Il governo vuole aumentare le tasse, come dice la Lega?

Abbiamo verificato se le accuse di Matteo Salvini contro la riforma del fisco stanno in piedi oppure no
ANSA/LUCA ZENNARO
ANSA/LUCA ZENNARO
Domani, mercoledì 13 aprile, è previsto un incontro tra il presidente del Consiglio Mario Draghi, il leader della Lega Matteo Salvini e il vicepresidente di Forza Italia Antonio Tajani. L’obiettivo dichiarato è quello di trovare un’intesa per far riprendere l’esame del disegno di legge delega sulla riforma fiscale, bloccato la scorsa settimana dalla Commissione Finanze della Camera a causa dell’opposizione proprio dei due partiti di centrodestra. 

«Catasto, Bot, cedolare secca sugli affitti: la Lega dice NO a qualsiasi aumento delle tasse», ha scritto su Facebook l’11 aprile Salvini, ribadendo quello che ripete ormai da giorni, ossia che il governo guidato da Draghi vuole alzare le imposte con la riforma del fisco, un’ipotesi più volte smentita dallo stesso presidente del Consiglio. 

Ma quanto sono fondate le preoccupazioni di Salvini e della Lega? Abbiamo verificato e, in breve, la risposta è poco.

Il dibattito sul catasto

Dallo scorso novembre, quando la Commissione Finanza della Camera ha iniziato a esaminare il disegno di legge delega sulla riforma fiscale, uno degli articoli più dibattuti della legge delega sul fisco è il numero 6, quello dedicato alla revisione del sistema catastale italiano, di cui in Italia si parla da parecchi anni, perché ormai iniquo e inefficiente.

Il compromesso, trovato dal Consiglio dei ministri a inizio ottobre scorso, non prevede una vera e propria riforma del catasto, ma una sorta di “operazione trasparenza”. Oltre a proporre di far emergere gli immobili sconosciuti al fisco, la proposta del governo è quella di introdurre nuove misure per aggiornare le cosiddette “rendite catastali”, a partire dal 2026, specificando che i valori aggiornati non potranno essere utilizzati per calcolare le basi imponibili delle imposte immobiliari. A partire dalle rendite catastali, che oggi ormai non corrispondono più al valore per cui erano state pensate decenni fa (ossia l’affitto che si potrebbe percepire mettendo in locazione l’immobile), si calcolano infatti le basi imponibili per diverse imposte, come quelle sul patrimonio immobiliare.

Un’operazione di questo tipo non significa, come ripetuto da diversi esponenti di centrodestra negli ultimi mesi, che automaticamente, con le rendite aggiornate, si avranno imposte più alte. In primo luogo, come abbiamo visto, nel disegno di legge delega sulla riforma del fisco il governo Draghi ha esplicitamente scritto che la revisione del catasto non potrà avere effetti sul calcolo delle imposte. In secondo luogo, una revisione delle rendite catastali si potrebbe ottenere anche con la parità di gettito, quindi senza aumentare nel complesso le entrate fiscali ma modulando le aliquote sulle imposte immobiliari. In questo scenario, potrebbero esserci dei contribuenti che pagherebbero di più, ma anche dei contribuenti che pagherebbero di meno.

È vero comunque che nel 2019 l’Unione europea ha raccomandato al nostro Paese di «spostare la pressione fiscale dal lavoro, in particolare riducendo le agevolazioni fiscali e riformando i valori catastali non aggiornati». Nella sua analisi dell’impatto della regolamentazione contenuta nella legge delega fiscale, il Ministero dell’Economia ha sottolineato che l’aggiornamento del catasto proposto dal governo è «coerente» con le raccomandazioni europee. Questo non significa però che necessariamente con la riforma del fisco il governo Draghi aumenterà le imposte sulla casa (tra l’altro, l’aggiornamento delle informazioni catastali sarà disponibile a inizio 2026), ma che la revisione del catasto va nella direzione indicata dall’Ue.  

Se nel 2026 il governo di turno deciderà di usare le nuove rendite catastali, qualora disponibili, per rivedere anche le basi imponibili, potrà farlo. Ma senza alcun automatismo, come invece lasciano intendere Salvini e la Lega.

