Che cos’è questa operazione “bresaola” di Lollobrigida per fermare la guerra dei dazi

Il ministro vuole importare carne dagli Stati Uniti per fare il salume ed esportarlo. È un piano realizzabile? O contraddice le politiche del governo?
ANSA / CESARE ABBATE
ANSA / CESARE ABBATE
Nei giorni scorsi è nato un piccolo caso, arrivato fino in Parlamento, su una proposta avanzata dal ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida per convincere gli Stati Uniti a non introdurre nuovi dazi sui prodotti italiani, grazie a un salume: la bresaola.

Secondo Lollobrigida, l’Italia dovrebbe aumentare le importazioni di carne dagli Stati Uniti, usarla per produrre bresaola e poi riesportare il salume verso gli stessi Stati Uniti. Questa strategia, a detta del ministro, porterebbe benefici a entrambi i Paesi. 

Ma è realizzabile? In teoria sì, ma deve superare alcuni ostacoli, con il rischio di entrare in contrasto con i princìpi delle politiche promosse dallo stesso Lollobrigida e dal governo, in particolare sulla tutela del Made in Italy.

Come nasce l’operazione “bresaola”

Come prima cosa, ripercorriamo passo per passo come è nata l’idea di usare la bresaola come leva negoziale con gli Stati Uniti.

Il 5 luglio, intervenendo all’evento “Forum in Masseria”, Lollobrigida ha criticato chi suggerisce di spostare le esportazioni dirette agli Stati Uniti verso altri mercati. «A noi serve vendere di più negli Stati Uniti», ha affermato il ministro, sottolineando anche la necessità di consentire agli Stati Uniti «di importare di più in Italia», visto che le esportazioni statunitensi nel settore agroalimentare sono inferiori rispetto a quelle italiane. «Questo sbilanciamento li mette in sofferenza e li induce a ricorrere a una scelta tariffaria che non condividiamo, ma che comprendiamo se analizzata in un quadro sistemico che vede uno svantaggio per le imprese statunitensi», ha aggiunto Lollobrigida, riferendosi al dibattito sui dazi.

«Noi non possiamo accettare carne ormonata dagli Stati Uniti», ha chiarito il ministro, riferendosi alla carne proveniente da animali trattati con ormoni della crescita. «Ma ci sono delle importazioni vincolate: significa che se importi carne per fare prosciutti che vanno negli Stati Uniti, alcuni accordi vincolati permettono di operare in questo senso». Lollobrigida ha così suggerito che l’Italia potrebbe aumentare le importazioni di carne statunitense per produrre bresaola da esportare negli Stati Uniti. Secondo il ministro, oggi l’Italia importa già «il 90 per cento di carne per fare bresaola» da altri Paesi.
Dopo alcuni commenti ironici apparsi sulla stampa, l’8 luglio Lollobrigida è tornato sull’argomento, a margine dell’assemblea di Confagricoltura a Milano, accusando di «ignoranza» chi ha criticato una proposta suggeritagli «dal mondo agricolo e dal mondo della trasformazione» della carne. «Noi oggi non esportiamo bresaola negli Stati Uniti: per avere una strategia win-win significa che tu puoi chiedere di aprirti un mercato che oggi non c’è, e avvantaggiare i nostri imprenditori, e farlo magari andando incontro alla loro esigenza di export», ha spiegato. «Quindi, questa proposta può essere una delle ipotesi per bilanciare il rapporto tra la nostra esportazione oggi molto più importante rispetto a quella proveniente dagli Stati Uniti, e convincerli in questo modo che invece le politiche tariffarie non avvantaggiano né noi né loro».

Lo stesso giorno, in un post su Facebook, Lollobrigida ha precisato che la bresaola non può essere esportata negli Stati Uniti «a causa delle criticità derivanti dalla questione BSE», una sigla che sta per “encefalopatia spongiforme bovina”, meglio noto come morbo della mucca pazza. Il ministro ha rilanciato la sua proposta, sostenendo che in questo modo «si avrebbe potenzialmente una crescita dell’export di bresaola per noi e di carne per i produttori statunitensi». «Il meccanismo non permetterebbe di usare quel prodotto per il mercato Ue o italiano, non arrecando alcun danno né economico né di altra natura», ha concluso.

