richiede tempo, e anche il modo in cui sono costruiti alcuni indici – come l’Rt – permette di fare una fotografia solo ritardata dell’andamento dell’epidemia.
A questo vanno aggiunti tutti i ritardi e le lacune di raccolta delle singole regioni, che nelle ultime settimane hanno sempre più problemi, rendendo meno efficace il sistema di monitoraggio. In conclusione, Fontana si merita un “C’eri quasi”.