Davvero “più privato è, meglio è”?

Lo sostiene il vicepresidente del Consiglio Tajani, ma le grandi privatizzazioni del passato offrono un quadro più sfaccettato di quello descritto dal ministro
ANSA/RICCARDO ANTIMIANI
ANSA/RICCARDO ANTIMIANI
Lunedì 25 settembre, in un’intervista con il Corriere della Sera, il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha riproposto l’idea di un piano di privatizzazioni per aumentare le entrate nelle casse dello Stato. Secondo Tajani «i grandi risparmi necessitano grandi piani», tra cui per l’appunto le «privatizzazioni». Un’idea simile era stata avanzata dal ministro alcune settimane fa in un’intervista con La Stampa, in cui Tajani ha proposto un piano di privatizzazioni e liberalizzazioni di alcuni servizi sulla falsariga di quanto successo in Italia negli anni Novanta. 

Tra i servizi oggi di competenza dello Stato che secondo il ministro andrebbero privatizzati ci sono in primo luogo i porti, ma anche il trasporto pubblico locale e la gestione dei rifiuti. «Ormai lo Stato ha poche risorse», aveva detto detto Tajani a La Stampa. «Una gestione privata aumenterebbe l’efficienza, attirerebbe gli investitori e farebbe risparmiare soldi al settore pubblico». 

In realtà oltre a Tajani, che ha sintetizzato l’idea sua e del suo partito con la frase: «Più privato è, meglio è», diversi politici e commentatori si lamentano da anni per un’eccessiva presenza dello Stato nell’economia, auspicando un maggiore intervento degli investitori privati. Ma privatizzare conviene davvero? I numerosi studi sul tema offrono un quadro parecchio sfaccettato.

Dalla teoria alla pratica

Innanzitutto è necessario fare chiarezza su che cosa vuol dire “privatizzare” e “liberalizzare” un’azienda o un servizio. Spesso infatti, anche nel dibattito pubblico, i due termini sono utilizzati in maniera intercambiabile, nonostante questo non sia formalmente corretto. Con “privatizzazione” si intende il passaggio della proprietà di una determinata azienda dallo Stato al privato, mentre con “liberalizzazione” si intende il processo per aumentare la concorrenza davanti a una situazione di monopolio. Questi processi sono strettamente collegati: le rendite di monopolio derivano, in certi casi, dalla presenza di imprese pubbliche che erogano il servizio o producono un determinato bene. 

I due termini sono emersi all’interno del dibattito pubblico tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta. Gli anni precedenti invece, fin dall’Ottocento, sono stati caratterizzati da pesanti interventi degli Stati nelle economie interne. L’intervento statale è andato poi aumentando in tutti gli Stati occidentali a partire dalla crisi economica iniziata negli Stati Uniti nel 1929, e ancora di più dopo la seconda guerra mondiale.

Negli anni Settanta questo modello è però entrato in crisi sia a livello teorico sia a livello pratico.

Le grandi liberalizzazioni

Le cose cambiarono a livello politico, prima negli Stati Uniti e nel Regno Unito, rispettivamente con il presidente Ronald Reagan e la prima ministra Margaret Thatcher, e poi nel resto del mondo occidentale. L’idea predominante era che lo Stato non dovesse più intervenire direttamente nell’economia, ma limitarsi a far funzionare correttamente il mercato: le privatizzazioni e le liberalizzazioni erano considerati gli strumenti giusti per farlo. 

L’esempio più positivo di liberalizzazione è stato quello del mercato aereo: sviluppatosi in varie regioni del mondo, ha portato a una maggior connessione, a una maggior frequenza di voli e a costi minori per gli utenti. Questi risultati non possono però essere generalizzati a tutti gli altri settori e non permettono di sostenere che liberalizzazioni e privatizzazioni siano sempre efficienti. Il professore emerito della Cranfield School of Management David Parker, esperto in materia, ha indagato gli effetti delle privatizzazioni avvenute nel Regno Unito, sottolineando come lo slogan “più privato è, meglio è” non abbia sempre superato la prova dei fatti. In particolare lo studioso inglese ha evidenziato che nel Regno Unito non si è verificato l’assunto secondo cui le aziende private soffrirebbero di una minor influenza politica rispetto a quelle pubbliche. 