Il 9 luglio, infine, Lollobrigida ha risposto alla Camera a un’interrogazione della deputata di Italia Viva Elena Boschi, che chiedeva al governo quali misure intendesse adottare per difendere il settore agroalimentare dai dazi, oltre all’«operazione bresaola». «Nel merito del rispetto del disciplinare di produzione IG [indicazione geografica, ndr], questa procedura, se autorizzata, avverrebbe in conformità ai regolamenti europei e non violerebbe affatto le garanzie irrinunciabili legate al sistema di protezione IG e di produzione secondo questi disciplinari», ha dichiarato Lollobrigida durante il question time.

Le regole della bresaola IGP

Per analizzare la fattibilità della proposta di Lollobrigida, va innanzitutto chiarito che il ministro propone di usare carne statunitense per produrre la bresaola della Valtellina IGP, e non un qualsiasi salume chiamato “bresaola”. La proposta di Lollobrigida si basa infatti sull’idea che, dato che la bresaola IGP è già prodotta perlopiù con carni estere, non ci siano ostacoli all’uso di carni statunitensi, a patto che il prodotto finale sia destinato unicamente al mercato degli Stati Uniti.

L’acronimo IGP, che sta per “indicazione geografica protetta”, è una delle certificazioni di qualità riconosciute dall’Unione europea e si applica a prodotti legati a uno specifico territorio. Per ottenere questa certificazione, la bresaola deve rispettare i requisiti previsti dal “Disciplinare di produzione dell’indicazione geografica protetta ‘Bresaola della Valtellina’”. Questo documento, approvato dall’Ue, stabilisce dove può essere prodotta la bresaola IGP, quali carni possono essere usate, come deve essere lavorata e stagionata, quali controlli devono essere effettuati prima della sua commercializzazione.

Il Disciplinare, per esempio, stabilisce che «la “Bresaola della Valtellina” viene elaborata nella tradizionale zona di produzione che comprende l’intero territorio della provincia di Sondrio». Inoltre, specifica che questa bresaola deve essere «prodotta esclusivamente con carne ricavata dalle cosce di bovino dell’età compresa fra i 18 mesi e i quattro anni». Sono previsti anche controlli specifici sui prodotti. Come spiega il sito del Consorzio di Tutela della Bresaola della Valtellina – che ha il compito di «promuovere, valorizzare e tutelare la Bresaola della Valtellina IGP» – tali controlli sono effettuati da CSQA Certificazioni, un organismo pubblico incaricato dal Ministero dell’Agricoltura, che «verifica costantemente la conformità al Disciplinare da parte delle aziende produttrici».

In sintesi, le regole non obbligano a usare carne italiana: è sufficiente che la bresaola sia prodotta nella provincia di Sondrio e che rispetti i requisiti previsti dal Disciplinare. Tra questi figurano la razza e l’età dell’animale, il sistema di allevamento, l’alimentazione e l’utilizzo dei tagli più pregiati della coscia bovina, come la punta d’anca. Questi elementi servono a garantire una carne di qualità, con buone caratteristiche organolettiche – come consistenza, morbidezza e magrezza – e un profilo nutrizionale equilibrato.

Dunque, laddove le carni provenienti dagli Stati Uniti presentassero questi fattori qualitativi, il Disciplinare potrebbe dirsi rispettato.
I tagli usati per la produzione della bresaola IGP: punta d’anca (1), festa (2), sottofesa (3), magatello (4) e sottosso (5) – Fonte: Consorzio di Tutela della Bresaola della Valtellina
I tagli usati per la produzione della bresaola IGP: punta d’anca (1), festa (2), sottofesa (3), magatello (4) e sottosso (5) – Fonte: Consorzio di Tutela della Bresaola della Valtellina

Da dove arriva la carne

Uno sguardo ai dati sulla provenienza attuale delle carni rivela quanto la bresaola sia già dipendente dall’estero. Attualmente, infatti, la maggior parte della bresaola IGP è prodotta con carni che non provengono né dall’Italia né dall’Unione europea. 

