Il 25 febbraio, in un intervento al Consiglio regionale della Lombardia, il presidente della regione Attilio Fontana (Lega) ha commentato la ultime notizie sui casi di contagio da nuovo coronavirus, cercando – a detta sua – di «sdrammatizzare».
«Stiamo cercando di far capire che questa è una situazione sicuramente difficile, ma non così tanto pericolosa», ha detto Fontana. «Il virus è molto aggressivo nella diffusione, ma poi nelle conseguenze molto meno. Fortunatamente è poco più, e non sono parole mie, ma dei tecnici con cui parliamo, di una normale influenza».
Ma le cose stanno davvero così? Quali sono le differenze tra la Covid-19 (malattia causata dal nuovo coronavirus Sars-CoV-2) e l’influenza stagionale?
Cerchiamo di fare un po’ di chiarezza, analizzando prima le differenze tra le due malattie, per poi vedere che cosa hanno in comune.
Le differenze tra influenza stagionale e Covid-19
Letalità
Partiamo dalla questione che in questi giorni sta generando più confusione all’interno del dibattito pubblico e politico: la malattia causata dal nuovo coronavirus è davvero più letale di una normale influenza stagionale?
Come ha spiegato il 25 febbraio su Scienza in rete Fabrizio Bianchi, responsabile dell’unità di epidemiologia ambientale dell’Istituto di fisiologia clinica del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr), quando si parla di malattie bisogna maneggiare con attenzione le parole “letalità” e “mortalità”.
In breve: la prima indica quante persone muoiono per una malattia sul totale dei contagiati; la seconda indica il numero dei morti in rapporto al totale della popolazione, compresi quindi anche i non contagiati [1]. Noi ci occuperemo qui della letalità.
Guardiamo ora ai numeri più aggiornati relativi all’Italia per confrontare nuovo coronavirus e influenza stagionale.
Secondo il Ministero della Salute, alle ore 12 del 26 febbraio 2020 nel nostro Paese c’erano 374 persone colpite dal nuovo coronavirus (la stragrande maggioranza in Lombardia e Veneto), con 12 decessi. Facciamo attenzione: si parla di morti avvenuti con il coronavirus (ossia di persone decedute e risultate essere positive al Sars-CoV-2), e non necessariamente a causa del coronavirus, dal momento che – come per l’influenza, come vedremo meglio più avanti – spesso i decessi, che hanno coinvolto nella maggior parte dei casi persone anziane, sono legati anche a patologie pregresse.
I virus influenzali invece, come ha spiegato a Pagella Politica Fabrizio Pregliasco, virologo e ricercatore all’Università degli Studi di Milano, «causano direttamente all’incirca 300-400 morti ogni anno» in Italia, a cui vanno poi aggiunti «tra le 4 mila e le 10 mila morti “indirette”, dovute a complicanze polmonari o cardiovascolari, legate all’influenza». I decessi in tutto il mondo per la sola influenza, secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, arrivano secondo alcune stime fino a 500 mila l’anno.
Visti i numeri assoluti, torniamo alla nostra domanda originaria.
L’Istituto superiore di sanità stima che il tasso di letalità dell’influenza stagionale sia inferiore all’uno per mille, ossia lo 0,1 per cento scarso. L’ebola, per esempio, ha un tasso di letalità che si aggira intorno al 50 per cento e la Sars intorno al 10 per cento.
Per la Covid-19 non abbiamo ancora numeri certi. Secondo i dati più aggiornati dell’Oms, dall’inizio della diffusione del nuovo coronavirus al 25 febbraio, su 80.239 casi confermati di contagio i morti sono stati 2.700, circa il 3,4 per cento.
«Si parla di numeri altamente provvisori», ha sottolineato a Pagella Politica Pregliasco. «Per esempio, in Cina non abbiamo l’esatto valore del denominatore, ossia dei contagiati, che potrebbero essere molti di più. Quella che si ha adesso sulla letalità è quasi sicuramente una sovrastima».
Ad oggi dunque, come hanno sottolineato le riviste scientifiche Swiss medical weekly il 7 febbraio e The Lancet il 14 febbraio, è ancora impossibile avere una stima precisa del tasso di letalità del nuovo coronavirus.
