Il 15 giugno, a margine degli “Stati generali dell’economia” organizzati a Villa Pamphilj a Roma, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha commentato la scelta del governo di allungare le misure straordinarie per la cassa integrazione, introdotte a marzo per contrastare la crisi economica causata dal coronavirus.

Secondo Conte, «a differenza di altri governi» l’Italia non sta permettendo che i lavoratori «siano licenziati», e mentre «altri Paesi hanno già tantissima disoccupazione, noi qui in Italia non la vogliamo».

Ma è vero che l’Italia si differenzia da altri Stati per avere introdotto più tutele per i lavoratori? E i dati sulla disoccupazione italiana sono davvero migliori rispetto a quelli degli altri Paesi, come lascia intendere Conte?

Abbiamo verificato e il presidente del Consiglio – come già successo per i tamponi – esagera i meriti del suo governo. Vediamo nel dettaglio perché.

Che cos’ha fatto l’Italia per evitare i licenziamenti

In Italia sono state due le misure principali – introdotte prima con il decreto “Cura Italia” (n. 18 del 17 marzo 2020, convertito in legge a fine aprile) e poi confermate con il decreto “Rilancio” (n. 34 del 19 maggio 2020, ora all’esame della Camera per la conversione in legge) – per proteggere i posti di lavoro dipendente duramente colpiti dalla crisi economica causata dal coronavirus.

Da un lato, sono state introdotte misure straordinarie per quanto riguarda la cassa integrazione: il governo ha dato la possibilità di utilizzare questo strumento – con diversi problemi nell’erogazione delle risorse – a quelle imprese a cui normalmente non era concesso.

Dall’altro lato, è stato introdotto – non senza alcuni intoppi – un blocco dei licenziamenti, prima previsto fino al 16 maggio e poi esteso fino al 17 agosto prossimo. Ad oggi c’è dunque il divieto per le aziende di procedere a licenziamenti per giustificato motivo oggettivo (per esempio per motivi legati all’attività produttiva), mentre sono state sospese anche le procedure di licenziamento che erano in corso prima dell’introduzione del blocco.

Quello che dice Conte nella sua prima parte della dichiarazione è dunque sostanzialmente vero. Grazie al potenziamento della cassa integrazione e al blocco dei licenziamenti, per il momento in Italia «è evidente che non consentiamo» che i lavoratori «siano licenziati». Ma come vedremo meglio più avanti, questo non significa che non ci siano già state gravi conseguenze sul mercato del lavoro, anzi.

È vero però che il nostro Paese ha preso questa scelta «a differenza di altri governi»?

Paese che vai, misure di protezione del lavoro che trovi

L’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo) – un’agenzia specializzata delle Nazioni unite che si occupa, appunto, di mercato del lavoro a livello internazionale – aggiorna periodicamente quali sono state le misure introdotte da 188 Paesi per proteggere i posti di lavoro, che la stessa Ilo giudica «senza precedenti».

Se guardiamo alla scheda dedicata all’Italia, troviamo le due misure citate prima, quelle sulla cassa integrazione e sul blocco dei licenziamenti. Vediamo che cosa è successo in giro per il mondo.

Cassa integrazione e simili

Per quanto riguarda i provvedimenti relativi all’estensione della cassa integrazione, il nostro Paese non è un’eccezione nel panorama internazionale.

Grandi Paesi Ue come Germania, Francia e Spagna hanno introdotto un potenziamento per i loro sistemi simili alla nostra cassa integrazione, per tutelare i livelli di reddito ed evitare i licenziamenti.

Il Regno Unito ha deciso di coprire una parte degli stipendi (fino all’80 per cento) dei dipendenti in difficoltà, mentre negli Stati Uniti si è optato, tra le altre, per una maggiore flessibilità nei criteri per permettere l’accesso ai sussidi di disoccupazione. Misure per mantenere i posti di lavoro sono state introdotte anche in Australia e Canada.

Il blocco dei licenziamenti

Discorso diverso vale invece per il blocco dei licenziamenti. Tra i grandi Paesi Ue, soltanto la Spagna ha introdotto una misura simile a quella italiana. Come ci hanno spiegato anche i nostri colleghi fact-checker spagnoli di Maldita, il blocco in Spagna è in vigore fino al 21 giugno, ma sono comunque concessi licenziamenti dovuti per esempio a motivi disciplinari.

In Germania e Francia (come ci hanno confermato i colleghi fact-checker francesi di CheckNews) i licenziamenti non sono stati “proibiti”, così come nel Regno Unito: anche qui i licenziamenti sono consentiti, come ci hanno confermato i colleghi fact-checker britannici di Full Fact.

Altri Paesi europei più piccoli, come la Grecia, hanno introdotto blocchi dei licenziamenti legati ad altre misure di protezione dei posti di lavoro: qui le aziende possono accedere a determinati benefici – per esempio, la sospensione di contributi previdenziali – a patto di non licenziare i dipendenti.