Un caso emblematico e piuttosto recente di liberalizzazioni e privatizzazioni è quello avvenuto in Russia. A partire dal 1991, dopo la fine dell’esperienza comunista, l’allora presidente Boris Yeltsin diede il via a un programma radicale di liberalizzazioni e privatizzazioni, chiamato già allora shock therapy. L’intento era modernizzare l’economia sovietica, un tempo centralizzata in mano pubblica, rendendola più simile a quelle occidentali il più velocemente possibile, inducendo una sorta di shock nell’economia per rivitalizzarla con privatizzazioni e liberalizzazioni. Il risultato non fu quello sperato, con l’iperinflazione, la nascita dei cosiddetti oligarchi che hanno fatto fortuna con le ex imprese pubbliche, e l’aumento del coefficiente di Gini, un indicatore usato per misurare le disuguaglianze. 

Il caso cinese è invece opposto a quello russo. Sul finire degli anni Settanta il leader della Repubblica Popolare Cinese Deng Xiaoping varò un programma che mirava a iniettare nel sistema comunista cinese elementi capitalistici. A differenza della shock therapy il programma di apertura cinese fu molto più graduale e ha garantito un progressivo passaggio da un sistema di economia pianificata a quello che va sotto il nome di “socialismo con caratteristiche cinesi”.

Il caso italiano

Anche l’Italia rappresenta un caso emblematico. Nel secondo dopoguerra, per rilanciare l’economia italiana, si decise di fare affidamento all’Istituto per la ricostruzione industriale (IRI), fondato dal governo Mussolini. In breve l’IRI era un ente pubblico che controllava buona parte dell’economia italiana, dal settore bancario e finanziario fino a quello siderurgico. Negli anni della ripresa postbellica svolse un ruolo fondamentale nello sviluppo economico delle regioni meridionali e nell’ampliamento della rete autostradale. Durante gli anni del cosiddetto “boom economico”, l’interventismo statale nell’economia italiana ebbe risultati considerevoli, che portarono il nostro Paese tra le prime potenze industriali a livello europeo e mondiale. 

A partire dagli anni Settanta gli ingenti debiti accumulati e il maggior peso della politica sulle scelte economiche mandarono in crisi il modello dell’IRI. Negli anni Novanta si decise quindi di procedere a un programma di privatizzazioni, avviato dal settimo governo Andreotti nel 1991, che ha permesso agli enti pubblici di essere trasformati in società per azioni. Uno dei principali artefici di questa fase di privatizzazioni è stato l’ex presidente del Consiglio Mario Draghi, all’epoca dirigente generale del Tesoro, un dipartimento interno al Ministero dell’Economia e delle Finanze con compiti di analisi e programmazione delle politiche economiche. Risale infatti a questo periodo l’ormai celebre episodio del “Britannia”, lo yacht di proprietà della famiglia reale inglese su cui lo stesso Draghi si recò nel giugno 1992 per annunciare a un gruppo di investitori internazionali l’intenzione del governo italiano di privatizzare una serie di imprese statali. Tra gli obiettivi di questo piano c’era la creazione di un mercato nuovo, più in mano ai privati che allo Stato, e l’utilizzo dei proventi delle privatizzazioni per diminuire il debito pubblico.

Un giudizio complicato

A più di 30 anni da quell’episodio, qual è il giudizio su questa fase della politica italiana? È vero, tornando alla frase di Tajani, che per il nostro Paese “più privato è, meglio è”? Non è possibile dare un giudizio definitivo sulla questione, che interessa aspetti molto complessi e necessita di un dibattito approfondito, difficilmente riassumibile in un semplice slogan. 

Ma secondo un rapporto della Corte dei Conti, pubblicato a febbraio 2010, la stagione delle privatizzazioni ha avuto risultati controversi. Secondo la Corte, i piani di privatizzazione attuati a partire dagli anni Novanta hanno avuto infatti effetti positivi dal punto di vista finanziario, riducendo per esempio il rapporto tra il debito pubblico e il Prodotto interno lordo (Pil). Allo stesso tempo, però, i servizi privatizzati non hanno portato sempre a costi minori per i cittadini. Anzi, nel rapporto si legge che alcune imprese hanno utilizzato strategicamente i loro debiti per rafforzare «il proprio potere negoziale nei confronti di un regolatore che può aver concesso incrementi tariffari nell’intento di contenere i maggiori rischi di insolvenza». Sul piano produttivo quella stagione non ha fatto poi nascere un florido sistema industriale privato, un problema che secondo l’economista Ugo Pagano affligge il nostro Paese ancora oggi. 

I casi trattati mostrano quindi come privatizzazioni e liberalizzazioni non siano necessariamente un bene in sé, ma che serve un dibattito più approfondito e di natura tecnica sul tema. Nonostante il rinnovato interesse per i rapporti tra Stato e mercato nel corso degli ultimi anni, non ci sono al momento studi definitivi sulla strategia corretta per gestirlo.

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