Il 21 luglio il leader di Azione Carlo Calenda ha pubblicato un video su Twitter in cui ha commentato l’accordo raggiunto lo stesso giorno al Consiglio europeo sulla creazione del cosiddetto Recovery fund (o Next generation Eu), un fondo da 750 miliardi di euro pensato per contrastare la crisi economica causata dal coronavirus in Europa.

Secondo Calenda, i soldi che andranno all’Italia – circa 209 miliardi di euro, secondo alcune stime che circolano nelle ultime ore – hanno più condizioni (min. 0:57) rispetto a quelli che il nostro Paese potrebbe ottenere attraverso il Meccanismo europeo di stabilità (Mes).

È davvero così? Abbiamo verificato e Calenda ha ragione.

Di che cosa stiamo parlando

Il Mes e il Next generation Eu sono molto diversi tra loro, anche (ma non solo) per quanto riguarda le risorse disponibili. Vediamo brevemente quali sono le differenze, prima di approfondire la questione delle condizioni.

Pandemic crisis support

Nato nel 2012 per affrontare la crisi economica dei debiti sovrani, il Mes è un fondo permanente di cui fanno parte i 19 Paesi membri dell’area euro. Attraverso le risorse messe a disposizione dagli Stati che vi partecipano, emettendo obbligazioni il Mes raccoglie soldi sui mercati, che poi può distribuire ai Paesi in crisi attraverso una serie di strumenti.

Il 15 maggio scorso è diventato operativo il Pandemic crisis support, una nuova linea di aiuti del Mes pensata per finanziare le spese sanitarie legate all’emergenza Covid-19 degli Stati che ne facciano richiesta. Per ogni singolo Paese, i prestiti – che hanno tassi di interesse molto vantaggiosi, soprattutto per chi ha costi elevati nel finanziarsi sui mercati – possono arrivare al massimo al 2 per cento del suo Pil del 2019. Per l’Italia stiamo dunque parlando di una cifra intorno ai 37 miliardi di euro.

Next generation Eu

Il Next generation Eu (o Recovery fund, come è conosciuto in Italia) è un fondo per la ripresa, sulla cui struttura e risorse si sono accordati il 21 luglio i 27 Stati membri, dopo una lunga trattativa all’interno del Consiglio europeo.

Grazie alle garanzie del nuovo bilancio pluriennale, valido per il periodo tra il 2021 e il 2027, la Commissione Ue sarà in grado di raccogliere sui mercati risorse economiche fino a 750 miliardi di euro. Questi saranno poi distribuiti ai 27 Stati membri Ue, in base a determinati criteri (legati, per esempio, al calo del Pil o all’aumento della disoccupazione) e in due formati: da un lato, 360 miliardi di prestiti; dall’altro lato, 390 miliardi di sussidi potenzialmente a fondo perduto, ossia da non restituire.

Secondo le stime diffuse dal governo italiano, e confermate dalla stampa italiana ed estera, l’Italia sarà il Paese che beneficierà di più del Next generation Eu, con risorse complessive di quasi 209 miliardi di euro: poco meno di 82 miliardi di sussidi a fondo perduto e poco più di 127 miliardi di prestiti.

Rispetto alla proposta sul Next generation Eu avanzata dalla Commissione Ue a fine maggio scorso, con l’intesa nel Consiglio europeo l’Italia potrà ricevere circa 37 miliardi di euro in più, sotto forma di prestiti. Una cifra che, peraltro, coincide con quanto potrebbe ottenere anche dal Mes.

A differenza del Pandemic crisis support, il Next generation Eu non è ancora diventato operativo: essendo legato al nuovo bilancio pluriennale comunitario, ora serve l’approvazione di quest’ultimo da parte del Parlamento europeo e la sua approvazione dai singoli parlamenti nazionali (dove richiesto, come ha specificato la Commissione in una timeline sul suo sito ufficiale).

Inoltre, i soldi del Next generation Eu non sono vincolati a spese in ambito sanitario come quelle del Pandemic crisis support, ma come vedremo meglio tra poco non possono essere spese dai singoli Stati “a proprio piacere”, ma rispettando alcune condizioni.

Condizioni sì, condizioni no

Ma è vero, come dice Calenda, che i soldi del Next generation Eu «sono molto più condizionati» rispetto a quelli del Pandemic crisis support? Procediamo con ordine.

Le condizioni del Pandemic crisis support

Come abbiamo già spiegato in passato, una differenza sostanziale tra il Pandemic crisis support e gli altri tipi di aiuti che può fare il Mes riguarda l’assenza di condizioni stringenti per accedere ai soldi.

