Perché la crisi demografica farà calare il Pil italiano

Nei prossimi vent’anni il continuo calo delle nascite rischia di ridurre l’economia italiana anche più del 20 per cento
ANSA/RICCARDO ANTIMIANI
ANSA/RICCARDO ANTIMIANI
L’11 maggio, in un videomessaggio trasmesso all’evento gli “Stati generali della natalità”, il ministro dell’Economia e delle Finanze Giancarlo Giorgetti ha parlato dell’impatto che la crisi demografica avrà sull’economia italiana. Secondo Giorgetti, visti i numeri attuali delle nascite, nei prossimi 20 anni l’Italia «rischia di perdere per strada percentuali del Pil impressionanti», con un calo addirittura vicino al 20 per cento. È davvero così? È difficile avere una risposta precisa, ma possiamo dire che Giorgetti ha tendenzialmente ragione: il calo del Pil dovuto all’invecchiamento e alla riduzione della popolazione rischia di avere un impatto negativo a doppia cifra sul Pil.

Ogni attività economica è infatti una funzione di vari fattori, tra cui il lavoro. La riduzione di quest’ultimo, dovuto all’invecchiamento della popolazione e al calo delle nascite, ha un impatto negativo sull’economia, a meno che la produttività di ciascun lavoratore non cresca talmente tanto da compensare la riduzione del numero di occupati. Questa ipotesi è però molto improbabile, vista la gravità della crisi demografica in Italia e la scarsa crescita della produttività registrata negli ultimi anni. 

La domanda dunque è: di quanto calerà il Pil italiano a causa della crisi demografica? Partiamo da uno scenario semplificato per renderci conto del problema.

Un’ipotesi semplificata

Innanzitutto supponiamo che il Pil diviso per il numero di occupati – una misura della produttività del lavoro – resti costante nel tempo. In realtà, secondo Eurostat, in Italia questo indicatore è calato dal 2000 a oggi. Per avere una stima più prudente, assumiamo che la produttività rimanga costante nei prossimi trent’anni.

Consideriamo poi la probabile riduzione della forza lavoro. Secondo Istat, nel 2050 quasi il 35 per cento della popolazione italiana avrà più di 65 anni: in termini economici significa che più di un italiano su tre non sarà più in grado di lavorare. Anche se rimanesse costante al 13 per cento la quota di giovani con meno di 15 anni di età, quelli non considerati adatti al lavoro da un punto di vista economico, la percentuale di persone abili al lavoro, con un’età compresa tra i 15 e i 64 anni, calerebbe di circa 11 punti percentuali: dal 64 per cento della popolazione totale a circa il 53 per cento. Considerando anche il calo della popolazione, le persone in età da lavoro passerebbero da circa 38 milioni a poco più di 29 milioni nel 2050: una riduzione di oltre il 24 per cento.

Se rimanessero costanti sia il tasso di partecipazione al lavoro, ossia la percentuale di persone abili al lavoro che decidono di cercare un impiego, sia quello di occupazione, allora il numero di occupati si ridurrebbe nella stessa misura della popolazione in età da lavoro. A produttività costante, il Pil prodotto da ciascun lavoratore rimarrebbe lo stesso, ma il numero dei lavoratori sarebbe più basso. In questo caso il Pil si ridurrebbe del 31 per cento circa tra il 2020 e il 2050.

Questa ipotesi semplificata non considera il probabile aumento del tasso di occupazione italiano, oggi tra i più bassi d’Europa, soprattutto tra le donne e i giovani, e il possibile aumento della produttività dovuto all’introduzione delle nuove tecnologie. Un ulteriore innalzamento dell’età pensionabile potrebbe poi portare nei prossimi anni a un aumento delle persone che lavorano pur avendo più di 65 anni di età, anche se in questo caso l’aumento sarebbe probabilmente limitato. 

Nella sua semplicità questa ipotesi rende l’idea di quanto possa essere importante l’impatto del calo demografico sulla forza lavoro e, quindi, sul Pil.

Le stime di Istat

Alla luce di questi calcoli la stima di Giorgetti è tendenzialmente corretta: se l’impatto sul Pil fosse omogeneo nei prossimi trent’anni, dopo il 2040 la riduzione del Pil dovrebbe essere superiore al 20 per cento rispetto al 2020.

In varie interviste il presidente di Istat Gian Carlo Blangiardo ha parlato delle conseguenze della crisi demografica sull’economia italiana. Più nello specifico Blangiardo ha ripetuto che il Pil dell’Italia rischia di ridursi di un terzo entro il 2070. Questa stima si basa sulle attuali tendenze demografiche, con un’immigrazione netta annua in positivo di circa 130 mila unità (ossia la differenza tra quanti lasciano il Paese e quanti vi arrivano). 

Il Documento di economia e finanza (Def), pubblicato ad aprile dal governo Meloni, contiene un grafico sulla possibile evoluzione del rapporto tra il debito pubblico e il Pil in base all’andamento dell’immigrazione netta. Secondo le elaborazioni del Ministero dell’Economia e delle Finanze, rispetto a uno scenario base, un calo di un terzo dell’immigrazione netta porterebbe a un aumento del rapporto tra debito pubblico e Pil, mentre una crescita dell’immigrazione a un calo sul lungo periodo.
Grafico 1. Esercizio di sensitività sull’andamento del debito pubblico, in rapporto al Pil, a un aumento o a una riduzione del flusso netto di immigrati – Fonte: Def
Grafico 1. Esercizio di sensitività sull’andamento del debito pubblico, in rapporto al Pil, a un aumento o a una riduzione del flusso netto di immigrati – Fonte: Def
Un aumento dell’immigrazione porterebbe infatti a una crescita dell’input di lavoro nell’economia italiana, con due effetti: la crescita del Pil, il cui aumento fa scendere il rapporto con il debito, e l’abbassamento del debito pubblico, perché i giovani provenienti dall’estero contribuirebbero al bilancio pubblico con il pagamento di tasse e imposte. I benefici dell’immigrazione aumentano all’aumentare dell’integrazione degli immigrati nel mercato del lavoro e nell’economia in generale. Nel Def è presente anche un grafico sull’evoluzione del rapporto tra il debito e il Pil in base alla natalità e all’aspettativa di vita. È probabile che il dato citato da Giorgetti agli Stati generali della natalità provenga da questa elaborazione, ma il Def non contiene le stime separate per l’andamento del debito e del Pil, per cui non è possibile avere i dati separati per entrambi.

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