Che cosa dicono gli studi sull’impatto dell’immigrazione sull’economia

Nei prossimi tre anni il nuovo decreto “Flussi” del governo prevede l’ingresso di oltre 450 mila lavoratori stranieri. Che effetti hanno queste scelte sul mercato del lavoro?
Ansa
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Di recente il governo Meloni ha approvato un nuovo decreto “Flussi” per far fronte alla richiesta di lavoratori in alcuni settori, come il turismo e l’agricoltura. I decreti “Flussi” sono provvedimenti con cui ogni anno il governo stabilisce una quota di lavoratori stranieri da far entrare in Italia. Nello specifico il nuovo decreto prevede l’ingresso nel nostro Paese di circa 452 mila lavoratori stranieri tra il 2023 e il 2025. In passato, però, alcuni esponenti del governo Meloni avevano criticato la gestione dei flussi migratori, spesso portando come motivazione gli impatti negativi che l’immigrazione avrebbe per i lavoratori italiani e sull’economia del nostro Paese.

Ma quanto c’è di vero nel dire che gli immigrati hanno un impatto negativo sull’economia e sul mercato del lavoro italiano? In base alla letteratura scientifica più aggiornata la risposta è: poco.

L’immigrazione riduce i salari dei nativi? 

Una delle critiche principali all’introduzione di persone straniere nella forza lavoro di un Paese è che questa nuova manodopera ridurrebbe i salari, compresi quelli dei cittadini nati in quel Paese, ossia i nativi. La spiegazione dietro a questa critica è semplice. La nuova manodopera straniera, disponibile magari a un salario inferiore rispetto ai nativi, andrebbe ad aumentare l’offerta di lavoro e, per la legge della domanda e dell’offerta, i livelli degli stipendi si ridurrebbero. 

Gli studi scientifici più recenti hanno però mostrato che questa critica, seppur suggestiva, è poco supportata dai dati. Nel libro Una buona economia per i tempi difficili” (Laterza, 2020) i due premi Nobel per l’economia Esther Duflo e Abhijit Banerjee hanno spiegato che questa tesi tiene conto degli effetti dell’immigrazione sull’offerta di lavoro, ma non sulla domanda. Secondo i due economisti, infatti, è ragionevole pensare che l’introduzione di nuovi lavoratori stranieri nel mercato del lavoro porti a un aumento della domanda di beni e servizi, che in precedenza venivano consumati solo dai nativi. Questo potrebbe spingere le imprese ad aumentare la loro produzione, e quindi la domanda di lavoratori, compensando l’aumento dell’offerta. 

Ma è dal punto di vista empirico che le cose si fanno più interessanti. Nel loro libro Duflo e Banerjee hanno infatti argomentato che non esistono prove di una riduzione dei salari in seguito all’inserimento di nuovi lavoratori stranieri nel mercato del lavoro. Come prova i due economisti  hanno citato uno degli studi più importanti di un altro premio Nobel per l’economia, l’economista David Card, pubblicato nel 1990. Per studiare gli effetti dell’immigrazione sui salari Card esaminò il caso storico del cosiddetto “Esodo di Mariel”, avvenuto a Cuba tra aprile e settembre 1980. L’esodo, autorizzato dal governo comunista di Fidel Castro, coinvolse circa 125 mila cittadini cubani, che per cercare lavoro e fuggire dalla crisi economica lasciarono Cuba dal porto di Mariel, dirigendosi negli Stati Uniti. Secondo lo studio condotto da Card, questa migrazione, caratterizzata per lo più da lavoratori con competenze basse o assenti, portò a un aumento della forza lavoro del 7 per cento nella città di Miami, il principale porto di sbarco degli esuli cubani. 

Che effetto ebbe tutto ciò sui salari dei lavoratori di Miami? Utilizzando una tecnica econometrica tra le più efficaci per comprendere gli effetti causali, Card stimò che l’impatto sui salari dei nativi non fu significativo e che il mercato del lavoro di Miami riuscì ad assorbire la nuova forza lavoro senza particolari contraccolpi. Nel corso degli anni anche altri studi hanno confermato il risultato ottenuto da Card. 

Qualcosa di simile è stato riscontrato anche in Italia. In uno studio pubblicato nel 1999, un gruppo di ricercatori ha analizzato gli effetti dell’amnistia concessa dal governo italiano tra il 1990 e il 1991, che portò all’inserimento nel mercato del lavoro di immigrati irregolari, a cui vennero concessi permessi di soggiorno per motivi di lavoro. Anche in questo caso i risultati dello studio hanno mostrato che non solo non si è assistito a una diminuzione dei salari per i lavoratori autoctoni, ma che anzi c’è stato un aumento.

Complementari o sostitutivi?

