Nell’ultimo mese nel dibattito politico italiano è tornata di attualità la riforma del catasto, che ha subito attirato l’opposizione della maggior parte dei partiti. Non a caso se ne discute ormai da anni, senza risultati. Il governo è infatti al lavoro sul disegno di legge delega sulla riforma fiscale e, secondo fonti stampa, avrebbe messo mano alla possibilità di rivedere il sistema catastale.
Tra gli aumenti delle bollette, la promozione dei vari referendum e le critiche al reddito di cittadinanza, il catasto può sembrare un argomento di scarso interesse e dal basso impatto sulla vita di tutti i giorni. In realtà i numeri mostrano con chiarezza come l’attuale sistema catastale italiano sia iniquo e inefficiente, con conseguenze per gran parte della popolazione.
Cerchiamo di fare un po’ di chiarezza sul tema, per poi analizzare qual è la posizione dei principali partiti dello schieramento parlamentare.
Quali sono i problemi del catasto
Il catasto è l’inventario dei beni immobili presenti nel territorio italiano, dalle abitazioni agli uffici, passando per i negozi e le strutture come ospedali e carceri. La sua creazione è stata disposta nel 1886, ma è stata conclusa soltanto negli anni Cinquanta del Novecento.
«Di fatto, salvo alcune modifiche di poco conto, il catasto in Italia è rimasto così come è stato pensato ormai 70 anni fa», ha spiegato a Pagella Politica Simone Pellegrino, professore di Scienza delle finanze all’Università degli Studi di Torino. «In origine il sistema catastale era stato pensato per determinare un reddito legato al singolo immobile, attraverso il concetto di “rendita catastale”». Proprio da questo concetto nasce un primo problema del nostro attuale catasto.
Il problema delle rendite catastali
Senza entrare troppo nei dettagli, la rendita catastale è il valore reddituale che il catasto attribuisce per scopi fiscali a un immobile che può generare reddito. Questo valore si calcola tenendo conto della grandezza dell’immobile (per esempio, il numero dei vani nelle abitazioni), della sua destinazione d’uso e della zona in cui si trova.
«Detta in parole semplici, la rendita catastale dovrebbe equivalere al cosiddetto “affitto imputato”, ossia all’affitto che un proprietario riceverebbe se decidesse di mettere in locazione la sua abitazione», ha spiegato Pellegrino a Pagella Politica. Questo principio però non si traduce nella pratica: oggi il valore delle rendite catastali non corrisponde a quello degli affitti imputati.
Prendiamo l’esempio degli immobili del gruppo A, quello delle abitazioni, senza prendere in considerazione gli uffici e gli studi privati. Secondo i dati più aggiornati dell’Agenzia delle entrate, in Italia le rendite catastali delle abitazioni hanno un valore complessivo di quasi 17,2 miliardi di euro. Suddivisi per circa 36,2 milioni di abitazioni, danno una rendita catastale media intorno ai 500 euro annui.
«Questo valore non ha più senso e per questo si parla di riforma del catasto: una rendita catastale corrisponde in media solo al 10-15 per cento di quello che dovrebbe essere l’affitto imputato. Se un proprietario di casa decidesse di cedere in locazione il proprio immobile, in un anno potrebbe ricavare in media intorno ai 4-5 mila euro all’anno: dieci volte tanto il valore della rendita catastale», ha spiegato a Pagella Politica Pellegrino. «Il fatto che i valori delle rendite catastali siano bassi non è di per sé per forza rilevante: il vero problema è che nel corso del tempo si è persa la corrispondenza tra le rendite catastali sia di case simili tra di loro, per esempio di uguale pregio, sia di case diverse tra di loro».
