Come ha fatto l’Italia ad avere un debito pubblico così alto

Dopo aver toccato il picco nel 2020, ora il rapporto con il Pil è intorno al 140 per cento e rimarrà stabile per anni. Cinquant’anni fa era meno di un terzo: che cosa è successo nel mentre?
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Nei prossimi anni, fino al 2026, in Italia il rapporto tra il debito pubblico e il Prodotto interno lordo (Pil) rimarrà stabile, aggirandosi intorno al 140 per cento circa, come ha certificato la Nota di aggiornamento al documento di economia e finanza (Nadef) approvata dal governo. Tra i Paesi membri dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), solo due Paesi hanno un rapporto tra il debito pubblico e il Pil più elevato di quello italiano: il Giappone e la Grecia. Secondo i dati più aggiornati della Banca d’Italia, ad agosto scorso il debito pubblico italiano ha raggiunto un valore superiore ai 2.840 miliardi di euro.

Gli ultimi tre anni sono stati a loro modo un periodo eccezionale, caratterizzati prima dalla pandemia di Covid-19 e poi dalla guerra in Ucraina. Questi due eventi hanno entrambi richiesto lo stanziamento di ingenti risorse per far fronte all’impatto negativo sull’economia. Ma come ha fatto l’Italia ad arrivare ad avere un debito pubblico così alto? La situazione attuale è frutto di scelte iniziate ormai decenni fa.

Perché un Paese si indebita

Come prima cosa chiariamo perché uno Stato evoluto come l’Italia dovrebbe decidere di indebitarsi. Ogni anno gli Stati hanno bisogno di ingenti quantità di denaro per finanziare la loro spesa pubblica, e questo può essere fatto in vari modi: con le tasse pagate dai cittadini e dalle aziende; con le entrate relative ai profitti delle imprese pubbliche o a partecipazione statale, come l’Eni; riducendo le spese; oppure contraendo debiti sui mercati. 

Seguendo l’ultima strada, uno Stato emette sul mercato finanziario titoli di debito, promettendo a chi li compra di restituire loro i soldi, con scadenze diverse, più un tasso di interesse. Questi titoli, chiamati anche “obbligazioni”, possono essere acquistati da semplici cittadini, dalle banche e dai fondi di investimento.

Per esempio a inizio ottobre l’Italia ha emesso un particolare tipo di titolo di Stato riservato esclusivamente a singoli risparmiatori, i cosiddetti “Btp Valore” (“Btp” sta per “buono del tesoro poliennale”), che hanno permesso allo Stato di raccogliere in pochi giorni oltre 17 miliardi di euro. Questi soldi saranno restituiti con gli interessi agli investitori nel corso dei prossimi anni.

La crescita del debito negli anni Ottanta

In Italia l’evoluzione del rapporto tra il debito pubblico e il Pil si distingue in varie fasi. Partiamo dai vent’anni che vanno dal 1950 al 1970. 

Alla fine della seconda guerra mondiale lo Stato italiano necessitava di risorse per ricostruire un Paese profondamente danneggiato dal conflitto. Per questo motivo il debito pubblico era iniziato ad aumentare, ma in modo contenuto: tra il 1950 e il 1970, infatti, il rapporto tra il debito pubblico e il Pil è passato dal 31 al 38 per cento. Questo aumento contenuto del rapporto è stato dovuto in larga parte all’aumento del Pil, che in media in quel periodo cresceva di oltre il 5 per cento ogni anno. 

Un aumento consistente del rapporto tra il debito pubblico e il Pil si è verificato a partire dagli anni Settanta dopo varie tensioni internazionali, come quelle causate dalla guerra dello Yom Kippur. Nel 1973, dopo che Siria ed Egitto attaccarono Israele, l’Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio (Opec) decise di colpire gli Stati occidentali più vicini a Israele aumentando il prezzo del petrolio. In quegli anni l’economia di molti Paesi occidentali, tra cui quella dell’Italia, dipendeva molto dai prezzi bassi dell’energia: l’aumento del costo del petrolio generò una profonda crisi economica, che portò anche a un considerevole aumento dell’inflazione.

L’aumento dell’inflazione e la mancata espansione dell’attività produttiva e del Pil portarono a un periodo di stagflazione (alta inflazione, bassa crescita economica), in cui lo Stato fu spinto ad aumentare il debito per pagare la spesa pubblica, che cresceva di anno in anno. Tra il 1970 e il 1980 il rapporto tra il debito pubblico e il Pil è così cresciuto dal 38 al 55 per cento. Ma è proprio negli anni Ottanta che si è assistito all’esplosione del debito pubblico, che arrivò a sfiorare un valore pari al 100 per cento del Pil. 

