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Il 21 luglio il Consiglio europeo, l’organo dell’Ue dove siedono i capi di Stato e di governo dei 27 Stati membri, ha trovato un accordo definitivo sul Recovery Fund (o più precisamente, Next Generation Eu) proposto il 27 maggio scorso dalla Commissione europea per far fronte alla crisi economica causata dall’emergenza coronavirus. La cifra complessiva delle risorse stanziate rimane di 750 miliardi di euro, ma invece di essere suddivisa in 250 miliardi di prestiti e 500 miliardi di finanziamenti potenzialmente “a fondo perduto”, ora è suddivisa in 360 miliardi di prestiti e 390 miliardi di finanziamenti.
Secondo fonti di stampa estera e italiana, e secondo quanto riferito (min. -12:05) dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte, all’Italia dovrebbero addirittura arrivare più risorse di quanto previsto dalla proposta della Commissione: nel complesso circa 209 miliardi, contro i circa 172 miliardi stimati in precedenza.
Questi risultati per l’Italia, e in generale per gli altri Paesi mediterranei, sono stati ottenuti in cambio di diverse concessioni ai Paesi del Nord.
La critica di Salvini e Meloni
Su una di queste concessioni ai Paesi “rigoristi” in particolare, il cosiddetto “freno di emergenza”, si sono concentrate aspre critiche da parte dei due leader dell’opposizione Matteo Salvini (Lega) e Giorgia Meloni (Fdi).
Secondo Salvini (min. 10:55), «il primo Rutte di turno che nella primavera prossima si alza e dice “io i soldi all’Italia non li do se non tagliano le pensioni”», otterrebbe questo risultato. Secondo Meloni, per spendere le risorse di Next Generation Eu «dovremo comunque passare dalle forche caudine dei Rutte di turno: non si chiama “diritto di veto” ma il “super freno di emergenza” funzionerà allo stesso modo».
Il «Rutte di turno» è un riferimento al primo ministro dei Paesi Bassi, Mark Rutte, che nel corso delle trattative si è duramente scontrato con le posizioni dell’Italia, in particolare chiedendo che ci fossero maggiori controlli e condizioni su come il nostro Paese (e non solo) spenderà i soldi che riceverà dall’Unione europea.
Ma che cos’è il “freno di emergenza” di cui parla Meloni? Davvero consente a singoli Paesi europei di esercitare un diritto di veto, addirittura imponendo all’Italia riforme calate dall’alto? Andiamo a vedere i dettagli.
Come ottenere le risorse e come funziona il “freno di emergenza”
Per prima cosa chiariamo che dei 750 miliardi di euro totali di Next Generation Eu, la grande maggioranza (672,5 miliardi) sono destinati al cosiddetto Recovery and Resilience Facility, il fondo che serve proprio a dare soldi ai Paesi più duramente colpiti dalla pandemia di coronavirus. Queste risorse saranno erogate al 70 per cento nel 2021 e 2022 e al 30 per cento nel 2023. I restanti 80 miliardi scarsi sono divisi in altri programmi del Next Generation Eu.
Ai punti A.18 e A.19 delle conclusioni del Consiglio europeo del 17-21 luglio viene messo nero su bianco come gli Stati potranno accedere a queste risorse e si spiega anche il funzionamento del cosiddetto “freno di emergenza”.
Questa espressione non è presente nelle comunicazioni ufficiali di questi giorni, ma normalmente viene usata per spiegare il diritto comunitario in riferimento a diverse situazioni: di solito quando uno Stato o un gruppo di Stati può impedire che una determinata decisione venga presa a maggioranza, rinviandola invece al Consiglio europeo. Ma veniamo alla procedura per chiedere le risorse europee.
Per accedere alle risorse del Recovery and Resilience Facility, gli Stati membri dovranno presentare dei piani che illustrino l’agenda di investimenti e riforme che prevedono di fare tra il 2021 e il 2023. Entro due mesi la Commissione darà il suo eventuale via libera, valutando l’impatto sulla crescita, l’occupazione, la transizione ecologica e digitale, e trasmetterà la sua proposta al Consiglio (l’organo delll’Ue dove sono rappresentati i singoli Stati membri, ma non necessariamente dai capi di Stato e di governo come invece accade nel Consiglio europeo).
Per l’approvazione servirà la maggioranza qualificata del Consiglio – cioè con almeno il 55 per cento degli Stati, che rappresentino almeno il 65 per cento del totale della popolazione dell’Ue – entro quattro settimane dalla proposta della Commissione.
Sull’implementazione dei piani presentati dagli Stati membri, necessaria per ottenere le risorse richieste, vigilerà la Commissione, che dovrà chiedere il parere del Comitato economico e finanziario, un organo tecnico dell’Ue – dove siedono i rappresentanti nazionali delle amministrazioni e delle banche centrali – che assiste il Consiglio europeo per le questioni economiche.
E qui c’è il passaggio fondamentale. Se nell’ambito del Comitato economico e finanziario emerge che, «eccezionalmente», uno o più Stati membri ritengono che ci siano delle «significative deviazioni», da parte di uno Stato che ha ricevuto le risorse, rispetto agli impegni presi, possono attivare il “freno di emergenza”.
