Immigrazione: perché i meccanismi legali non funzionano

Tra passaporti, visti e garanzie economiche, le norme attualmente in vigore prevedono requisiti stringenti per entrare regolarmente nel nostro Paese
ANSA/MASSIMO PICA
ANSA/MASSIMO PICA
Nelle ultime settimane il dibattito politico in Italia si è concentrato sull’immigrazione, dopo il naufragio di Cutro (Crotone) del 26 febbraio e il successivo decreto-legge approvato dal governo Meloni il 9 marzo durante un Consiglio dei ministri tenutosi proprio in Calabria. 

La linea del governo per rispondere all’emergenza ed evitare ulteriori naufragi (il 12 marzo un barcone si è ribaltato in acque libiche causando 30 dispersi) sembra essere quella di inasprire le pene per i reati collegati all’immigrazione irregolare e «favorire l’immigrazione regolare», come ha dichiarato di recente il ministro degli Esteri Antonio Tajani (Forza Italia).

Ma cosa si intende di preciso per “immigrato regolare” e, soprattutto, come può oggi una persona straniera trasferirsi in Italia senza infrangere la legge? Abbiamo fatto un po’ di chiarezza.

Come arrivare in Italia legalmente

Le regole per entrare legalmente in Italia sono contenute nel “Testo unico sull’immigrazione” entrato in vigore nel 1998 e poi modificato più volte, come nel 2002, con la cosiddetta “legge Bossi-Fini”. Un testo unico è un atto che raccoglie le norme in vigore su una materia specifica, per armonizzarle e renderne più semplice l’applicazione. 

In base alle norme sull’immigrazione, un migrante straniero proveniente da un Paese extra-Ue può entrare legalmente in Italia se ha il passaporto o un altro documento di viaggio e il visto di ingresso. 

Il visto è un documento che autorizza il migrante a entrare nel Paese di destinazione, deve essere richiesto dal migrante all’ambasciata o ai consolati italiani nel proprio Paese di origine e certifica il motivo dell’ingresso in Italia. «In generale esistono due tipi di visto, quello di breve durata, che consente una permanenza in Italia per al massimo tre mesi, per esempio per turismo, oppure di lunga durata, di durata superiore ai tre mesi, per esempio per lavoro o ricongiungimento familiare», ha spiegato a Pagella Politica l’avvocato Francesco Mason, membro dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi). 

Per ottenere il visto i migranti che entrano in Italia devono dare garanzie, come per esempio la dimostrazione di essere autonomi dal punto di vista economico. «Al momento le autorità italiane non concedono invece visti umanitari, cioè visti per persone che vogliono entrare in Italia per fuggire da guerre e persecuzioni, e per chiedere la protezione internazionale», ha aggiunto Mason. Se riconosciuta, la protezione internazionale attribuisce una serie di diritti al migrante, tra cui il permesso di soggiorno nel nostro Paese, e deve per forza essere richiesta al momento dell’arrivo in Italia, o alla polizia di frontiera oppure in una questura.

I visti umanitari sono procedure di ingresso protette che sono regolate a livello europeo dal “Codice comunitario dei visti”. Quest’ultimo prevede la possibilità per gli Stati membri dell’Ue di rilasciare visti per motivi umanitari con validità territoriale limitata, ossia per il solo Paese che li rilascia. Nel 2017 una sentenza della Corte di Giustizia europea ha chiarito che il Codice comunitario dei visti stabilisce solo le procedure e i requisiti per il rilascio dei visti umanitari, e ogni Stato ha possibilità di scegliere se effettivamente concederli o meno. 

La scelta delle autorità italiane di non concedere visti umanitari al di fuori degli accordi con le associazioni umanitarie ha creato però alcuni problemi. Per esempio, lo scorso 14 gennaio il tribunale di Roma ha imposto al Ministero degli Esteri il rilascio di visti umanitari a due giornalisti afghani in pericolo nel loro Paese. Dopo un primo ricorso da parte dei dei due giornalisti, il Ministero degli Esteri aveva negato ai due cittadini afghani il visto umanitario, proponendo di inserirli nel corridoio umanitario siglato il 4 novembre scorso con diverse associazioni e rivolto a 1.200 profughi, pretendendo la documentazione che comprova l’esistenza di un percorso di accoglienza per i due giornalisti.