I numeri cambiano molto poi a seconda delle aree analizzate (e dei periodi di tempo: settimanali e mensili, per esempio). Nella regione di Hubei, in Cina, su 64.768 contagiati ci sono stati 2.563 morti, con un tasso di letalità cumulativo (ossia dall’inizio del contagio) intorno al 3,9 per cento (comunque più basso della Sars).
Fuori dalla Cina, su 2.459 casi confermati i morti sono stati 34: circa l’1,4 per cento (l’Oms il 24 febbraio ha parlato di un tasso di letalità dello 0,7 per cento fuori dalla città di Wuhan).
Come ha spiegato l’Organizzazione mondiale della sanità il 19 febbraio, è ancora presto per trarre conclusioni da queste discrepanze (per esempio dovute alle differenze dei sistemi sanitari).
Qualche giorno fa il Centro per la prevenzione e il controllo delle malattie della Cina (Ccdc) ha pubblicato uno dei rapporti fino ad oggi più completi sulla Covid-19. Qui si legge (Tabella 1 del rapporto) che su circa 45 mila casi confermati di contagio registrati in Cina, il tasso di letalità si è aggirato intorno al 2,5 per cento, con grandi differenze però all’interno delle fasce di età. Tra i 10 e i 39 anni, la letalità è dello 0,2 per cento, mentre via via cresce con l’aumentare degli anni: 0,4 per cento tra i 40-49 anni; 1,3 per cento tra i 50 e i 59; 3,6 per cento tra i 60 e i 69; 8 per cento tra i 70 e i 79; e 14,8 per cento per gli over 80.
È necessario inoltre sottolineare che dalla Covid-19 si può guarire. Alle 10:30 del 26 febbraio, in base alle elaborazioni della Johns Hopkins University di Baltimora, su oltre 81 mila casi di Covid-19, i guariti sono oltre 30.100 (quasi il 38 per cento).
Ricapitolando: al momento possiamo dire che l’influenza stagionale, in Italia e nel mondo, sta uccidendo un numero complessivo maggiore di persone rispetto al nuovo coronavirus (attenzione però: non oltre 200 alla settimana o al giorno, come si legge in giro nelle ultime ore). Ma la Covid-19 sembra però avere un tasso di letalità più elevato.
Contagiosità
Un altro concetto molto importante in epidemiologia è il cosiddetto “numero di riproduzione di base” (“tasso netto di riproduzione”), che in sostanza misura la potenziale trasmissibilità di una malattia infettiva.
Come spiega l’Iss, infatti, questo indicatore «rappresenta il numero medio di infezioni secondarie prodotte da ciascun individuo infetto in una popolazione completamente suscettibile, cioè mai venuta a contatto con il nuovo patogeno emergente».
Il numero di riproduzione si esprime generalmente con l’indicatore R0(da leggersi “erre con zero”), che stima dunque quante persone vengono in media contagiate da un soggetto infetto.
Anche qui, quando si parla di nuovo coronavirus, nessun numero è definitivo.
Il 23 gennaio 2020, l’Oms ha pubblicato una stima preliminare sul tasso di riproduzione del nuovo coronavirus, con un R0>1,4-2,5: ossia un infetto può arrivare a contagiare fino a un massimo di 2,5 persone.
In realtà, nelle ultime settimane sono usciti diversi studi (alcuni ancora in attesa di peer review, ossia di controllo della comunità scientifica) con numeri diversi tra loro. Secondo una pubblicazione del 13 febbraio, la media del tasso di riproduzione calcolata su 12 studi si aggirerebbe intorno al R0>3,3.
C’è dunque ancora ampia variabilità di cifre (come d’altronde è prevedibile, per un’epidemia che si muove più velocemente o lentamente in aree del mondo diverse), ma possiamo dire con una certa affidabilità che il nuovo coronavirus ha un numero di riproduzione di base maggiore della classica influenza stagionale, che ha un tasso di riproduzione pari a R0>1,3.
Questi numeri però possono cambiare nel tempo: le politiche di controllo e prevenzione possono infatti aiutare a ridurre la diffusione del virus, come avvenuto in passato per la Sars.
