La vicenda di Cecilia Sala, dall’arresto alla liberazione

La giornalista italiana è tornata in Italia, dopo essere stata detenuta per venti giorni in Iran
Ansa
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Nel pomeriggio di mercoledì 8 gennaio la giornalista Cecilia Sala è atterrata all’aeroporto di Ciampino, a Roma, dopo essere stata detenuta per venti giorni in un carcere di Teheran, in Iran.  «Grazie a un intenso lavoro sui canali diplomatici e di intelligence, la nostra connazionale è stata rilasciata dalle autorità iraniane e sta rientrando in Italia», ha scritto in un nota la Presidenza del Consiglio dei ministri. 

Tra fatti, retroscena e indiscrezioni, proviamo a mettere in fila le tappe note della vicenda, che nonostante la liberazione della giornalista potrebbe ancora non essersi conclusa.

L’arresto

Cecilia Sala ha 29 anni, scrive per Il Foglio ed è l’autrice di Stories, il podcast quotidiano di Chora Media dove racconta storie dal mondo. In questi anni Sala ha lavorato in contesti difficili: per esempio ha raccontato la crisi in Venezuela e le proteste in Cile, ha scritto reportage dall’Ucraina, dall’Afghanistan e dallo stesso Iran.

Sala è arrivata a Teheran il 12 dicembre con un regolare visto giornalistico per registrare alcuni episodi del suo podcast. Sette giorni dopo, il 19 dicembre, è stata arrestata dai servizi di sicurezza dell’Iran: è stata prelevata dall’albergo in cui alloggiava e portata in una cella di isolamento nella prigione di Evin, a Nord della capitale. 

Il carcere di Teheran, dove sono detenute migliaia di persone tra dissidenti iraniani, giornalisti e cittadini stranieri, è noto per il suo sovraffollamento e le scarse condizioni igienico-sanitarie. Varie organizzazioni umanitarie, tra cui Amnesty International, hanno più volte denunciato l’uso sistematico della forza e le torture nei confronti delle persone detenute. Tra gli altri, in passato nel carcere di Evin sono state rinchiuse le giornaliste Niloufar Hamedi e Elaheh Mohammadi, arrestate a settembre 2022 e poi rilasciate all’inizio del 2024 dietro cauzione. Fino al 4 dicembre nel carcere di Evin c’era anche Narges Mohammadi, l’attivista iraniana vincitrice del premio Nobel per la Pace nel 2023. È stata fatta uscire per motivi di salute, sarebbe dovuta tornare in carcere il 25 dicembre, ma al momento non è ancora rientrata.

La notizia della detenzione di Sala è stata diffusa venerdì 27 dicembre attraverso una nota del Ministero degli Esteri. Lo stesso giorno anche Chora Media ha pubblicato un post su Instagram in cui ha spiegato che il 19 dicembre la giornalista ha improvvisamente smesso di rispondere ai messaggi. «Conoscendo Cecilia, che ha sempre mandato le registrazioni per le puntate del podcast con estrema puntualità anche dal fronte ucraino nei momenti più difficili, ci siamo preoccupati e, insieme al suo compagno, il giornalista del Post Daniele Raineri abbiamo allertato l’Unità di Crisi del Ministero degli Esteri», ha spiegato la redazione di Chora Media nel post. A Teheran Sala ha realizzato tre puntate del podcast Stories: la prima incentrata sul patriarcato, la seconda sul nuovo Medio Oriente visto dalla capitale iraniana e la terza sulla comica iraniana Zainab Musavi. Aveva il volo di ritorno per Roma prenotato per il 20 dicembre, ma come detto è stata arrestata il giorno prima.

Fin da subito si sono mobilitati i servizi di intelligence per l’estero (l’AISE, Agenzia informazioni e sicurezza esterna) e l’ambasciatrice italiana in Iran, Paola Amadei, che il 27 dicembre ha potuto far visita alla giornalista per verificare le sue condizioni di salute e lo stato di detenzione.