Al di là di questo caso, un cittadino extracomunitario ha due alternative: provare a entrare in Italia con visti di altro genere, come quelli per turismo o per lavoro, oppure entrare in uno dei cosiddetti “corridoi umanitari”. La prima delle due alternative è complessa, perché per ottenere un visto turistico uno straniero dovrebbe presentare una serie di documenti che provano non solo il suo essere turista ma anche la sua situazione economica. Per esempio, un cittadino afghano potrebbe provare a entrare regolarmente in Italia dichiarando di venire per turismo. Per ottenere il visto turistico questa persona dovrebbe però presentare [1] i biglietti dei mezzi di trasporto utilizzati sia per il viaggio di andata che per quello di ritorno, una documentazione giustificativa della propria condizione socio-professionale, un’assicurazione sanitaria avente una copertura minima di 30 mila euro per le spese di ricovero ospedaliero d’urgenza e le spese di rimpatrio, e la disponibilità di un alloggio in Italia, per esempio la prenotazione di un albergo. 

Un’alternativa potrebbe essere quella di ottenere un visto per ricongiungimento familiare, ossia per venire in Italia ad abitare insieme a un parente già presente nel nostro Paese, oppure entrare con un visto per soggiorno di lavoro. 

Il ricongiungimento familiare richiede però una serie di requisiti stringenti. Innanzitutto, si possono ricongiungere i coniugi, ossia marito e moglie, i figli e i genitori, ma non i fratelli, i cugini e gli zii. La pratica di ricongiungimento inizia in Italia, con il familiare interessato che deve fare richiesta di ricongiungimento allo Sportello unico per l’immigrazione del Ministero dell’Interno, e deve dimostrare una serie di requisiti, sia per quanto riguarda il reddito che la grandezza della propria abitazione. Una volta ricevuta la domanda, lo Sportello unico per l’immigrazione ha sei mesi di tempo per accettare la domanda e inviarla al consolato italiano nel Paese di provenienza del migrante, che ha il compito di rilasciare il visto. Lo stesso discorso vale per chi viene in Italia per lavoro, con l’unica differenza che in questo caso è il datore di lavoro, e non un familiare, a fare la richiesta di accesso per un migrante allo Sportello unico per l’immigrazione.

I decreti “Flussi”

Per quanto riguarda i soggiorni per lavoro, l’arrivo in Italia di migranti è regolato dal governo sulla base di quote di ingresso annuali. In altre parole, il governo ogni anno stabilisce con un decreto del presidente del Consiglio dei ministri (Dpcm), il cosiddetto “Decreto flussi”, il numero totale di stranieri che possono entrare legalmente in Italia per motivi di lavoro. Per esempio, l’ultimo decreto “Flussi” approvato dal governo Meloni a gennaio 2023 ha stabilito che i migranti che potranno entrare quest’anno in Italia per lavoro potranno essere al massimo 82.705. 

Il 9 marzo il governo Meloni ha programmato che i prossimi decreti “Flussi” avranno valenza di tre anni. «La decisione del governo non cambia molto la situazione attuale, l’effetto principale è solo quello di spalmare le quote previste oggi in un anno nell’arco di tre anni», ha commentato Mason. Tra l’altro, il testo unico sull’immigrazione prevede già che il governo ogni tre anni pubblichi un documento programmatico che preveda le quote di ingressi per il triennio successivo. Ma l’ultimo documento programmatico pubblicato dal governo risale al triennio 2004-2006 e negli ultimi dieci anni la programmazione dei flussi è avvenuta solo attraverso i decreti “Flussi”. 

Nel testo dell’ultimo decreto “Flussi” viene specificato che gli oltre 82 mila ingressi previsti per il 2023 sono ripartiti in 44 mila lavoratori stagionali e 38.705 non stagionali. Tra questi ultimi, però, oltre 24 mila migranti (più del 60 per cento) devono arrivare da una lista di 33 Paesi, molti dei quali non hanno nulla a che vedere con l’attuale emergenza, come per esempio l’Albania, la Corea del Sud, il Giappone, il Montenegro e la Serbia. Gli ingressi previsti dal decreto per i lavoratori non stagionali provenienti da Paesi con cui l’Italia ha stabilito accordi di cooperazione in materia migratoria sono invece seimila.