In base alle rilevazioni Ilo, nessun blocco è invece presente negli Stati Uniti, o in altri Paesi come Australia e Canada.

Il ruolo del lockdown

Perché l’Italia, con la Spagna, ha fatto eccezione nella scelta di bloccare i licenziamenti? Oltre alle valutazioni di carattere politico, c’è una questione centrale che non va sottovalutata per capire la scelta del governo Conte.

«Bisogna tenere in considerazione che in Italia, durante il lockdown, abbiamo chiuso un numero di aziende molto superiore rispetto agli altri Paesi, a parte la Spagna», ha sottolineato a Pagella Politica Francesco Seghezzi, presidente della Fondazione Adapt, un’associazione che promuove studi e ricerche di lavoro. «Le misure di contenimento contro il coronavirus sono state dunque per le industrie e le imprese italiane molto impegnative, più forti di quelle introdotte in Germania o Francia, per citare due grandi Paesi Ue. Il blocco dei licenziamenti è stata una scelta dettata anche dal fatto che il governo aveva obbligato moltissime aziende a stare chiuse».

La contropartita data alle imprese costrette a non licenziare, come abbiamo visto, è stata l’estensione della cassa integrazione: le imprese non possono licenziare, ma in compenso vengono aiutate a pagare gli stipendi dei dipendenti.

Come ha impattato questo sistema sui numeri del mercato del lavoro?

Come sta andando la disoccupazione

Secondo Conte, «in altri Paesi hanno già tantissima disoccupazione, noi qui in Italia non la vogliamo». Ma com’è messo il mercato del lavoro nel nostro Paese rispetto agli altri?

Che cosa dicono i dati

In base ai dati Istat più aggiornati (pubblicati lo scorso 3 giugno), ad aprile – quindi in piena emergenza coronavirus – il tasso di disoccupazione in Italia si è attestato intorno al 6,3 per cento, in calo dell’1,7 per cento rispetto al mese prima e del 3,9 per cento rispetto ad aprile 2019. In valori assoluti, questo significa che nel nostro Paese ad aprile c’erano un milione e 543 mila disoccupati, 484 mila in meno rispetto a marzo 2020 e un milione e 112 mila in meno rispetto ad aprile 2019.

Secondo i dati Eurostat e Ocse più aggiornati, con il suo 6,3 per cento l’Italia è uno dei pochi Paesi al mondo ad aver registrato un calo del tasso di disoccupazione, in ogni caso il più significativo nel periodo tra marzo e aprile. Negli altri grandi Paesi Ue, questo indicatore è salito (in Francia dal 7,6 all’8,7 per cento e Spagna dal 14,2 al 14,8 per cento) o rimasto stabile (come in Germania, al 3,5 per cento), mentre in Paesi come gli Stati Uniti è aumentato moltissimo, passando dal 4,4 per cento di marzo al 14,7 per cento di aprile.

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Grafico 1. Confronto del tasso di disoccupazione tra aprile 2019 e aprile 2020 (i dati del Regno Unito sono relativi a marzo 2020) – Fonte: Eurostat

A prima vista, sembra dunque che Conte abbia ragione: in base ai dati di aprile, la «tantissima disoccupazione», registrata altrove, non sembra essere arrivata in Italia. Ma le cose non stanno proprio così.

Come vanno letti i dati

«In Italia non è cresciuta la disoccupazione perché abbiamo avuto, da quanto emerge al momento dai dati di marzo e di aprile, un grossissimo travaso direttamente dagli occupati agli inattivi», ha sottolineato Seghezzi a Pagella Politica. «Da un punto di vista sostanziale, se vogliamo individuare i disoccupati come vengono intesi dal senso comune, cioè quelli che non hanno più un lavoro, allora abbiamo avuto un notevole aumento di questa categoria».

Come abbiamo più volte spiegato in passato, il tasso di disoccupazione è calcolato sulle cosiddette “forze di lavoro”, ossia quella parte di popolazione che lavora o è in cerca di lavoro: stiamo parlando dei cosiddetti “attivi”. Gli inattivi, al contrario, sono quelli che non hanno un lavoro e non lo cercano.

Secondo Istat, ad aprile gli inattivi (nella fascia di età 15-64 anni) sono aumentati di 746 mila unità rispetto al mese precedente, mentre gli occupati – quelli che hanno un posto di lavoro, tra cui quelli in cassa integrazionesono calati di 274 mila unità rispetto a marzo 2020, e di quasi mezzo milione di unità rispetto ad aprile 2019.

In termini percentuali, il tasso di inattività si è attestato ad aprile intorno al 38,1 per cento (+2 per cento rispetto al mese prima), mentre il tasso di occupazione è leggermente calato, con un -0,7 per cento, fermandosi al 57,9 per cento.