Le cause di questo fenomeno furono diverse. Al netto della crescita economica, era progressivamente cresciuta la spesa pubblica italiana. Secondo alcuni esperti, un’altra causa è da ricercare nel cosiddetto “divorzio tra il Tesoro e la Banca d’Italia”, ossia nella soppressione, avvenuta nel 1981, dell’obbligo da parte della Banca d’Italia di acquistare tutti i titoli di Stato che erano stati immessi sul mercato e non erano stati venduti.

Gli anni Novanta e la moneta unica

Negli anni Novanta, dopo l’aumento del debito pubblico avvenuto nel decennio precedente, l’Italia ha dovuto portare avanti politiche economiche con l’obiettivo di ridurre il suo debito pubblico per rientrare all’interno dei parametri europei.

Questo percorso fu iniziato dai tre governi tecnici guidati da Giuliano Amato, Carlo Azeglio Ciampi, Lamberto Dini, e proseguito dai governi di centrosinistra di Romano Prodi, Massimo D’Alema e dal secondo governo guidato da Amato. In quel periodo si è assistito, tra le altre cose, alla dismissione del patrimonio italiano di imprese pubbliche e a un cambio nella politica economica lasciata più al mercato che allo Stato, con una riduzione della spesa pubblica che tornò al livello degli anni Sessanta. L’entrata nell’euro portò a un calo del rendimento dei titoli di Stato italiano (e quindi degli interessi che lo Stato doveva pagare ai creditori), dato che per i mercati l’ingresso nella moneta unica europea era un fattore di riduzione del rischio di investimento.

La fase di decrescita della spesa e del debito è proseguita negli anni Duemila con i governi di centrodestra guidati da Silvio Berlusconi. In quegli anni il rapporto tra il debito pubblico e il Pil è calato di 17 punti percentuali, come riporta un documento dell’Ufficio Parlamentare di Bilancio. Il contributo è dovuto perlopiù all’avanzo primario, cioè alla riduzione della spesa al netto degli interessi, e alla crescita nominale del Pil. Alla fine di quel periodo di consolidamento fiscale, nel 2007 il rapporto tra il debito e il Pil ammontava al 104 per cento.

La crisi economica del 2008

La fase di decrescita del debito si è interrotta nel 2008, quando l’Italia, come gli altri Paesi occidentali, ha dovuto affrontare la crisi economica nata negli Stati Uniti e poi diffusasi in tutto il mondo. In quegli anni l’Italia si trovò in una situazione complicata: sarebbe servito un massiccio intervento pubblico per evitare il crollo dell’occupazione e del Pil, ma per farlo si sarebbero dovute trovare risorse sul mercato. Ma in quel periodo gli investitori erano restii a investire sull’Italia, vista come poco affidabile e solida da un punto di vista economico.

Il governo tecnico di Mario Monti decise così di tagliare sia gli investimenti pubblici sia la spesa pubblica per beni e servizi, aumentando la pressione fiscale per imprese e lavoratori. Secondo i critici, quelle decisioni contribuirono a una contrazione del Pil e successivamente all’aumento delle spese per supportare chi era rimasto colpito dalla crisi. Questa dinamica comportò un nuovo aumento del rapporto tra il debito pubblico e il Pil, che tra il 2008 e il 2014 è aumentato dal 106 al 135 per cento.

L’intervento della Bce

A dare ossigeno alle finanze italiane fu invece il cambio alla presidenza della Banca centrale europea (Bce), con l’approdo di Mario Draghi, nominato presidente nel 2011. Sotto la presidenza di Draghi è stato avviato il cosiddetto quantitative easing: come già avevano fatto altre banche centrali, la Bce iniziò ad acquistare titoli di debito degli Stati membri sul mercato secondario, cioè dalle banche che avevano partecipato alle aste. Questo ha permesso al debito italiano di stabilizzarsi tra il 134 e il 135 per cento. 

Poi è arrivata la pandemia. Poiché le misure di contenimento necessarie per interrompere la catena di contagio hanno imposto una riduzione dell’attività economica, gli Stati sono dovuti ricorrere a maggiore debito: quello italiano ha toccato il 155 per cento nel 2020, calando poi al 144 per cento nei due anni successivi. 

Come anticipato, nell’ultima Nadef il governo Meloni ha previsto che tra il 2023 e il 2026 il rapporto tra il debito pubblico e il Pil resterà di fatto stabile, calando di pochi decimi di punto percentuale.

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