Il dibattito su titoli di Stato e affitti

Discorso diverso, e più articolato, vale invece per la tassazione sui titoli di Stato (i Bot, o buoni ordinari del tesoro, di cui parla la Lega) e sulla cosiddetta “cedolare secca sugli affitti”, un’imposta agevolata introdotta nel 2011 per semplificare il sistema della tassazione sulle locazioni di immobili e far emergere gli affitti in nero. Qui il quadro è più sfumato, visto che il disegno di legge delega presentato in Parlamento dal governo contiene dei principi di carattere molto generale.

Su Bot e cedolare secca, l’articolo del disegno di legge delega per la riforma del fisco da tenere d’occhio è il numero 2, quello dedicato, tra le altre cose, ai principi che il governo dovrà seguire, una volta approvata la delega dal Parlamento, per riformare l’Irpef.

Nell’articolo 2, si legge che nel riformare il fisco l’esecutivo dovrà seguire una «progressiva e tendenziale evoluzione del sistema verso un modello compiutamente duale», ossia con una tassazione separata tra i redditi da lavoro e quelli da capitale, tra cui rientrano anche quelli del mercato immobiliare. Secondo il testo della delega, mentre ai redditi da lavoro si deve applicare l’Irpef, con aliquote progressive, ai redditi da capitale si deve applicare una sola «aliquota proporzionale», mentre oggi ne esistono di svariate. 

Il punto su cui si discute nelle ultime settimane è sul valore che dovrà avere questa unica aliquota. Secondo fonti stampa, il Ministero dell’Economia avrebbe proposto l’introduzione «in via transitoria, di due aliquote di tassazione proporzionale, ai redditi derivanti dall’impiego del capitale, anche nel mercato immobiliare», per esempio i Bot e gli affitti con la cedolare secca, senza però cifre precise. Secondo indiscrezioni, però, i valori delle due aliquote si attesterebbero una al 15 per cento e l’altra al 26 per cento, con l’obiettivo di portarle entrambe in futuro al 23 per cento.

E qui potenzialmente sorgono i problemi. Per esempio, i Bot sono titoli di Stato soggetti a un’aliquota agevolata pari al 12,5 per cento, dunque più bassa di quelle che circolano in base alle indiscrezioni. Il sistema duale – nei termini riportati dalle indiscrezioni stampa – rischia di avere conseguenze anche sulla cedolare secca, che oggi ha un’aliquota del 21 per cento, che scende al 10 per cento nei comuni con carenze di disponibilità abitative, una percentuale anche qui più bassa rispetto a quelle citate in precedenza. 

Nel caso della cedolare secca, va però aggiunto che, se si andasse nella direzione discussa in questi giorni, beneficerebbero dell’imposta agevolata anche gli esercizi commerciali, oggi esclusi. «Invece di sottolineare (e festeggiare) che questa scelta significa introdurre la cedolare secca sugli immobili commerciali (e su tutti quelli a uso diverso da quello abitativo) – una richiesta storica del mondo immobiliare – si è preferito spargere terrore sul fatto che l’aliquota ridotta sarà drammaticamente superiore al 10 per cento, cosa che nessuno ha mai detto», ha commentato il 12 aprile in un’intervista con Verità e Affari il presidente della Commissione Finanze della Camera Luigi Marattin (Italia viva).  

Tiriamo le somme

Ricapitolando: per quanto riguarda la tassazione sui risparmi e gli affitti, cifre certe ancora non ce ne sono. Tra l’altro, secondo fonti stampa, nella bozza di accordo del disegno di legge raggiunta prima dello stop dell’esame alla Camera, era stata aggiunta la disposizione che dalla riforma del fisco «non deve derivare un incremento della pressione tributaria rispetto a quella derivante dall’applicazione della legislazione vigente». Insomma, un tentativo di ribadire che la riforma del fisco non dovrà portare un aumento complessivo delle imposte.

In ogni caso, anche se si trovasse un accordo per proseguire con l’esame del disegno di legge delega, i tempi per una riforma del fisco sarebbero ancora lunghi. Dopo un’ipotetica approvazione della Camera, il testo dovrà infatti passare anche dal Senato. E dalla data di entrata in vigore della legge, il governo avrebbe poi 18 mesi di tempo – se non ci saranno altre divisioni interne – per approvare i cosiddetti “decreti legislativi”, ossia i provvedimenti con cui intervenire concretamente sui vari aspetti del sistema fiscale, seguendo le linee tracciate in Parlamento.

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