Facciamo un esempio concreto per capire che cosa comporta la disparità tra le rendite catastali di cui abbiamo appena parlato. Nelle grandi città, ci sono casi di abitazioni non particolarmente generose in termini di metratura con una rendita catastale di poco più bassa rispetto ad abitazioni più grandi e più prestigiose situate in pieno centro. «Questo deriva dal fatto che certe case, soprattutto quelle in centro e abitate mediamente da persone più ricche, sono state accatastate molto tempo fa», ha spiegato Pellegrino a Pagella Politica. «Le case che sono in periferia, abitate mediamente da persone meno ricche e accatastate più di recente, hanno delle rendite solo di poco più basse rispetto a quelle in centro».
Ricapitolando: a livello della determinazione del reddito, l’attuale sistema delle rendite catastali genera forti incongruenze, che in media favoriscono chi ha di più rispetto a chi ha di meno. A cascata il disallineamento delle rendite catastali crea anche un secondo problema.
Il problema del calcolo delle imposte
Dall’inizio degli anni Novanta – quando fu introdotta l’Imposta comunale sugli immobili (Ici), poi sostituita dall’Imposta municipale unica (Imu) – le imposte sul patrimonio immobiliare si calcolano proprio a partire dalle rendite catastali. Per l’Imu sulle abitazioni, per esempio, la base imponibile – ossia il valore su cui viene calcolata l’imposta – si determina moltiplicando la rendita catastale di un immobile, rivalutata del 5 per cento, per il valore di 160 (parametro modificato dal governo Monti, in precedenza pari a 100).
«Se le rendite sono disallineate con il valore di mercato delle case, applicando il fattore moltiplicativo di 160 per tutte le case si riduce il divario tra base imponibile Imu e valore di mercato dell’immobile, da una parte, ma dall’altra si mantengono le iniquità orizzontali, tra case simili, e verticali, tra case diverse», ha sottolineato Pellegrino a Pagella Politica.
Secondo i dati più aggiornati del Ministero dell’Economia e delle Finanze, in Italia il valore stimato di mercato di un’abitazione è in media circa due volte più elevato del valore che viene preso in considerazione per calcolare l’Imu, con differenze tra le regioni. Le rendite catastali sono utilizzate anche per calcolare la base imponibile di altre imposte, come quelle sulle eredità o l’acquisto di immobili, o per quantificare l’Indicatore della situazione economica equivalente (Isee) delle famiglie.
Ricapitolando: due delle modifiche più urgenti da introdurre al catasto italiano sono la revisione delle rendite catastali e la revisione dei corrispondenti valori di base imponibile Imu. Che cosa succederebbe se si riuscisse a mettere mano a questi due aspetti, aggiornandoli e rendendoli meno iniqui? Con un catasto riformato, le abitazioni nella stessa zona – se di grandezza simile – avrebbero lo stesso prezzo di mercato e quindi la stessa base su cui calcolare le imposte sul patrimonio. In più, si ridurrebbero le incongruenze che esistono attualmente, per esempio, tra le abitazioni in periferia e quelle nei centri città.
Qui però subentra uno spauracchio non da poco, che – come vedremo meglio più avanti – viene agitato da chi si oppone alla riforma del catasto.
Si può riformare il catasto senza alzare le imposte?
A prima vista può sembrare automatico che se si rivalutano i valori catastali su cui si calcolano le imposte, aumenteranno anche i costi per le tasche dei cittadini. Di recente, alcuni giornali hanno per esempio titolato che una riforma del catasto potrebbe portare addirittura al raddoppio delle imposte sulle case, portando a sostegno delle stime che vanno prese con molta cautela. Le cose in realtà possono andare diversamente di così.
«È una falsità sostenere che la riforma del catasto si traduca necessariamente in un aumento delle imposte. Una riforma del catasto si può fare a parità di gettito: se oggi un contribuente ha un immobile con una base imponibile di 100, che con la riforma passa a 200, il governo potrà ridurre le aliquote per evitare un aumento del gettito complessivo», ha spiegato Pellegrino a Pagella Politica. «Si tratta di una scelta politica: il problema è che si ha paura a toccare questo argomento per non scontentare gli elettori. Quello che non viene detto è che già oggi ci sono situazioni in cui certi cittadini stanno pagando di più di quello che dovrebbero pagare, e altri meno, se il catasto fosse aggiornato».
