Promuovere l’astensionismo è illegale?

Un esponente del governo può invitare a non votare ai referendum? Abbiamo analizzato che cosa dicono la Costituzione e le leggi
ANSA/MASSIMO PERCOSSI
ANSA/MASSIMO PERCOSSI
Vari esponenti del governo Meloni e dei partiti che lo sostengono hanno invitato gli elettori a non partecipare ai referendum su cittadinanza e lavoro, previsti per l’8 e il 9 giugno. Per esempio, il vicepresidente del Consiglio Antonio Tajani (Forza Italia) ha dichiarato che è legittimo non andare a votare. A sostegno della sua posizione, il ministro degli Esteri ha rilanciato su X una dichiarazione rilasciata nel 2016 dall’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, in un’intervista a la Repubblica prima del referendum abrogativo sulle trivelle. Alla domanda: “È legittimo invitare all’astensione?”, Napolitano aveva risposto: «Se la Costituzione prevede che la non partecipazione della maggioranza degli aventi diritto è causa di nullità, non andare a votare è un modo di esprimersi sull’inconsistenza dell’iniziativa referendaria».

Diversi esponenti delle opposizioni e i promotori dei referendum hanno criticato l’invito all’astensione. In generale, a ogni tornata elettorale si ripropone la tesi secondo cui chi ricopre incarichi pubblici – come un ministro – non dovrebbe invitare al “non-voto”. Ma è davvero così? Oppure, secondo la legge, l’invito a disertare le urne fatto da chi ricopre cariche pubbliche è lecito? Cerchiamo di fare chiarezza.

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L’astensione dai referendum

Secondo l’articolo 75, quarto comma, della Costituzione, i risultati di un referendum abrogativo sono validi solo se si raggiunge il quorum, ossia «se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto» (in altre parole, il 50 per cento più uno degli aventi diritto). Durante la scrittura della Costituzione, l’Assemblea costituente decise di introdurre il quorum solo per i referendum abrogativi (per quelli costituzionali non è previsto), per impedire che una minoranza degli elettori potesse eliminare una legge votata dalla maggioranza dei cittadini rappresentati in Parlamento.

Tra il 1974 e il 1995, nelle prime nove tornate elettorali in cui si sono votati referendum abrogativi, il quorum è sempre stato raggiunto, tranne in un’occasione, nel 1990, quando si votò su tre quesiti. L’affluenza più alta si registrò proprio al primo referendum abrogativo, quello sul divorzio, tenutosi nel 1974. Nel tempo, l’affluenza ai referendum – e più in generale, alle elezioni – ha mostrato un calo progressivo. Nelle ultime nove tornate referendarie, il quorum è stato raggiunto solo nel 2011, per i referendum sull’acqua pubblica, il nucleare e il legittimo impedimento. Nei casi in cui il quorum non è stato raggiunto, l’astensione potrebbe aver contribuito al fallimento del referendum.

Tra voto e “non-voto”

Prima di stabilire se l’invito all’astensione sia legittimo, bisogna chiedersi se lo sia non votare. L’articolo 48, secondo comma, della Costituzione stabilisce che il voto è un «dovere civico». Questa disposizione è il frutto di un compromesso raggiunto nell’Assemblea costituente, tra chi voleva l’obbligatorietà del voto – con relativa sanzione per chi si astiene – e chi era contrario. 

Qualche dubbio sulla natura giuridica dell’obbligo è rimasto fino al 1993, quando sono state abrogate due norme contenute in due articoli del “Testo unico sulle leggi elettorali” (il decreto del presidente della Repubblica n. 361 del 1957). In origine, l’articolo 4 del Testo unico stabiliva che «l’esercizio del voto è un obbligo al quale nessun cittadino può sottrarsi senza venir meno a un suo preciso dovere verso il Paese». L’articolo 115 puniva con una sanzione, sebbene modesta, il mancato esercizio del voto senza un giustificato motivo. Ora, nella sua versione attuale, l’articolo 4 si limita a proclamare – in conformità all’articolo 48 della Costituzione – che «il voto è un dovere civico e un diritto di tutti i cittadini, il cui libero esercizio deve essere garantito e promosso dalla Repubblica». Quindi, votare è un dovere civico, ma non un obbligo giuridico, cioè non vincolante e sanzionabile. Pertanto, non votare è lecito.

Alcuni sostengono che il «dovere civico» di votare, di cui all’articolo 48 della Costituzione, si applichi solo agli organi elettivi, come il Parlamento, perché altrimenti si comprometterebbe la democrazia rappresentativa. Come ha scritto la Corte Costituzionale nel 1968, in realtà la disposizione contenuta nell’articolo 48 della Costituzione ha «carattere universale» e va osservata in ogni caso in cui il diritto di voto debba essere esercitato, senza alcuna distinzione tra consultazioni politiche e referendarie.