Periodo di incubazione
Una delle questioni più rilevanti quando si parla di Covid-19 riguarda poi il cosiddetto “periodo di incubazione”, ossia il lasso temporale che intercorre tra il contagio da parte del nuovo coronavirus e la comparsa dei primi sintomi della malattia (che, ricordiamo, vanno da naso che cola, gola secca, tosse e febbre, a sintomi più gravi per alcune persone, come polmoniti o altre serie difficoltà respiratorie).
Conoscere con precisione quale sia il periodo di incubazione del nuovo coronavirus – ma in generale di tutte le malattie infettive – è fondamentale per una efficace gestione del contagio, per esempio per decidere quanto debba essere lungo il periodo di quarantena per le persone potenzialmente venute a contatto con il virus.
«Le stime sul periodo di incubazione della Covid-19 vanno da uno a 14 giorni, molto più comunemente intorno ai cinque giorni», scrive sul suo sito ufficiale l’Oms. «Queste stime saranno aggiornate quando ci saranno più dati a disposizione».
L’influenza stagionale ha invece un periodo di incubazione più breve, dal momento che i sintomi si manifestano da poche ore fino a massimo due-tre giorni dopo il contagio. Come vedremo meglio più avanti, uno dei problemi è che i sintomi iniziali dell’influenza e della Covid-19 sono simili.
Casi gravi
Un’altra differenza tra Covid-19 e influenza stagionale riguarda la quantità di casi che manifestano sintomi gravi, ma che non necessariamente si concludono con la morte del contagiato [2].
Come spiega il Ministero della Salute, i sintomi più comuni da contagio del Sars-CoV-2 includono febbre, tosse e difficoltà respiratorie. Ma nei casi più gravi, l’infezione può causare «polmonite, sindrome respiratoria acuta grave e insufficienza renale». Gli stessi sintomi che danno i casi più gravi di influenza.
Rispetto all’influenza stagionale, la Covid-19 sembra però causare un numero maggiore di casi con sintomi gravi (oltre ad avere, come abbiamo visto, una letalità stimata maggiore).
Secondo lo studio del Cdc cinese già citato in precedenza, infatti, sul campione di circa 45 mila contagi confermati, i ricercatori ne hanno classificato l’80,9 per cento con sintomi poco significativi, il 13,8 per cento con sintomi gravi e il 4,7 per cento con sintomi critici.
Questa non è una cosa da poco (ma neanche su cui fare allarmismo): può significare, se da ricerche ulteriori i numeri dovessero rimanere più o meno su questi livelli, che su 100 contagiati, per almeno 20 potrebbe essere necessario un ricovero ospedaliero. Ricordiamo però che si tratta di una stima che parte dai casi confermati di contagio, che come abbiamo detto all’inizio sono sicuramente sottostimati. Aumentando il denominatore, la percentuale di casi per cui serve il ricovero è quindi probabilmente più bassa del 20 per cento.
In ogni caso, i numeri sui casi riguardanti l’influenza stagionale sono diversi. Da ottobre 2019 al 16 febbraio 2020, secondo InfluNet (il sistema nazionale di sorveglianza epidemiologica e virologica dell’influenza, coordinato dal Ministero della Salute con la collaborazione dell’Iss) il numero di casi simil-influenzali è stato di 5.632.000 (il rapporto completo è consultabile nel link in fondo alla pagina).
Ma i casi gravi legati al contagio da virus influenzale tra quelli confermati in laboratorio nei pazienti ricoverati in terapia intensiva sono stati da ottobre scorso ad oggi meno di 200. Si tratta comunque di un dato parziale, proveniente dal Rapporto della sorveglianza integrata dell’influenza dell’Iss, molto probabilmente destinato a crescere.
Secondo il Cdc statunitense, ad esempio, negli Stati Uniti ogni anno è circa l’1,3 per cento dei contagiati da influenza stagionale richiedere la necessità di un ricovero in ospedale. Numeri comunque lontani da quelli, pur provvisori, del nuovo coronavirus.
Vaccini e virus
Un’altra differenza sostanziale tra la Covid-19 e l’influenza stagionale è che per la seconda ci si può vaccinare, per la prima no. Questo fatto è dovuto anche ai diversi tipi di virus che causano queste malattie.