Discorso analogo vale per il calcolo dell’Isee: una volta rivisti i valori catastali, il governo potrebbe decidere di alzare le soglie Isee per accedere a determinati bonus, per evitare l’esclusione di chi oggi vi accede. Si tratta comunque di una scelta politica, non per forza determinata dalla riforma del catasto.
Al di là di questo, l’obiettivo della parità di gettito – ossia aumentare le basi imponibili senza aumentare le entrate complessive per il fisco – non significa che tutti continuerebbero a pagare quanto pagano adesso, altrimenti rimarrebbe sempre il problema di avere un sistema iniquo. Ci sarebbero in ogni caso due redistribuzioni di gettito: la prima tra i comuni, la seconda tra singoli contribuenti.
«Innanzitutto, con una riforma ci sarebbe una redistribuzione di gettito tra comuni, perché se un comune ha, semplificando, le case tutte belle, mentre un altro ha le case tutte brutte, è chiaro che rivedendo le basi imponibili e le aliquote per mantenere la parità di gettito rispetto ad oggi, qualche comune ci guadagnerà e qualche comune ci perderà», ha spiegato Pellegrino. «Per far fronte a questo problema potrebbero essere introdotti dei meccanismi compensativi, nel rispetto del federalismo fiscale».
Con la riforma a parità di gettito, l’altra redistribuzione che potrà avvenire è quella tra singoli contribuenti. «Rispetto alla situazione attuale ci saranno alcuni cittadini che pagheranno di più e altri che pagheranno di meno, ma dipenderà da come i valori patrimoniali saranno rivisti», ha sottolineato Pellegrino. «In ogni caso, se un contribuente pagherà di più, vuol dire che oggi sta pagando di meno di quello che dovrebbe. Viceversa, se un contribuente si troverà a pagare di meno, vuol dire che oggi sta pagando di più, perché il catasto non è aggiornato».
Secondo fonti stampa, l’ipotesi di una riforma con parità di gettito sarebbe quella presa in considerazione dal governo Draghi. Ma ad oggi le sue ipotesi di riuscita sembrano essere nulle: all’interno del governo e del Parlamento non sembra al momento esserci una maggioranza in grado di sostenerla.
Che cosa dicono i partiti (e non solo)
Il 22 settembre, in Commissione Finanze alla Camera, la viceministra all’Economia Laura Castelli (Movimento 5 stelle) ha infatti dichiarato che al momento, a differenza di quanto riportato da fonti stampa, il governo non sta ragionando su nessun provvedimento con oggetto il catasto. Il giorno precedente il presidente del Consiglio Mario Draghi, durante l’Assemblea di Confindustria, ha ribadito che il suo governo «non ha intenzione di aumentare le tasse», senza citare la riforma del catasto, ma lasciando intendere che il riferimento fosse al dibattito di questi giorni.
In generale destra e centrodestra, tra opposizione e maggioranza di governo, sono compatti contro la riforma del catasto. Secondo la leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni, cambiare il catasto equivale a introdurre una «patrimoniale occulta sulla casa», «una tassa carissima e inaccettabile». Sulla stessa linea si sono schierati i governatori di regione leghisti e il segretario della Lega Matteo Salvini – secondo cui sarebbe «da dementi» rivedere il catasto e alzare le tasse – e anche diversi esponenti di Forza Italia, tra cui il vicepresidente Antonio Tajani.
Il leader del M5s Giuseppe Conte ha invece aperto a una riforma del catasto, che secondo lui «va digitalizzato», aggiungendo: «Nessuno pensi che si debbano aggravare le tasse per i cittadini: questo non lo possiamo accettare e io mi batterò perché non accada». Il deputato del Partito democratico Gian Mario Fragomeli, capogruppo del Pd in Commissione finanze alla Camera, ha invece attaccato il centrodestra, colpevole a detta sua di «gettare fumo negli occhi degli italiani» sulla questione delle tasse, annunciando la disponibilità del suo partito a parlare della riforma.