Il sito del Consorzio spiega che, per la produzione della bresaola IGP, si usa «principalmente carne proveniente da allevamenti europei e sudamericani, dove i sistemi di allevamento e i controlli in tutte le fasi della filiera garantiscono una materia prima che risponde alle elevate esigenze di qualità richiesta per la produzione della Bresaola della Valtellina IGP».

Viene inoltre specificato che si impiegano «le migliori razze di bovini da carne, da cui si ottengono tagli magri e consistenti, come previsto dal Disciplinare e da una tradizione secolare». «Tra le razze di origine europea si privilegiano la Charolaise, la Limousine, la Blonde d’Aquitaine e le Garonnesi. Tra le italiane la razza Piemontese. Dal Sudamerica arrivano invece le razze pure di zebù», si legge ancora, senza alcun riferimento a carni statunitensi, confermando così quanto detto da Lollobrigida.

Anche il presidente del Consorzio, Mario Francesco Moro, ha confermato che attualmente non viene importata «carne bovina dagli Stati Uniti» per la produzione della bresaola. «Nel 2024 quasi l’80 per cento della carne per realizzare la Bresaola della Valtellina IGP è stata importata dal Sud America, il 20 per cento da Paesi dell’Unione europea, tra cui una piccola percentuale in Italia».

Gli ostacoli sanitari dell’Ue

Alla luce di quanto detto, non sembrerebbero esserci ostacoli tecnici all’utilizzo di carne statunitense per la produzione di bresaola IGP. Resta però il nodo delle sostanze impiegate negli allevamenti statunitensi, alcune delle quali sono vietate in Europa.

Negli Stati Uniti è consentito l’uso di determinati ormoni nella produzione di carne bovina, ormoni che sono invece vietati dalle normative europee. Queste normative proibiscono non solo la commercializzazione e la macellazione di animali contenenti tali sostanze o loro residui, in quanto ritenuti potenzialmente pericolosi per la salute umana, ma anche – spiega il sito dell’Ue – «l’importazione in Unione europea di animali o di carne o di prodotti animali provenienti da Paesi terzi che consentono la somministrazione di sostanze per stimolare la crescita».

Secondo Lollobrigida, questo problema sarebbe superato dalla sua proposta: la bresaola prodotta con carne statunitense sarebbe infatti destinata unicamente al mercato statunitense – ciò che il ministro ha definito “importazioni vincolate” – e non verrebbe immessa nel mercato europeo.

Ci sono dubbi sulla tenuta della “scappatoia” proposta dal ministro dell’Agricoltura rispetto ai divieti posti dalle regole europee. Nel Disciplinare non si fa alcun cenno alla presenza di ormoni nelle carni trattate per produrre la bresaola, evidentemente dandosi per scontato che debba essere rispettata la relativa regolazione, rimessa a fonti normative, e quindi il divieto di quelle ormonate.

Il Made in Italy a rischio immagine

La proposta di Lollobrigida presenta altri aspetti problematici. Per esempio, produrre in Italia bresaola IGP con carne statunitense per venderla solo negli Stati Uniti può essere considerato un esempio di Italian sounding. Il Codice della proprietà industriale definisce «pratiche di Italian sounding» le «pratiche finalizzate alla falsa evocazione dell’origine italiana di prodotti». Tra queste può farsi rientrare l’uso improprio della reputazione di un prodotto tipico italiano.

La denominazione “Bresaola della Valtellina” verrebbe usata per promuovere un alimento che, pur essendo prodotto in Italia, perderebbe almeno una delle sue caratteristiche distintive a causa della materia prima impiegata, cioè carne con ormoni vietati nel mercato interno. In altre parole, per i consumatori statunitensi la bresaola continuerebbe a evocare l’immagine di un prodotto noto per qualità e tradizione, pur essendo in realtà diversa da quello autentico per il motivo spiegato. Inoltre, l’impiego di carne statunitense potrebbe indebolire l’immagine stessa della Bresaola della Valtellina IGP.