La notizia dell’arresto della giornalista è stata resa pubblica solo otto giorni dopo perché, come ha spiegato Chora Media, le autorità italiane e i genitori di Sala avevano chiesto di stare in silenzio nella speranza di arrivare rapidamente alla scarcerazione.

Il governo iraniano non ha mai formalizzato accuse precise contro la giornalista: il 31 dicembre il Ministero della Cultura e dell’Orientamento islamico si è limitato a far sapere che Sala «ha violato la legge della Repubblica islamica dell’Iran» e che era stata messa sotto inchiesta. Erano accuse vaghe, che hanno alimentato l’ipotesi dello scambio con Mohammad Abedini Najafabadi, un ingegnere iraniano che il 16 dicembre è stato arrestato in Italia, all’aeroporto di Malpensa.

Il ruolo di Abedini Najafabadi

Abedini Najafabadi, che ha 38 anni e la cittadinanza svizzera, è stato fermato dalle forze dell’ordine italiane su mandato di arresto degli Stati Uniti. L’ingegnere è accusato di aver fornito materiali elettronici e droni all’Iran, aggirando i divieti statunitensi, e di aver dato supporto materiale al Corpo delle Guardie della rivoluzione islamica. Il Corpo delle Guardie della rivoluzione islamica, i cui membri sono anche noti come Pasdaran, è il gruppo paramilitare a servizio della guida religiosa suprema dell’Iran istituito dopo la rivoluzione del 1979, considerato dagli Stati Uniti un’organizzazione terroristica. I Pasdaran sono accusati dagli Stati Uniti di aver attaccato con un drone una base statunitense in Giordania, uccidendo tre soldati, un’accusa smentita dall’Iran.

Abedini Najafabadi è stato fermato appena è atterrato a Milano da Istanbul e, dopo l’arresto, è stato trasferito nel carcere di Busto Arsizio. Dopo la convalida dell’arresto, è stato spostato nel carcere di Rossano Calabro, in provincia di Cosenza, per poi essere trasferito nel carcere milanese di Opera, dove si trova oggi. Gli Stati Uniti hanno chiesto la sua estradizione, ma la Corte d’Appello di Milano deve ancora decidere se accogliere o meno la richiesta. Intanto, la Procura generale di Milano si è opposta ai domiciliari, anche se la decisione ufficiale spetta, come detto, alla Corte d’Appello, che il 15 gennaio si esprimerà in un’udienza in cui Abedini Najafabadi potrebbe rilasciare dichiarazioni spontanee. Al momento comunque non sappiamo se la liberazione di Sala avrà o meno un impatto sulla detenzione di Abedini.

In questa vicenda ha un ruolo anche Mahdi Mohammad Sadeghi, cittadino iraniano-statunitense fermato sempre il 16 dicembre negli Stati Uniti. Mohammad Sadeghi, insieme ad Abedini Najafabadi, è accusato di esportazione di componenti elettronici dagli Stati Uniti all’Iran. 

Fino a pochi giorni fa, il collegamento tra le detenzioni di Sala e Abedini Najafabadi sembrava essere confermato dalla stessa ambasciata della Repubblica Islamica dell’Iran a Roma. Il 2 gennaio, dopo che Tajani ha incontrato l’ambasciatore dell’Iran Mohammad Reza Sabouri, l’ambasciata iraniana in Italia ha scritto su X che le condizioni carcerarie di Sala erano da considerare connesse a quelle di Abedini Najafabadi. Il contenuto di questo post è stato di fatto smentito il 6 gennaio dal Ministero degli Esteri iraniano: quest’ultimo ha comunicato di aver messo sotto inchiesta Sala, negando però il collegamento del caso con quello di Abedini Najafabadi. Questa versione è stata ribadita il 7 gennaio dalla portavoce del governo di Teheran, Fatemeh Mohajerani, secondo cui l’arresto di Sala non era correlato ad alcuna altra questione.

Che cosa ha fatto il governo

Il 29 dicembre sul sito del governo è stata pubblicata una nota alla stampa per far sapere che la presidente del Consiglio Giorgia Meloni stava seguendo «con costante attenzione la complessa vicenda di Cecilia Sala fin dal giorno del fermo, il 19 dicembre», e che sulla questione erano al lavoro anche il ministro degli Esteri Antonio Tajani e il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano. 

