Falso: l’agroalimentare in Italia non vale quasi un terzo del Pil

Il contributo di questo settore sull’economia è più basso rispetto a quanto ripetono da mesi Coldiretti e molti politici
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Da mesi alcuni politici rilanciano un numero falso per sostenere che il settore agroalimentare in Italia ha un peso sull’economia di 580 miliardi di euro. Se questa cifra fosse corretta, allora il settore agroalimentare corrisponderebbe a oltre il 30 per cento del Prodotto interno lordo (Pil) del Paese, ossia a quasi un terzo della ricchezza prodotta dall’Italia, che nel 2022 è stata pari a oltre 1.900 miliardi di euro. Le cose però non stanno così.

Questa stima è tornata a circolare nelle ultime ore dopo che la Camera dei deputati ha approvato definitivamente il disegno di legge che introduce il divieto di produrre e commerciare la cosiddetta “carne coltivata”, ottenuta a partire dalle cellule staminali di un animale e non dalla sua macellazione. Vari esponenti dei partiti che sostengono il governo Meloni hanno festeggiato l’approvazione del testo, dicendo che in questo modo è stato tutelato il settore agroalimentare, con il suo valore di 580 miliardi di euro. Fratelli d’Italia aveva già rilanciato questo numero sui social network la scorsa primavera, quando il governo aveva approvato il disegno di legge sulla “carne coltivata”, poi trasmesso al Parlamento per il suo esame.
La stima dei «580 miliardi di euro» è però parecchio esagerata, come mostrano i calcoli più recenti di Istat, pubblicati lo scorso giugno. Nel suo rapporto l’istituto nazionale di statistica specifica che il settore, o comparto, agroalimentare comprende due insiemi di attività: da un lato ci sono l’agricoltura, la silvicoltura (ossia la gestione delle foreste e la produzione di legname) e la pesca, dall’altro lato l’industria alimentare, che comprende anche quella delle bevande. Nel 2022, scrive Istat, la quota del settore agroalimentare sul totale dell’economia italiana è stata pari al 3,8 per cento, in calo rispetto al 4 per cento del 2021: «Il settore primario ha contribuito per il 2,2 per cento (come nel 2021) e l’industria alimentare per l’1,6 per cento (1,8 per cento nel 2021)». Nel complesso stiamo parlando di un contributo al Pil italiano pari a meno di 70 miliardi di euro, un valore parecchio lontano dalla stima che circola da mesi. 

Prendiamo il settore dell’agricoltura, della silvicoltura e della pesca. Secondo Istat, nel 2022 il valore della produzione di questo settore ha superato i 74 miliardi di euro. Ma quando si parla del contributo di un settore sul Pil, non bisogna considerare il valore della sua produzione, ma il suo valore aggiunto. Semplificando un po’, la produzione di un settore economico è il valore complessivo di ciò che hanno prodotto e venduto le attività in quel settore, mentre il suo valore aggiunto è quanto effettivamente sta contribuendo quel settore all’economia complessiva, perché a differenza della produzione tiene in considerazione i costi. Il Pil di un Paese è proprio la somma dei valori aggiunti di tutti i settori della sua economia. L’anno scorso il valore aggiunto del solo settore dell’agricoltura ha raggiunto i 34,4 miliardi di euro, che salgono a 37,4 miliardi considerando la silvicoltura e la pesca. Per avere un termine di paragone, prima della crisi economica causata dalla pandemia di Covid-19 l’intero settore dell’industria manifatturiera, di cui l’industria alimentare è solo una parte, aveva un valore aggiunto pari a 267 miliardi di euro. 

Ma da dove proviene la stima esagerata sul peso del settore agroalimentare sull’economia italiana? La fonte del dato è Coldiretti, che si autodefinisce «la principale organizzazione degli imprenditori agricoli a livello nazionale». A novembre 2022 Coldiretti ha pubblicato un articolo sul suo sito ufficiale, scrivendo che «il cibo è diventato la prima ricchezza dell’Italia per un valore di 580 miliardi di euro nel 2022 nonostante le difficoltà legate alla pandemia e alla crisi energetica scatenata dalla guerra in Ucraina». La spiegazione della differenza tra questa stima e quella di un’istituzione autorevole e indipendente come Istat è semplice: il punto sta nel che cosa si intende per “settore agroalimentare”. Secondo Coldiretti questa voce non comprende solo le aziende agricole e le industrie alimentari, ma anche il settore della ristorazione, con ristoranti e bar, e i punti di vendita al dettaglio, con i negozi e i supermercati. Come abbiamo visto, questa definizione è parecchio generosa rispetto a quella usata da Istat, con la conseguenza che si sovrastima l’impatto del settore del cibo. In ogni caso non è chiaro quali valori precisi sommi tra loro Coldiretti per arrivare alla sua stima finale.

Negli scorsi mesi Coldiretti è stata una delle principali organizzazioni a promuovere la campagna contro la “carne coltivata” perché a detta di questa organizzazione rischierebbe di danneggiare il settore degli allevamenti e della produzione di carne tradizionale. Nel promuovere questa sua tesi Coldiretti ha lanciato almeno due messaggi fuorvianti. Da un lato ha scritto che secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) e l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao), i prodotti in laboratorio hanno «53 rischi potenziali per la salute», dalle allergie ai tumori. Dall’altro lato ha sostenuto che secondo lo studio di un’università statunitense la “carne coltivata” produce emissioni di CO2 da «quattro a 25 volte» superiori rispetto a quelle della carne bovina tradizionale. Ma come abbiamo spiegato qui e qui, le conclusioni di queste due pubblicazioni non sono state riportate in modo corretto.

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