Anche Italia viva, per voce di Luigi Marattin, ha aperto alla riforma, difendendo la possibilità di raggiungere la parità di gettito, mentre il leader di Azione Carlo Calenda ha invitato il governo di astenersi dall’introdurre modifiche perché «è molto difficile valutarne gli effetti». Sul lato opposto c’è il segretario di Sinistra italiana Nicola Fratoianni, secondo cui la riforma «è un’esigenza decennale di questo Paese, che va nella direzione del riequilibrio progressivo».
La riforma del catasto non sembra trovare un ampio sostegno anche tra i parlamentari. A luglio scorso la Commissione Finanze del Senato ha approvato, dopo mesi di audizioni, un documento conclusivo sulla proposta di riforma del sistema tributario. Qui non si fa menzione della riforma del catasto – decisione all’epoca celebrata, tra gli altri, dal deputato della Lega Claudio Borghi – che non rientra neppure nelle riforme da approvare all’interno del “Piano nazionale di ripresa e di resilienza” (Pnrr).
Fuori dal Parlamento, nelle ultime settimane sulla riforma del catasto sono arrivate anche indicazioni dalle associazioni di categoria. Per esempio a fine agosto Confedilizia – un’associazione che rappresenta i proprietari di abitazioni – ha preso posizione sul tema. In quella data il presidente Giorgio Spaziani Testa ha infatti dichiarato a Il Sole 24 Ore che «più della riforma» servono altre «misure urgenti», per esempio gli sgravi sugli immobili inutilizzati.
“Ce lo chiede l’Europa”?
Prima di concludere, va sottolineato – come spiega nel dettaglio un dossier del Parlamento di giugno 2021 – che da tempo le principali istituzioni internazionali, dall’Ocse al Fondo monetario internazionale, hanno raccomandato all’Italia di riformare il catasto.
Questa raccomandazione si inserisce in un contesto più generale. L’invito delle organizzazioni internazionali è infatti quello ridisegnare la composizione del prelievo fiscale in Italia, senza alzare il gettito, ma spostando le imposte dal lavoro e dal capitale su consumi e patrimoni.
Su questa linea si è schierata anche l’Unione europea. Nel 2019 l’Ue ha infatti espressamente raccomandato al nostro Paese di «spostare la pressione fiscale dal lavoro, in particolare riducendo le agevolazioni fiscali e riformando i valori catastali non aggiornati». Una raccomandazione che non si è ancora concretizzata.
Ricordiamo, tra l’altro, che ormai sette anni fa la legge n. 23 dell’11 marzo 2014 aveva delegato l’allora governo Renzi a riformare il catasto, con l’obiettivo della parità di gettito e modificando, tra le altre cose, alcuni parametri per valutare le rendite catastali (per esempio, passando dai vani ai metri quadrati per le abitazioni). Quella legge delega è rimasta, salvo poche eccezioni di poco conto, inattuata.
In conclusione
Da alcune settimane la riforma del catasto è tornata di forte attualità nel dibattito politico italiano, ma le ipotesi di una sua riuscita sono piuttosto remote. Gran parte dei partiti, infatti, si è detta contraria, agitando lo spauracchio del possibile aumento delle imposte.
Ad oggi il catasto italiano è iniquo e inefficiente per una serie di motivi. Tra questi, c’è il problema che le rendite catastali non corrispondono più al valore per cui erano state pensate, ossia l’affitto che si potrebbe percepire mettendo in locazione l’immobile. In più, dalle rendite catastali si calcolano le basi imponibili per diverse imposte, come quelle sul patrimonio immobiliare.
Non è automatico che da una riforma del catasto ne derivi per forza un aumento del gettito fiscale. Il governo potrebbe infatti decidere di rimodulare le aliquote delle imposte, ma anche in quel caso potrebbe esserci una redistribuzione delle entrate tra comuni e tra singoli contribuenti.
Governo Meloni
Il “Taglia leggi” del governo Meloni non convince tutti