Il 15 ottobre 2019 Matteo Salvini e Matteo Renzi sono stati ospiti di Bruno Vespa a Porta a Porta (Rai1). Abbiamo verificato il loro confronto, qui trovate i fact-checking relativi allo spread.


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I due Mattei hanno parlato molto di economia: e non poteva mancare il famigerato spread, cioè la differenza tra il rendimento dei titoli di Stato italiani a dieci anni e l’equivalente titolo di Stato tedesco (il Bund).

I «massimi livelli» dello spread

Secondo Renzi, se si fosse andati al voto dopo la crisi politica di agosto lo spread sarebbe ora «ai massimi livelli» (min. -1:23:18) e che «con Salvini siamo arrivati a 318 punti di spread, novembre 2018. Con noi e il nostro governo era a 98 ma adesso abbiamo recuperato e siamo circa alla metà, […] intorno ai 140».

Sebbene sia complicato stabilire l’andamento ipotetico dello spread, è improbabile che un’elezione dopo la crisi di agosto avrebbe portato lo spread oltre quota 500, ossia i «massimi livelli» raggiunti nel 2012 durante la crisi del debito sovrano. Questo perché lo spread e il rendimento dei titoli di Stato italiani stanno calando significativamente da diversi mesi grazie a evoluzioni di portata globale sui mercati finanziari. Evoluzioni che hanno a che vedere solo parzialmente con le vicende italiane.

Ragionamento a parte, i numeri citati da Renzi sullo spread sono corretti: al 16 ottobre 2019, lo spread Btp–Bund è di circa 140 punti base (142 per l’esattezza), mentre nel novembre 2019 lo spread aveva raggiunto (e superato) quota 318 punti base.

L’unica imprecisione commessa da Renzi riguarda (curiosamente) il valore raggiunto dallo spread quando il suo governo era in carica. Infatti, durante l’esecutivo Renzi (marzo 2015) lo spread era calato al di sotto del valore citato dal leader di Italia Viva (98 punti base), raggiungendo gli 88 punti base. Bisogna però sottolineare che lo spread è stato sotto quota 100 punti base solamente in 49 dei 731 giorni (pari al 6,7 per cento) in cui i mercati sono stati aperti sotto il governo Renzi.

Le spese per interessi

Salvini ha ribattuto sul tema, poco dopo, dicendo che già con la maggioranza precedente le spese per interessi erano calate. «Quest’anno loro [= l’attuale maggioranza Pd-M5s] hanno messo in manovra economica 3 miliardi e 300 milioni di euro in meno di spese per interessi […]. Quindi anche quando c’era al governo Salvini […] si pagava di meno di interessi sul debito pubblico» (-1:20:04).

Anche nel caso di Salvini, il ragionamento è discutibile, mentre i numeri riportati sono corretti. Infatti, come riporta la Nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza (Nadef) approvata dal governo M5s–Pd, è previsto che nel 2019 la spesa per interessi diminuisca rispetto al 2018 di 3,3 miliardi di euro (da 64,6 a 61,3 miliardi).

Come nel caso delle affermazioni di Renzi, è però difficile attribuire a questo o a quel governo il calo dello spread, visto che il fenomeno sembra essere legato – a detta di diversi commentatori – alle scelte della Bce e al generale andamento ribassista del mercato obbligazionario (per intenderci, quello dei titoli di Stato).

Renzi ha dato una spiegazione alternativa alla diminuzione della spesa per interessi prevista per il 2019 (da -1:15:35), per dar torto all’idea che il governo di cui faceva parte Salvini potesse prendersi meriti per questo calo. Renzi ha detto: «dopo dieci anni scadono – 8 anni, 5 anni, a seconda di quali sono – i titoli di Stato che sono stati emessi nel momento peggiore per l’Italia, quello del 2011-2012». Visto che quei titoli “costosi” stanno cominciando a scadere, insomma, secondo Renzi è naturale che la spesa per interessi cali, senza meriti del governo in carica.

Ma questa spiegazione non è molto convincente. Se la teoria di Renzi fosse vera, non si capisce perché nel Def 2019 (aprile 2019) i tecnici del Mef stimassero in circa 64 miliardi la spesa per interessi per il 2019 (-1 miliardo in meno rispetto al 2018), contro i 61,3 miliardi previsti (-3,3 miliardi in meno rispetto al 2018) nella Nadef di fine settembre 2019.

Se il calo della spesa prevista per interessi nel 2019 rispetto al 2018 fosse giustificato interamente dalla scadenza di titoli ad alto rendimento del periodo 2011-2012, allora anche ad aprile la spesa per interessi per il 2019 sarebbe stata stimata in 61,3 miliardi. Al contrario, il Mef riteneva che la spesa per interessi nel 2019 si sarebbe attestata a circa 64 miliardi, in calo di un solo miliardo rispetto al 2018.

Dato che i titoli in scadenza nel 2018 erano già scaduti al momento della pubblicazione del Def 2019, la discrepanza tra le due previsioni non può che essere giustificata da cambiamenti delle condizioni di mercato avvenute tra aprile e settembre 2019. Nello specifico, la Nadef riporta che «da inizio giugno [2019] i rendimenti di mercato hanno subìto una forte discesa e ciò impatta favorevolmente non solo sulla previsione economica, ma anche sulle proiezioni dei pagamenti per interessi».

In altre parole, il calo della spesa per interessi prevista per il 2019 rispetto al 2018 non può essere completamente attribuita alla scadenza dei titoli del periodo 2011–2012, perché se così fosse già ad aprile 2019 il Mef avrebbe stimato un calo della spesa per interessi pari a quella della Nadef.

In definitiva, quando si tratta dei rendimenti dei titoli di Stato, è difficile stabilire in maniera assoluta la responsabilità di questo o quel governo. Anche se le decisioni degli esecutivi hanno un peso sulle scelte degli investitori, nei mercati finanziari subentrano una serie di fattori che sono indipendenti dalle mosse del governo in carica.

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