Le spiegazioni suggerite dagli economisti per risultati di questo tipo ci portano alla seconda questione. Secondo vari esperti, il motivo per cui un aumento dell’immigrazione non riduce i salari dei nativi, come invece sembra suggerire la teoria economica, risiede nella differenza tra “beni complementari” e “beni sostitutivi”. Come suggerisce il termine, i beni sostitutivi sono quelli che possono sostituirsi tra di loro per soddisfare un certo bisogno. Pensiamo per esempio alla pasta e al riso: qualora il prezzo della pasta aumenti e quello del riso rimanga invariato, il consumatore potrà soddisfare il suo bisogno diminuendo il consumo di pasta e aumentando quello di riso. Il discorso è diverso invece per beni come il latte e i cereali. Questi sono “beni complementari”, perché il consumo di uno è legato in parte, se non del tutto, a quello dell’altro. Per esempio se il prezzo del latte aumenta e quello dei cereali rimane fermo, è probabile che il consumatore possa fare meno uso di cereali a colazione. 

I ricercatori suggeriscono quindi che, invece di competere tra loro, i lavoratori nativi e quelli immigrati siano “beni complementari” e che, in poche parole, si compensino tra loro. In genere i lavoratori immigrati svolgono infatti mansioni che i nativi non sono più disposti a fare. In Italia questo è il caso del settore dell’agricoltura, dove da alcuni anni si registra un’elevata presenza di lavoratori stranieri. Come detto in precedenza, un altro motivo è che la presenza di nuova manodopera straniera non influisce solo sul lato dell’offerta di lavoro, ma anche sui consumi. Infatti, quando viene a mancare l’effetto sui consumi, gli impatti sono radicalmente diversi: questo è stato riscontrato in uno studio del 2016 che analizza la situazione al confine tra Repubblica Ceca e Germania. In questo caso gli studiosi hanno rilevato che i cittadini cechi che si spostavano in Germania per lavorare non spendevano il loro reddito in quel Paese, generando sì in questo caso una diminuzione dei salari. 

Nonostante la maggioranza degli studiosi sia d’accordo nel valutare in modo positivo l’impatto dell’immigrazione, non tutti sono però d’accordo. Tra questi il più noto è l’economista George Borjas, professore all’Università di Harvard che ha più volte sottolineato l’impatto negativo dell’immigrazione: secondo Borjas il motivo principale sarebbe proprio l’aumento dell’offerta di lavoro causata dall’immigrazione, che andrebbe a peggiorare la situazione lavorativa dei nativi. In un suo lavoro per esempio, Borjas ha stimato che l’immigrazione ridurrebbe di quasi il 9 per cento il salario dei lavoratori nativi che non hanno completato la scuola superiore, mentre questa cifra non è significativa per chi ha un diploma o una laurea.

Gli immigrati e il welfare state

C’è poi un ultimo aspetto, quello riguardante l’impatto che gli immigrati hanno sul welfare state, ossia lo stato sociale. È un tema ampiamente trattato nella letteratura scientifica, i cui risultati dipendono in larga parte dai modelli utilizzati. 

Una panoramica di questi risultati è offerta da uno studio pubblicato alcuni anni fa dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse). I ricercatori hanno notato che nella letteratura scientifica non c’è unanimità sull’impatto che gli immigrati hanno sul welfare state dei Paesi membri dell’Ocse. La maggior parte degli studi esaminati ha riscontrato un contributo modesto degli immigrati sulla spesa pubblica, ossia la percentuale di entrate fiscali provenienti da cittadini immigrati. Tra i Paesi Ocse la percentuale di entrate da parte di questi ultimi si aggira intorno allo 0,5 per cento del Prodotto interno lordo (Pil), fatta eccezione per Stati come il Lussemburgo e la Svizzera, dove si arriva al 2 per cento. Il fatto che gli immigrati offrono in media un contributo sulle entrate statali inferiore rispetto ai nativi non dipenderebbe però dai sussidi che ricevono, ma dal fatto che svolgono spesso lavori meno retribuiti e si ritrovano a pagare meno tasse e contributi.

A giocare un ruolo importante c’è poi il tipo di immigrazione: Paesi che assistono da tempo a flussi migratori in entrata presentano un impatto più modesto dal punto di vista fiscale per quel che riguarda i migranti, al contrario dei paesi che solo di recente hanno attratto lavoratori dall’estero. Che cosa si può dire per l’Italia? Secondo le stime contenute nel Documento di economia e finanza (Def) per il 2023, approvato ad aprile dal governo, con un aumento del 33 per cento di immigrati entro il 2070 si verificherebbe una diminuzione del debito pubblico in rapporto al Pil pari a oltre 30 punti percentuali.
Immagine 1. Sensitività del debito pubblico a un aumento/riduzione del flusso netto di immigrati – Fonte: Documento di economia e finanza 2023
Immagine 1. Sensitività del debito pubblico a un aumento/riduzione del flusso netto di immigrati – Fonte: Documento di economia e finanza 2023
Vista la crisi demografica del nostro Paese, un aumento dell’immigrazione consentirebbe inoltre un aumento della forza lavoro, che garantirebbe a sua volta maggiori entrate per lo Stato in termini di contributi versati e imposte.

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