Detto ciò, la legge non contempla l’astensione e come un’alternativa rispetto al voto o al “non-voto”. La normativa che regola i referendum abrogativi stabilisce solo cosa succede se prevalgono i Sì (l’abrogazione della legge) o i No (bisogna aspettare cinque anni per riproporre lo stesso referendum). Dunque, siccome la legge non prevede l’astensione, da un punto di vista giuridico essa non è equiparabile al voto contrario, nonostante in concreto produca lo stesso risultato. Si può aggiungere che, anche sul piano di fatto, equiparare il “non-voto” al voto negativo non è corretto: chi lo fa arruola forzatamente nelle fila del No anche coloro i quali non sono andati alle urne per disinteresse o pigrizia, e non invece per dare un messaggio politico sulla consultazione referendaria.

La non assimilabilità tra il voto “No” e l’astensione è confermata dal fatto che nel 2000 l’Ufficio centrale per il referendum della Corte di Cassazione e la Corte Costituzionale avevano ritenuto legittima la riproposizione del quesito contro la quota proporzionale dell’allora legge elettorale della Camera, che l’anno precedente non aveva raggiunto il quorum. Questo non sarebbe stato possibile se la legge avesse equiparato l’astensione al voto contrario.

Secondo altri ancora, il raggiungimento del quorum come presupposto per rendere validi i risultati di un referendum abrogativo legittimerebbe l’uso dell’astensione per contrastare l’iniziativa referendaria. Di fatto, questo è quello che accade, anche se – come ha spiegato nel 2005 l’allora professore di Diritto costituzionale all’Università di Bologna Andrea Morrone – l’obiettivo del quorum non è quello di attribuire un vero e proprio diritto all’astensione, bensì quello di evitare che una ridotta minoranza possa decidere anche per la maggioranza. 

Ribadiamo, quindi, che l’opzione del “non-voto” è legittima, ma l’invito a non votare è altrettanto legittimo?

L’invito all’astensione

Così come è legittima l’astensione dal voto, è altrettanto lecito l’invito pubblico a non votare, poiché rientra nella più ampia libertà di manifestazione del pensiero garantita dalla Costituzione. L’articolo 21 stabilisce che «tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione».

Questa libertà trova un limite nell’articolo 98 del già citato “Testo unico sulle leggi elettorali”, che riportiamo integralmente: «Il pubblico ufficiale, l’incaricato di un pubblico servizio, l’esercente di un servizio di pubblica necessità, il ministro di qualsiasi culto, chiunque investito di un pubblico potere o funzione civile o militare, abusando delle proprie attribuzioni e nell’esercizio di esse, si adopera a costringere gli elettori a firmare una dichiarazione di presentazione di candidati o a vincolare i suffragi degli elettori a favore od in pregiudizio di determinate liste o di determinati candidati o a indurli all’astensione, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da lire 600.000 a lire 4.000.000» (corsivi nostri). L’astensione al voto di cui parla questo articolo vale anche per i referendum abrogativi.

Ma che cosa significa «indurre all’astensione» mediante «abuso delle proprie attribuzioni e nell’esercizio di esse»? Facciamo qualche esempio per capirlo meglio. Induce all’astensione, abusando dei propri poteri, un sindaco che adotta una specifica ordinanza per ostacolare l’accesso alle urne ai suoi concittadini o non fa installare i seggi; un pubblico ufficiale che manomette i registri elettorali o che promette a determinate persone alcuni benefici in cambio del loro impegno a non votare; un sacerdote che condiziona la somministrazione di un sacramento al fatto che chi lo vuole ricevere non vada a votare. 

Da questi esempi si capisce che un conto è la propaganda per l’astensionismo come manifestazione di opinione, un altro conto è un’azione organizzata volontariamente per forzare il libero convincimento dell’elettore. 

Dunque, i titolari di una carica pubblica – come il ministro Tajani – che dichiarano di non voler votare a un referendum, o che si augurano il suo fallimento, o ancora che invitano ad astenersi dal voto, non abusano del loro potere violando la libertà di voto degli elettori. E così non commettono il reato previsto dall’articolo 98 del “Testo unico sulle leggi elettorali”. I titolari di una carica pubblica sono liberi di promuovere una determinata scelta politica e di chiedere a chiunque di seguirla, perché questo significa esprimere un’opinione politica, come tale insindacabile.

Nonostante questo, secondo alcuni, i titolari di cariche pubbliche ed esponenti delle istituzioni sarebbero tenuti comunque a un dovere di correttezza costituzionale che suggerirebbe loro di non invitare all’astensione. Vent’anni fa, in un’intervista con il manifesto, il costituzionalista Gaetano Silvestri aveva detto che è «lecito» astenersi, aggiungendo però che bisognava distinguere «tra l’esercizio e l’invito all’astensione», che secondo Silvestri è una «scorrettezza», in quanto «un incitamento a non far funzionare correttamente un istituto di democrazia diretta», qual è il referendum. «E poi non partecipare è segno di indifferenza, e l’appello all’indifferenza è proprio una contraddizione in termini», aveva dichiarato Silvestri. 

Peraltro, si potrebbe sostenere che in un Paese con un tasso di astensionismo sempre più alto, le istituzioni dovrebbero fare di tutto per incentivare il voto. E a ciò potrebbe aggiungersi che, in base alle norme sopra richiamate, la volontà della maggioranza dovrebbe formarsi nel procedimento deliberativo, e non al di fuori di esso, pur essendo pienamente lecita la scelta del “non-voto”.
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