Più in generale, la proposta rischia di entrare in conflitto con l’obiettivo di valorizzare il Made in Italy e di combattere l’Italian sounding, che è uno dei pilastri delle politiche agroalimentari – e non solo – del governo Meloni. A dicembre 2023, su iniziativa dello stesso governo, è stata approvata una legge «per la valorizzazione, la promozione e la tutela del Made in Italy», con l’obiettivo di proteggere le eccellenze italiane a livello nazionale e internazionale. Inoltre, lo scorso giugno il governo ha presentato in Parlamento un disegno di legge che, come ha dichiarato Lollobrigida, punta a un «giro di vite contro l’Italian sounding» nel settore agroalimentare.

Perché la bresaola non entra negli Stati Uniti

Resta un ultimo punto da chiarire. Secondo Lollobrigida, al momento la bresaola italiana non viene esportata negli Stati Uniti. Questo export «non c’è proprio», ha dichiarato il ministro nel question time alla Camera. In aula, Lollobrigida ha aggiunto che «il mercato statunitense è chiuso a qualsiasi esportazione di salumi italiani a base di carne bovina, a causa degli effetti delle prescrizioni legate» alla mucca pazza.

Il 7 luglio, in un’intervista con l’ANSA, Davide Calderone, direttore generale di Assica (l’associazione degli industriali delle carni e dei salumi) ha confermato la versione data da Lollobrigida. Calderone ha detto che «il blocco all’export di carni italiane, sia fresche che trasformate» – tra cui la bresaola – è stato imposto dagli Stati Uniti a causa del morbo della mucca pazza. «Sono tuttavia ripartite le trattative per riaprire il mercato a stelle e strisce per le carni Made in Italy e, grazie al piano dei controlli su tutta la filiera bovina definito, dal macello alla trasformazione, dal nostro Ministero della Salute, sono in una fase molto avanzata», ha aggiunto Calderone. 

Su queste affermazioni, però, vanno fatte alcune precisazioni. La progressiva riapertura da parte degli Stati Uniti alla carne bovina proveniente dall’Ue è iniziata nel 2015. All’epoca le autorità europee avevano definito il blocco imposto dagli Stati Uniti «sproporzionato e ingiustificato», andando oltre a quanto previsto dagli standard internazionali fissati dall’Organizzazione mondiale della sanità animale. 

Nel 2014, gli Stati Uniti hanno adottato una nuova normativa per allinearsi agli standard internazionali sulla BSE, ma per riprendere le esportazioni ogni stabilimento europeo deve ottenere una specifica autorizzazione dal Dipartimento dell’Agricoltura statunitense. Questo processo – spiega il sito della Commissione Ue – è lungo, complesso e privo di tempi certi. 

Secondo quanto risulta dal sito dell’Unione europea, è stato deciso che, per la ripresa del commercio, «gli stabilimenti devono essere approvati e gli Stati membri reintegrati dal FSIS (il Food Safety and Inspection Service, l’agenzia del Dipartimento dell’Agricoltura degli Stati Uniti responsabile della sicurezza degli alimenti di origine animale, ndr) per la conformità alle norme igieniche. Questo processo è inutilmente lungo e gravoso ed è in corso per diversi Stati membri dell’Ue senza che gli Stati Uniti forniscano alcuna chiarezza su quando questa procedura sarà completata». Qui è disponibile la lista degli stabilimenti italiani certificati dall’autorità statunitensi per l’esportazione di carne negli Stati Uniti.

A oggi, la bresaola della Valtellina IGP ha un peso quasi nullo sulle esportazioni dell’agroalimentare italiano nel mondo. Secondo i dati del Consorzio di Tutela della Bresaola della Valtellina, nel 2024 l’export della bresaola IGP ha raggiunto le 632 tonnellate, il 5 per cento della produzione nazionale per un valore pari a 14 milioni di euro. Secondo l’Istituto di servizi per il mercato agricolo alimentare (ISMEA), nello stesso anno il valore delle esportazioni agroalimentari italiane si è aggirato intorno ai 70 miliardi di euro.

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