In passato, Paesi che hanno chiesto aiuto al Mes – in particolare la Grecia – si sono visti imporre vasti programmi di riforme (per esempio, nel welfare) per ottenere i prestiti dal Meccanismo europeo di stabilità.

Al momento, questo discorso non vale invece per il Pandemic crisis support, come confermato dall’Eurogruppo (un organo informale che riunisce i ministri dell’Economia degli Stati dell’area euro), dal commissario europeo agli Affari economici Paolo Gentiloni e dal vicepresidente della Commissione Ue Valdis Dombrovskis, e anche dal Mes stesso.

L’unica condizione imposta dal Pandemic crisis support è che i soldi ricevuti da un Paese vengano utilizzati per spese sanitarie dirette e indirette legate all’emergenza Covid-19.

Una volta che uno Stato decide di chiedere aiuto al Pandemic crisis support del Mes manda una lettera al presidente del Consiglio dei governatori del fondo (che attualmente è il presidente dell’Eurogruppo Pascal Donohoe), che deve approvare il prestito all’unanimità.

La Commissione Ue si limiterà poi a monitorare se il Paese che ha ricevuto i soldi li stia spendendo correttamente, o meno, in linea con quanto comunicato nel suo Response plan per ricevere il prestito.

È necessaria però un’osservazione. Come abbiamo spiegato in passato, è vero che ci sono state diverse rassicurazioni istituzionali sull’assenza di condizioni più rigide nel Pandemic crisis support, ma questi atti hanno un valore più politico che giuridico. Possiamo dunque dire che per avere una maggiore certezza sull’assenza di ulteriori condizioni, anche nel futuro, sarebbe preferibile venissero prodotti atti normativi vincolanti in questo senso.

Le condizioni del Next generation Eu

I punti A18 e A19 delle conclusioni del Consiglio europeo del 21 luglio stabiliscono invece che cosa deve fare un Paese Ue per ottenere i prestiti e i sussidi a fondo perduto del nuovo Recovery fund.

In primo luogo, gli Stati membri devono preparare (punto A18) «piani nazionali per la ripresa e la resilienza in cui è definito il programma di riforme e investimenti dello Stato membro interessato per il periodo 2021- 2023». Nel 2022 questi piani saranno poi adattati, «per tenere conto della ripartizione definitiva dei fondi per il 2023».

In secondo luogo, questi piani nazionali vengono valutati (punto A19) dalla Commissione Ue entro due mesi dalla loro presentazione. In che cosa consiste questa valutazione?

Su questo punto specifico, le conclusioni del Consiglio europeo sono abbastanza vaghe, ma chiariscono una cosa fondamentale: «Nella valutazione il punteggio più alto deve essere ottenuto per quanto riguarda i criteri della coerenza con le raccomandazioni specifiche per Paese, nonché del rafforzamento del potenziale di crescita, della creazione di posti di lavoro e della resilienza sociale ed economica dello Stato membro».

Qui il riferimento più significativo, per quanto riguarda il dibattito sulle condizioni, è quello alle «raccomandazioni specifiche per Paese».

Come abbiamo spiegato di recente, ogni anno la Commissione Ue effettua – nell’ambito del cosiddetto “semestre europeo” – un’analisi dei piani che ciascun Paese deve presentare per quanto riguarda le riforme di bilancio, macroeconomiche e strutturali che intende approvare nel breve futuro. La Commissione rivolge poi ai governi dell’Ue raccomandazioni specifiche per i successivi 12-18 mesi.

Negli ultimi anni, le raccomandazioni fatte dalla Commissione Ue all’Italia sono state molto varie: sono infatti andate dalla richiesta di migliorare i tempi della giustizia e il mercato del lavoro, alla richiesta di semplificare il sistema fiscale.

Queste raccomandazioni, come sottolinea anche la Commissione Ue, «forniscono orientamenti politici specifici per ciascun paese dell’Ue sulle modalità per stimolare la crescita e l’occupazione, mantenendo in ordine i conti pubblici». Non dicono a un singolo Paese che cosa deve fare per trasformarle in concreto (da qui, l’annosa confusione sulla questione dell’Ue che ci chiede tagli alla sanità o all’istruzione) . Prova ne è che negli ultimi 10 anni – ossia da quando è stato istituito il meccanismo delle raccomandazioni – molto spesso l’Italia non ha seguito, o ha seguito solo in parte, le raccomandazioni europee, senza comunque incorrere in procedure di infrazione sui conti ed eventuali sanzioni.

Il 20 maggio 2020, la Commissione Ue ha inviato all’Italia le comunicazioni sul programma di riforme inviato dal nostro Paese. Tra le varie raccomandazioni, c’è quella di rendere più «efficace» l’amministrazione pubblica, di rendere «ben funzionante» il sistema di ricerca e innovazione, di velocizzare la giustizia civile e di investire nelle infrastrutture digitali.

