Negli ultimi giorni vari politici della maggioranza di centrodestra hanno criticato gli impatti ambientali della cosiddetta “carne coltivata” (chiamata impropriamente “carne sintetica”), che è ottenuta a partire dalle cellule staminali di un animale e non dalla sua macellazione. Il 15 maggio, ospite a Quarta Repubblica su Rete 4, il ministro dell’Agricoltura, della Sovranità alimentare e delle Foreste Francesco Lollobrigida ha per esempio detto (min. 1:04:23) che secondo lo «studio» di un’«università californiana» la carne coltivata «inquina 25 volte più della carne» prodotta con i metodi tradizionali, come l’allevamento.
Lo studio e il dato delle “25 volte” sono stati rilanciati sui social, tra gli altri, anche dal deputato della Lega Mirco Carloni, presidente della Commissione Agricoltura della Camera, e dal suo compagno di partito Gian Marco Centinaio, ex ministro dell’Agricoltura.
Ma che cosa c’è di vero in questa storia? Come hanno spiegato (min. 24:01) la saggista e divulgatrice scientifica Beatrice Mautino e il giornalista Emanuele Menietti nel podcast del Post “Ci vuole una scienza” (episodio del 19 maggio), bisogna stare attenti e non fare confusione con i dati.
Lo «studio» di cui hanno parlato Lollobrigida e altri politici del centrodestra è stato pubblicato il 21 aprile su bioRxiv, un archivio online gratuito dove i ricercatori che si occupano delle scienze della vita, come la biologia, possono pubblicare i loro studi prima che siano stati sottoposti alla cosiddetta peer review. Quest’ultima è la procedura con cui, all’interno della comunità scientifica, una ricerca viene sottoposta al controllo di altri scienziati, che possono fare commenti o segnalare eventuali errori agli autori della ricerca. Dunque non stiamo parlando di uno studio verificato e pubblicato su una rivista scientifica, ma per il momento solo su un portale online.
La ricerca si intitola Environmental impacts of cultured meat (in italiano “Gli impatti ambientali della carne coltivata”) ed è stata realizzata da cinque ricercatori della University of California, un istituto universitario statunitense. L’obiettivo dei ricercatori è quello di stimare i «potenziali impatti ambientali» della carne coltivata, che a oggi è prodotta solo su bassa scala e con costi molto alti, visto che si tratta di una tecnologia recente (per esempio in Europa non è ancora commercializzabile). Più nel dettaglio lo studio è una “valutazione dell’impatto del ciclo di vita” (in inglese life cycle assessment, Lca) della carne coltivata, ossia cerca di quantificare quali sono le potenziali emissioni di CO2 della carne coltivata in tutte le sue fasi di produzione. I ricercatori si sono perlopiù concentrati sul terreno di coltura (in inglese growth medium), ossia il liquido dove si coltivano le cellule da cui poi, dopo una serie di passaggi, si ottiene la carne coltivata. I risultati della ricerca, analizzando vari scenari, indicano che a oggi la carne coltivata produce emissioni tra le quattro e le 25 volte più elevate rispetto a quelle prodotte dalla carne bovina allevata.
Assumendo che i calcoli e le premesse su cui poggiano siano corretti, sono gli stessi autori a sottolineare in vari passaggi che non si tratta di una stima definitiva, anzi. I ricercatori infatti non hanno preso in considerazione la possibilità di produrre su larga scala la carne coltivata, con mezzi più efficienti. «Crediamo siano necessarie ricerche aggiuntive per fornire un quadro più esteso dell’impatto ambientale della produzione su larga scala della carne coltivata», hanno scritto gli autori discutendo i risultati del loro studio. Per questo motivo gli stessi ricercatori hanno suggerito di investire proprio nella ricerca per migliorare le attuali tecnologie con cui è prodotta la carne coltivata per evitare di riprodurre su larga scala meccanismi con un impatto ambientale eccessivo.