Riassumendo: il Sars-CoV-2 (che causa la Covid-19) fa parte della famiglia dei coronavirus (Coronaviridae), che sono soprattutto comuni negli animali, e che per sette tipi (tra cui quello nuovo) possono colpire gli esseri umani. Generalmente portano a sintomi lievi (come i raffreddori) nelle persone, ma nel caso della Covid-19, della Sars e della Mers possono portare, come abbiamo visto, a gravi problemi respiratori.
I virus che causano l’influenza stagionale fanno invece parte di una famiglia diversa (Orthomyxoviridae). Tra i cosiddetti “virus influenzali”, quelli di tipo A e B sono ritenuti i responsabili dei sintomi – come febbre, mal di testa, mal di gola e tosse – della classica influenza, mentre i virus di tipo C generano al più un raffreddore.
Tutti i virus influenzali hanno una «marcata tendenza» a variare, spiega l’Iss, «cioè ad acquisire cambiamenti nelle proteine di superficie che permettono loro di aggirare la barriera costituita dalla immunità presente nella popolazione che in passato ha subito l’infezione influenzale». In parole povere: questi virus mutano in modo da evitare che gli anticorpi creati dalle precedenti versioni del virus siano ancora efficaci.
Questa problematica che pongono i virus influenzali viene contrastata con aggiornamenti annuali della composizione dei relativi vaccini. Questo ci permette di arrivare preparati all’arrivo della stagione influenzale, soprattutto per proteggere le fasce della popolazione più deboli (come gli anziani).
Il principale problema con il nuovo coronavirus non è la sua capacità di mutare o meno, ma che è qualcosa di relativamente “nuovo” per l’uomo. È vero, abbiamo avuto a che fare con la Sars e la Mers, due malattie che gli scienziati hanno studiato (e stanno ancora studiando), ma sono comunque virus recenti e in questo scenario di novità il Sars-CoV-2 trova un terreno più fertile in cui diffondersi.
«Con lo pneumococco e con i virus influenzali conviviamo da millenni e la maggior parte dei pazienti anziani aveva già incontrato nel corso della vita uno o più virus simili all’H1N1 [la cosiddetta “influenza suina”, diffusasi nel 2009]», ha spiegato a Wired il 7 febbraio 2020 Luigi Lopalco, epidemiologo e docente di Igiene all’Università di Pisa. «Mentre l’2019-nCoV [ora chiamato “Sars-CoV-2” n.d.r.] è un virus completamente nuovo per il sistema immunitario. Per questa ragione non abbiamo ancora strumenti preventivi e terapie come per la polmonite pneumococcica».
Ad oggi (nonostante le bufale che si leggono in giro) non esiste un vaccino per proteggersi dal nuovo coronavirus e ci vorranno diversi mesi per averne una prima versione. È notizia del 24 febbraio che un’azienda farmaceutica statunitense ha sviluppato un primo vaccino sperimentale, ma da un lato ci vorrà ancora tempo prima che inizi la fase di sperimentazione sugli esseri umani, dall’altro lato ci sono dubbi sulla sua efficacia.
Le somiglianze tra le due malattie
Nonostante queste differenze, è comunque vero che la Covid-19 e l’influenza stagionale abbiano alcune cose in comune. Partiamo dall’aspetto principale.
«I sintomi dell’influenza, almeno in una fase iniziale, sono molto simili a quelli di altre infezioni respiratorie, compreso il nuovo coronavirus Sars-CoV-2: febbre, tosse, raffreddore, mal di gola», scrive l’Iss. «Proprio a causa di queste similarità potrebbe essere difficile identificare la malattia basandosi solo sui sintomi».
Per chi viene contagiato dal nuovo coronavirus e non sviluppa i sintomi più gravi come i problemi respiratori acuti (e abbiamo visto che ad oggi i contagiati con i sintomi lievi sono la grande maggioranza), è dunque vero che la Covid-19 è uguale o poco più di una normale influenza stagionale.
Anche i casi gravi di influenza e della Covid-19 si somigliano in parte per quanto riguarda i sintomi ma, come abbiamo visto, il nuovo coronavirus sembra in grado di assumere una forma più pericolosa in una percentuale molto più elevata di casi.