«Il problema è che per far entrare un lavoratore in Italia occorre che un datore di lavoro effettui una specifica richiesta di assunzione, depositando allo Sportello unico per l’immigrazione la domanda con i dati anagrafici dell’immigrato da assumere», ha spiegato l’avvocato Mason. «Ma quale datore di lavoro assumerebbe al buio persone che non conosce, non ha mai visto e che vivono all’estero? In realtà, spesso il lavoratore da assumere si trova già in Italia da irregolare, e dopo aver ottenuto l’inserimento della sua pratica torna nel Paese d’origine, chiede il visto e rientra in Italia da migrante regolare». In questo senso il decreto “Flussi” non sarebbe altro che «una regolarizzazione mascherata» di migranti irregolari già presenti nel nostro Paese.

I problemi per chi fugge 

«Il problema dei migranti che fuggono da guerre e persecuzioni è legato al fatto che spesso queste persone non hanno i requisiti per ottenere i visti previsti al momento dalla legge italiana, e dunque la loro unica alternativa è quella di arrivare da irregolari», ha spiegato l’avvocato Mason. 

Qualsiasi migrante che entra in in Italia senza il visto, sia che arrivi via terra, sia che arrivi via mare, rischia una sanzione da 5 a 10 mila euro e l’espulsione dal Paese. Questo non toglie comunque la possibilità per i migranti irregolari di fare domanda di protezione internazionale, ma questi ultimi devono essere raccolti nei Centri di permanenza per i rimpatri (Cpr), in attesa di eventuale espulsione. Negli ultimi giorni il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano ha aperto alla possibilità di rivedere le norme sull’immigrazione regolare nel nostro Paese, ma al momento non è chiaro come il governo abbia intenzione di modificare la normativa.   

Al momento la via legale attraverso cui i migranti che fuggono da guerre e persecuzioni possono arrivare in Italia sono i cosiddetti “corridoi umanitari”. I corridoi umanitari sono un programma di trasferimento e integrazione in Italia per persone in condizione di particolare vulnerabilità: donne sole con bambini, vittime del traffico di esseri umani, anziani, persone con disabilità o con patologie. I corridoi umanitari sono frutto di singole intese tra il ministero degli Esteri, quello dell’Interno e associazioni umanitarie come la Caritas italiana, la Comunità di Sant’Egidio, la Federazione delle Chiese Evangeliche e la Tavola Valdese. Queste associazioni hanno il compito di stilare la lista dei possibili beneficiari dei corridoi umanitari, individuando i casi più bisognosi di tutela, e la inviano al Ministero dell’Interno che la verifica. Una volta fatti i controlli, le autorità italiane concedono il visto alle persone selezionate che possono dunque entrare in Italia e vengono accolte dalle stesse associazioni che le hanno selezionate. Le associazioni assistono i migranti nei primi mesi della loro permanenza in Italia e nelle pratiche per la richiesta di protezione internazionale. 

«I corridoi umanitari sono un’ottima pratica di integrazione e di ingresso regolare in Italia, ma è un sistema che coinvolge ancora pochissimi dei migranti che fuggono da aree di crisi e non possono dunque essere la soluzione», ha spiegato l’avvocato Mason a Pagella Politica. Secondo i dati più aggiornati pubblicati dalla Comunità di Sant’Egidio, da febbraio 2016 a gennaio 2022 i migranti arrivati in Italia attraverso corridoi umanitari sono stati poco più di 3.600, circa 600 all’anno. In termini di confronto quest’anno, dal 1° gennaio al 10 marzo 2023, sono sbarcati sulle coste italiane quasi 17.600 migranti in poco più di due mesi.

[1] Per verificare i requisiti di accesso inserire nel campo nazionalità “Afghanistan”, nel campo residenza “Afghanistan”, in durata del soggiorno “fino a 90 giorni” e in motivo del soggiorno “turismo”.

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