Negli ultimi anni sono state pubblicate anche altre ricerche con un obiettivo simile, ossia quantificare gli impatti ambientali della carne coltivata. Alcuni hanno ottenuto risultati incoraggianti per chi sostiene che questa forma di carne possa avere in futuro emissioni più basse di quella allevata. La ricerca è comunque ancora nelle sue fasi iniziali: finché la produzione di carne coltivata rimarrà su piccoli livelli, l’incertezza sarà ancora elevata e i risultati degli studi vanno presi con la giusta cautela.
Lo studio e il dato delle “25 volte” sono stati rilanciati sui social, tra gli altri, anche dal deputato della Lega Mirco Carloni, presidente della Commissione Agricoltura della Camera, e dal suo compagno di partito Gian Marco Centinaio, ex ministro dell’Agricoltura.
Ma che cosa c’è di vero in questa storia? Come hanno spiegato (min. 24:01) la saggista e divulgatrice scientifica Beatrice Mautino e il giornalista Emanuele Menietti nel podcast del Post “Ci vuole una scienza” (episodio del 19 maggio), bisogna stare attenti e non fare confusione con i dati.
Lo «studio» di cui hanno parlato Lollobrigida e altri politici del centrodestra è stato pubblicato il 21 aprile su bioRxiv, un archivio online gratuito dove i ricercatori che si occupano delle scienze della vita, come la biologia, possono pubblicare i loro studi prima che siano stati sottoposti alla cosiddetta peer review. Quest’ultima è la procedura con cui, all’interno della comunità scientifica, una ricerca viene sottoposta al controllo di altri scienziati, che possono fare commenti o segnalare eventuali errori agli autori della ricerca. Dunque non stiamo parlando di uno studio verificato e pubblicato su una rivista scientifica, ma per il momento solo su un portale online.
La ricerca si intitola Environmental impacts of cultured meat (in italiano “Gli impatti ambientali della carne coltivata”) ed è stata realizzata da cinque ricercatori della University of California, un istituto universitario statunitense. L’obiettivo dei ricercatori è quello di stimare i «potenziali impatti ambientali» della carne coltivata, che a oggi è prodotta solo su bassa scala e con costi molto alti, visto che si tratta di una tecnologia recente (per esempio in Europa non è ancora commercializzabile). Più nel dettaglio lo studio è una “valutazione dell’impatto del ciclo di vita” (in inglese life cycle assessment, Lca) della carne coltivata, ossia cerca di quantificare quali sono le potenziali emissioni di CO2 della carne coltivata in tutte le sue fasi di produzione. I ricercatori si sono perlopiù concentrati sul terreno di coltura (in inglese growth medium), ossia il liquido dove si coltivano le cellule da cui poi, dopo una serie di passaggi, si ottiene la carne coltivata. I risultati della ricerca, analizzando vari scenari, indicano che a oggi la carne coltivata produce emissioni tra le quattro e le 25 volte più elevate rispetto a quelle prodotte dalla carne bovina allevata.
Assumendo che i calcoli e le premesse su cui poggiano siano corretti, sono gli stessi autori a sottolineare in vari passaggi che non si tratta di una stima definitiva, anzi. I ricercatori infatti non hanno preso in considerazione la possibilità di produrre su larga scala la carne coltivata, con mezzi più efficienti. «Crediamo siano necessarie ricerche aggiuntive per fornire un quadro più esteso dell’impatto ambientale della produzione su larga scala della carne coltivata», hanno scritto gli autori discutendo i risultati del loro studio. Per questo motivo gli stessi ricercatori hanno suggerito di investire proprio nella ricerca per migliorare le attuali tecnologie con cui è prodotta la carne coltivata per evitare di riprodurre su larga scala meccanismi con un impatto ambientale eccessivo.
Negli ultimi anni sono state pubblicate anche altre ricerche con un obiettivo simile, ossia quantificare gli impatti ambientali della carne coltivata. Alcuni hanno ottenuto risultati incoraggianti per chi sostiene che questa forma di carne possa avere in futuro emissioni più basse di quella allevata. La ricerca è comunque ancora nelle sue fasi iniziali: finché la produzione di carne coltivata rimarrà su piccoli livelli, l’incertezza sarà ancora elevata e i risultati degli studi vanno presi con la giusta cautela.