Dunque, la valutazione della Commissione Ue sui piani nazionali per la ripresa è il primo scoglio da superare e le prime condizioni sono quelle contenute nelle raccomandazioni, che come abbiamo visto hanno un peso maggiore nelle considerazioni che fa la Commissione.

Successivamente, la valutazione fatta dalla Commissione deve essere approvata dal Consiglio a maggioranza qualificata, cioè con almeno il 55 per cento degli Stati, che rappresentino almeno il 65 per cento del totale della popolazione dell’Ue (i cosiddetti “Paesi frugali” non avranno quindi i numeri per bloccare il Consiglio).

«La valutazione positiva delle richieste di pagamento sarà subordinata al soddisfacente conseguimento dei pertinenti target intermedi e finali», si legge nelle conclusioni del 21 luglio.

Questo «soddisfacente conseguimento» degli obiettivi concordati dalla Commissione Ue con il singolo Stato membro viene valutato con il parere del Comitato economico finanziario, un organo tecnico dell’Ue che assiste il Consiglio europeo per le questioni economiche. Qui vi siedono i rappresentanti nazionali delle amministrazioni e delle banche centrali.

In Consiglio europeo – ma questo discorso esula dal discorso sulle condizioni – uno o più Stati possono poi ricorrere in «via eccezionale» al cosiddetto “freno d’emergenza”, se ritengono che un Paese abbia «gravi scostamenti dal soddisfacente conseguimento dei pertinenti target intermedi e finali» per spendere i soldi ricevuti dal Next generation Eu. Questo freno fa sì che la discussione venga rimandata al prossimo Consiglio Ue, bloccando l’erogazione dei fondi al Paese “incriminato”.

Non siamo di fronte però a un vero e proprio “diritto di veto”, come ha sostenuto, tra gli altri, la leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni. Il richiamo nelle conclusioni del Consiglio Ue del 21 luglio agli articoli 17 del Tue e 317 del Tfue (che regolano competenze e funzionamento della Commissione Ue) dovrebbe infatti garantire in caso di stallo – per esempio, se la discussione nel successivo Consiglio europeo non dovesse sfociare in una votazione a maggioranza qualificata – la prevalenza del parere della Commissione.

La questione del Programma nazionale di riforma

Il 9 luglio scorso, il governo ha pubblicato il Programma nazionale di riforma (Pnr), che è uno dei documenti che ogni anno gli Stati membri devono presentare alla Commissione Ue per ricevere le annuali raccomandazioni.

Il Pnr di quest’anno è più importante del solito perché, come spiega lo stesso governo, traccia «le linee essenziali» del piano da presentare alla Commissione per accedere al Next generation Eu.

Negli scorsi giorni, è nata una polemica sul fatto che, rispetto agli altri Paesi Ue, l’Italia è in ritardo con la presentazione del suo Pnr alla Commissione Ue: manca infatti il passaggio nel Parlamento italiano, prima di formalizzare l’invio.

Come abbiamo visto, però, nell’immediato questo non pregiudica l’accesso ai fondi del Next generation Eu, perché i piani nazionali da presentare alla Commissione Ue per accedere al nuovo fondo della ripresa dovranno essere consegnati entro i prossimi mesi.

Il verdetto

Secondo Carlo Calenda, i soldi che l’Italia potrebbe ottenere dal Recovery fund (o Next generation Eu) «sono molto più condizionati del Mes», o meglio, di quelli del Pandemic crisis support.

Abbiamo verificato e l’ex ministro dello Sviluppo economico ha ragione.

Per accedere alle risorse del Recovery fund, uno Stato membro deve presentare un piano in cui dice come intende utilizzare quei soldi e questo piano viene valutato dalla Commissione Ue, che nel suo giudizio tiene molto in considerazione se lo Stato in questione stia rispettando, o meno, le sue raccomandazioni annuali che le vengono fatte, per esempio, per migliorare il suo mercato del lavoro o settori come quello della giustizia. Oltre alle raccomandazioni, viene preso in considerazione anche l’impatto delle riforme, per esempio, su crescita e occupazione.

Per accedere al Pandemic crisis support, invece, l’unica condizione da rispettare – in base a quanto sostenuto dai massimi vertici politici dell’Ue e delle istituzioni europee coinvolte, ma non ad atti giuridici vincolanti – è che i soldi siano utilizzati per spese sanitarie dirette e indirette legate all’emergenza coronavirus. Il ruolo della Commissione Ue, in questo caso, è solo quello di monitorare che i soldi ricevuti da un Paese vengano effettivamente utilizzati nei settori promessi.

In conclusione, Calenda si merita un “Vero”.