Gli Stati membri che hanno perplessità chiedono cioè che il presidente del Consiglio europeo riferisca sulla questione nella successiva riunione del Consiglio europeo stesso. In questo caso la Commissione non può sbloccare la situazione autonomamente, decidendo che invece lo Stato beneficiario sta rispettando gli impegni presi: deve attendere fino a che il Consiglio europeo «non ha discusso esaustivamente la questione». Nel frattempo eventuali richieste di risorse pendenti restano sospese.
Non è esplicitato in questo caso che procedura debba seguire il Consiglio europeo per raggiungere una decisione definitiva, ma normalmente (in base all’articolo 15 co.4 del Trattato sull’Unione europea) vale il metodo del “consenso”, cioè si cerca di arrivare a una soluzione che tenga insieme le ragioni della maggioranza e le obiezioni della minoranza. Il singolo Stato, che sia quello che ha sollevato le obiezioni o quello che ne è il destinatario, non può quindi imporsi su tutti gli altri e va trovato un compromesso.
Tutto il procedimento, in ogni caso, non può durare più di tre mesi a partire da quando la Commissione chiede il parere del Comitato economico e finanziario. Se le perplessità dello Stato che ha azionato il “freno di emergenza” vengono soddisfatte, la situazione si sblocca e riprendono le erogazioni. Altrimenti, se il Consiglio europeo non raggiunge il “consenso”, il richiamo agli articoli 17 Tue e 317 Tfue (articoli che regolano competenze e funzionamento della Commissione europea), che si legge nelle conclusioni del Consiglio europeo, dovrebbe garantire la prevalenza del parere della Commissione europea.
Perché è sbagliato parlare di “diritto di veto”
Come abbiamo visto, un singolo Stato può sicuramente complicare la vita a uno Stato che stia beneficiando delle risorse del Recovery and Resilience Facility, bloccando le decisioni della Commissione sul rispetto degli impegni presi e, di conseguenza, anche l’erogazione delle risorse.
Tuttavia parlare di “diritto di veto”, come fa Meloni, è un’esagerazione. Un singolo Stato non può infatti impedire che le risorse vengano erogate. Può rallentare i tempi, sollevare la questione e far valere le proprie ragioni nel Consiglio europeo, ma la decisione finale sarà o un compromesso tra Stati (si troverà il “consenso” nel Consiglio europeo) o della Commissione.
Ancor più sbagliato, poi, è ipotizzare come fa Salvini che le riforme vengano imposte da un singolo Paese. Le riforme vengono proposte dallo Stato che chiede le risorse e vengono discusse e approvate dalla Commissione, e poi dal Consiglio a maggioranza qualificata. Per restare nell’esempio del leader della Lega: se 25 Stati su 26 sono contrari a chiedere all’Italia (ventisettesimo Stato, che ha fatto richiesta dei fondi europei) di tagliare i fondi alla sanità e all’istruzione, i Paesi Bassi di Rutte possono protestare finché vogliono ma non potranno imporre la loro volontà.
Al massimo, come detto, un singolo Paese potrà bloccare le erogazioni di risorse per tre mesi se ritiene che uno Stato beneficiario non stia rispettando gli impegni presi (ma, di nuovo, la decisione finale non potrà essere bloccata con ogni probabilità da un singolo Stato). Questo “diritto di frenata”, ovviamente, spetta anche all’Italia nei confronti degli altri Paesi dell’Ue.
In conclusione
Nel Recovery Fund (o più precisamente, Next Generation Eu)da 750 miliardi approvato dal Consiglio europeo del 17-21 luglio è spiegata la procedura con cui gli Stati che ne hanno necessità potranno chiedere le risorse del Recovery and Resilience Facility, il fondo da oltre 670 miliardi pensato per aiutare gli Stati più colpiti dall’epidemia di coronavirus.
Sulla richiesta del singolo Stato, che deve spiegare che riforme e investimenti intende fare, decideranno la Commissione europea e il Consiglio, a maggioranza qualificata. Sull’implementazione delle riforme e degli investimenti vigila la Commissione, che deve chiedere il parere del Comitato economico e finanziario, organo tecnico in cui siedono i rappresentanti degli Stati.
Se uno o più Stati ritengono ci siano gravi violazioni degli impegni presi, allora la questione viene portata al successivo Consiglio europeo, che cercherà di trovare il “consenso” intorno alla soluzione della questione. Nel frattempo la Commissione non può approvare le richieste di fondi avanzate. L’intera procedura non può durare più di tre mesi.
È dunque esagerato dire, come fa Meloni, che un singolo Stato ha un diritto di veto grazie al freno di emergenza. Dopo la sospensione di tre mesi, massimo, la decisione finale sarebbe comunque presa o col consenso di tutti gli Stati o, in caso di stallo, dalla Commissione, e la contrarietà di un singolo Paese non sarebbe quindi sufficiente a bloccare le erogazioni dei fondi.
È poi sbagliato dire, come fa Salvini, che un singolo Paese possa imporre determinate riforme a un altro Paese che abbia chiesto le risorse europee: le riforme sono concordate tra lo Stato richiedente e la Commissione, e approvate a maggioranza dal Consiglio. Sulla loro implementazione il singolo Stato può, come detto, rallentare le cose per massimo tre mesi ma non ha comunque un diritto di veto.