Il 2 gennaio, circa due settimane dopo l’arresto, il governo si è riunito per fare il punto della situazione. Durante la riunione, a cui hanno partecipato oltre a Meloni, Tajani e Mantovano, anche il ministro della Giustizia Carlo Nordio e il consigliere diplomatico della presidente, Fabrizio Saggio, il governo ha ribadito «l’impegno presso le autorità iraniane per l’immediata liberazione di Cecilia Sala, e, in attesa di essa, per un trattamento rispettoso della dignità umana». 

Sempre il 2 gennaio, Tajani ha convocato l’ambasciatore iraniano in Italia per chiedere la liberazione immediata della giornalista e Meloni ha avuto un colloquio telefonico con Renato Sala, padre di Cecilia, mentre ha incontrato a Palazzo Chigi la madre, Elisabetta Vernoni. «Mi auguro azioni forti da parte del nostro Paese. Non piango né chiedo scadenze. Cecilia è una ragazza di 29 anni che non ha fatto nulla di sbagliato. Non possono rovinarle la vita per sempre. È solo una giovane italiana», aveva detto Vernoni ai giornalisti al termine dell’incontro. 

Meloni da Trump

Un po’ a sorpresa, il 5 gennaio Meloni è andata in Florida per incontrare il prossimo presidente degli Stati Uniti Donald Trump nella sua residenza di Mar-A-Lago e discutere di una serie di temi, tra cui, secondo fonti stampa, quello della giornalista italiana. La stessa presidente del Consiglio ha commentato la sua visita sui social network, parlando di una «bella serata» trascorsa con Trump. Sugli esiti dell’incontro però, data la delicatezza dei temi trattati, è rimasto assoluto riserbo. Il Post ha spiegato che la visita di Meloni negli Stati Uniti sarebbe servita a «ottenere da Trump l’impegno di non polemizzare» con il presidente degli Stati Uniti Joe Biden «sulla vicenda Sala-Abedini». «Resta tuttavia da capire cosa ha garantito l’Italia all’Iran (e agli Stati Uniti) nel corso dei negoziati», ha aggiunto Il Post.

Il giorno successivo al viaggio in Florida di Meloni, il sottosegretario Mantovano ha tenuto un’audizione di due ore e mezzo al Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica (COPASIR). Quest’ultimo è l’organo parlamentare che vigila sull’operato dei servizi segreti e sulle questioni di sicurezza nazionale. Pure in questo caso il contenuto della riunione non è stato reso pubblico, ma secondo fonti stampa i parlamentari hanno chiesto spiegazioni a Mantovano riguardo le dimissioni della direttrice generale del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza (DIS) Elisabetta Belloni, rese note il 7 gennaio. 

Il DIS, che opera per conto della Presidenza del Consiglio, ha compiti di coordinamento e vigilanza sulle attività dei servizi segreti italiani. Visto il suo ruolo nei servizi, in un primo momento le dimissioni di Belloni sono state collegate alla vicenda Sala, ma l’8 gennaio l’ipotesi è stata smentita dalla stessa Belloni al Corriere della Sera. «Una cosa ci tengo a dirla ed è l’unico motivo che mi fa rompere il riserbo che mi sono imposta in tutti questi mesi: non vado via sbattendo la porta», ha detto l’ex direttrice del DIS, motivando la scelta di dimettersi qualche mese prima della naturale scadenza del suo mandato (prevista per maggio 2025) per motivi politici precedenti la carcerazione della giornalista italiana. In ogni caso, Belloni lascerà la direzione del DIS il prossimo 15 gennaio ed entro quella data Meloni dovrà nominare il suo successore.

Insomma, se la detenzione di Cecilia Sala può dirsi finalmente conclusa, la vicenda che ne ha portato l’arresto e la privazione della libertà avrà ancora delle conseguenze: vedremo nelle prossime ore o nei prossimi giorni quali saranno.

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