Ricordiamo inoltre, come fa anche il Ministero della Salute, che le due malattie sono causate «da virus differenti, pertanto, in caso di sospetto di coronavirus, è necessario effettuare esami di laboratorio per confermare la diagnosi».
Per quanto riguarda i trattamenti per lenire gli effetti della malattia possiamo segnalare una differenza e una somiglianza. La differenza è che per il nuovo coronavirus, come spiega l’Iss, «non esistono al momento terapie specifiche». Per l’influenza sì: nei casi gravi in cui si verificano complicanze, come polmoniti o problemi cardiocircolatori, vengono messe in campo le terapie specifiche per queste patologie.
La somiglianza è che, invece, nei casi più lievi sia il coronavirus sia l’influenza vengono trattate con “terapie di supporto”, che intervengono sui sintomi e non sulle cause della malattia, e aiutano a guarire più rapidamente. Purtroppo nei casi gravi di Covid-19 vengono comunque date solo le terapie di supporto perché, come abbiamo detto, terapie specifiche al momento non ce ne sono.
Per quanto riguarda la trasmissione, i virus influenzali si trasmettono soprattutto per via aerea, attraverso le goccioline di saliva che si producono con la tosse e gli starnuti, o semplicemente parlando. Il passaggio del virus può avvenire anche per contatto diretto con persone o superfici infette (toccandosi naso, occhi e bocca con le mani contaminate).
Un discorso analogo, anche se abbiamo meno dettagli da un punto di vista scientifico, sembra valere anche per il nuovo coronavirus: la trasmissione avviene anche in questo caso per via aerea, con le goccioline di saliva. Non è invece al momento noto, sottolinea il Ministero della Salute, «se la trasmissione diminuirà durante l’estate, come osservato per l’influenza stagionale».
C’è dibattito, poi, sulla possibilità di trasmissione asintomatica, ossia da pazienti contagiati ma che non mostrano sintomi. Questa eventualità è assodata per l’influenza stagionale, e non è esclusa dall’Oms anche per la Covid-19, anche se in casi rari. Per avere certezze bisognerà però attendere che vengano conclusi gli studi scientifici in proposito.
Infine, un ultimo punto in comune riguarda la prevenzione. Sia per evitare il contagio da virus influenzali che da Covid-19, le raccomandazioni sono di fatto le stesse: lavarsi spesso le mani con acqua e sapone o con soluzioni a base di alcol; mantenere una distanza di almeno un metro dalle persone che tossiscono o starnutiscono, o se hanno la febbre; evitare di toccarsi occhi, naso e bocca con le mani non lavate.
Il verdetto
Secondo il presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana, volendo «sdrammatizzare», si può dire che la Covid-19 (la malattia causata dal nuovo coronavirus Sars-CoV-2) «è poco più di un’influenza». Abbiamo verificato e le cose non stanno proprio così.
È vero: ci sono elementi in comune tra le due malattie, come i sintomi lievi per la maggior parte dei contagiati, le modalità di trasmissione e di prevenzione, ma ci sono anche differenze significative (sulla base dei dati provvisori attualmente disponibili) che dovrebbero suggerire cautela.
Il nuovo coronavirus sembra infatti avere una letalità maggiore dell’influenza stagionale (che in numeri totali continua a fare comunque molti più morti), una velocità di contagio più alta e una maggiore capacità di creare sintomi gravi tra gli infetti. Il periodo di incubazione della Covid-19 sembra essere poi più lungo dell’influenza stagionale, mentre l’assenza dei vaccini non ne consente ad oggi una prevenzione efficace così come avviene per l’influenza stagionale.
In conclusione, Fontana si merita un “Nì”.
[1] Per chi vuole approfondire il tema, qui c’è un approfondimento introduttivo (in inglese) dei Centri per la prevenzione e il controllo delle malattie degli Stati Uniti (Cdc) che spiega meglio che cosa sono il tasso di letalità e quello di mortalità, due tra i più usati in epidemiologia.
[2] Un lungo e dettagliato articolo divulgativo, pubblicato il 18 febbraio 2020 da National Geographic, spiega che cosa succede agli organi di un corpo umano (dai polmoni al fegato) quando viene infettato dal nuovo coronavirus.
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