«Nemmeno al picco della crisi finanziaria il numero di occupati era sceso così tanto in un mese», ha spiegato in un’analisi del 4 giugno su lavoce.info Andrea Garnero, economista presso il Dipartimento Lavoro e Affari sociali dell’Ocse. «La pandemia, nonostante la cassa integrazione per tutti e il divieto di licenziamento, ha cancellato in un paio di mesi tre anni di crescita occupazionale».

Perché negli altri Paesi non si è però registrato ad aprile uno spostamento così forte dagli occupati agli inattivi?

«L’Italia ha registrato un travaso maggiore degli altri Paesi anche a causa delle forti misure di lockdown: se è tutto chiuso, nell’immediato nessuno cerca lavoro», ha spiegato Seghezzi. «Oltre a questo, molto ha fatto anche il blocco dei licenziamenti: la disoccupazione più tradizionale è quella di chi viene licenziato e si mette subito a cercare lavoro. Durante i primi due mesi dell’emergenza, i dati dicono che abbiamo avuto un calo degli occupati non determinato dai licenziamenti, ma più dal termine naturale dei contratti a scadenza».

Questa interpretazione è stata data anche dall’Ocse, che ha sottolineato come la condizione particolare dell’Italia per i dati sulla disoccupazione sia soprattutto spiegata dall’aumento degli inattivi. Su una posizione simile è anche l’Istat, in un rapporto uscito il 12 giugno 2020 sul mercato del lavoro sui primi tre mesi del 2020.

Secondo Istat, in Italia «le limitazioni legate al periodo di lockdown hanno reso difficile, se non quasi impossibile, soddisfare le due condizioni» in base alla quale si è considerati “disoccupati”: «aver intrapreso almeno un’azione di ricerca di lavoro nell’ultimo mese» ed «essere disponibile a iniziare un impiego entro due settimane».

«Per effetto dei maggiori carichi familiari (soprattutto per le donne con figli a seguito della chiusura delle scuole), della mancata attività di molti settori produttivi, delle forti limitazioni negli spostamenti», ha scritto Istat, «anche chi cercava attivamente lavoro prima dell’11 marzo, a seguito dell’emergenza sanitaria può aver smesso di cercare (perché magari il settore di possibile impiego ha dovuto sospendere l’attività) o può aver avuto difficoltà aggiuntive nel rendersi disponibile entro due settimane».

Istat ha anche aggiunto che «in sette casi su dieci l’aumento di chi non cerca e non è disponibile a lavorare riguarda persone che si definiscono disoccupati, mentre in passato gli incrementi dell’aggregato erano dovuti principalmente agli aumenti di casalinghe/i o studenti».

Ricapitolando: è vero che, a differenza dell’Italia, altri Paesi hanno visto aumentare il tasso di disoccupazione, ma questo è solo un lato della medaglia. Oltre alla perdita di di oltre 270 mila occupati, il nostro Paese ha infatti registrato un grande aumento del numero degli inattivi, non dovuto soltanto al blocco dei licenziamenti, ma anche allo scoraggiamento legato all’emergenza.

«Resterà da capire che cosa succederà dopo il 17 agosto con la fine del blocco: se la disoccupazione tornerà a salire e con quale velocità», ha concluso Seghezzi.

Il verdetto

Durante gli Stati generali a Villa Pamphilj, Giuseppe Conte ha detto che «a differenza di altri governi» l’Italia non sta consentendo che i lavoratori «siano licenziati». Commentando le misure del suo esecutivo, il presidente del Consiglio ha aggiunto che «in altri Paesi hanno già tantissima disoccupazione, noi qui in Italia non la vogliamo».

Abbiamo verificato e Conte esagera i meriti del suo esecutivo sull’unicità delle misure prese dal suo esecutivo e i risultati italiani sulla disoccupazione.

Da un lato, è vero che l’Italia ha introdotto due misure principali per evitare un aumento della disoccupazione: il potenziamento della cassa integrazione e il blocco dei licenziamenti. La prima misura è stata però applicata anche in altri Paesi europei e del mondo, mentre la seconda è in effetti un caso piuttosto unico, fatta eccezione per la Spagna che ha preso un provvedimento simile.

Dall’altro lato, è però fuorviante lasciare intendere come fa Conte che, mentre altri Stati hanno visto la disoccupazione crescere, in Italia non ci siano state ricadute negative sul mercato del lavoro. Secondo Istat, ad aprile il tasso di disoccupazione italiano è sceso al 6,3 per cento, ma questo non significa che con l’emergenza non si siano persi posti di lavoro: gli occupati ad aprile sono scesi di 274 mila unità, mentre c’è stato un forte incremento degli inattivi (+746 mila), quella categoria di persone che non lavorano e non cercano lavoro. Oltre al blocco dei licenziamenti, molto sembra aver fatto un generale senso di scoraggiamento vista la situazione di emergenza.

In conclusione, Conte si merita un “Nì”.