Giovanni Toti ha ammesso di essere colpevole?

L’ex presidente della Regione Liguria ha patteggiato, ma si definisce innocente. È davvero così? Abbiamo fatto chiarezza su una questione piuttosto dibattuta
ANSA/LUCA ZENNARO
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«Io mi ritengo innocente perché ho agito per l’interesse pubblico». E ancora: «Fare un accordo non vuol dire necessariamente riconoscere le proprie colpe ma ritrovarsi a metà strada». Così, in un’intervista con il Corriere della Sera, il 14 settembre l’ex presidente della Regione Liguria Giovanni Toti ha commentato l’accordo raggiunto con la Procura di Genova sul patteggiamento della pena per i reati di corruzione impropria e finanziamento illecito, formulati a suo carico. La pena concordata tra le parti è di due anni e un mese, ma si è previsto sia sostituita con lavori socialmente utili per 1.500 ore. Nell’accordo di patteggiamento è stata indicata a carico di Toti l’interdizione temporanea dai pubblici uffici e l’impossibilità di contrattare con le pubbliche amministrazioni per la durata della pena, nonché la confisca di 84.100 euro. Questo accordo, per diventare effettivo, dovrà essere approvato dal giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Genova.

Va ricordato che, secondo i magistrati di Genova, Toti avrebbe ricevuto finanziamenti al suo comitato elettorale in cambio di favori (in particolare la concessione di spazi nel porto di Genova all’azienda di servizi portuali dell’imprenditore Aldo Spinelli). Toti era stato messo agli arresti domiciliari il 7 maggio, si era dimesso da presidente della Regione Liguria il 26 luglio e aveva ottenuto la revoca degli arresti domiciliari il 1° agosto, dopo averla richiesta più volte ed essersela vista negare con la motivazione del pericolo di reiterazione del reato.

Al di là delle responsabilità penali di Toti, è vero, come sostiene l’ex presidente della Regione Liguria, che patteggiare non equivale ad ammettere di essere colpevole? Abbiamo fatto un po’ di chiarezza su un tema piuttosto complicato.

Che cos’è il patteggiamento

Gli articoli dal 444 al 448 del codice di procedura penale (c.p.p.) disciplinano il cosiddetto “patteggiamento”: questo è un procedimento alternativo al rito ordinario ed è definito dal codice stesso come «applicazione della pena su richiesta delle parti». 

In parole semplici, patteggiare significa proprio questo: le parti – accusa e difesa – si accordano sulla pena, chiedendo al giudice di recepire il loro accordo in una sentenza con cui si definisce il giudizio. In particolare, l’imputato rinuncia ad affrontare il processo nelle forme ordinarie e, al contempo, rinuncia a fruire delle garanzie e dei diritti della difesa che trovano espressione nel dibattimento, e quindi si sottopone a una sanzione. 

Il vantaggio che ricava l’imputato è la fruizione di una serie di benefici, in primo luogo la riduzione della pena (su questo torneremo più avanti). Contro la sentenza di patteggiamento è possibile ricorrere solo in Corte di Cassazione e per i motivi espressamente previsti dalla legge.

Il patteggiamento allargato e quello ristretto

Esistono due tipi di patteggiamento. L’articolo 444 c.p.p. regola il cosiddetto “patteggiamento allargato”, che è stato introdotto nel 2003. Questa forma di patteggiamento consente alle parti di accordarsi su una pena sostitutiva o pecuniaria, diminuita fino a un terzo rispetto a quella applicabile, oppure su una pena detentiva quando questa, tenuto conto delle circostanze e diminuita fino a un terzo, non supera i cinque anni (questa pena detentiva può essere anche accompagnata da una pena pecuniaria). 

La richiesta di patteggiamento allargato è preclusa per determinati reati (sostanzialmente, i reati sessuali, di terrorismo e di associazione mafiosa), nonché per chi sia stato dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza oppure in casi gravi di recidiva. In alcuni tra i reati contro la pubblica amministrazione la richiesta è subordinata alla restituzione integrale del prezzo o del profitto del reato.

L’articolo 445 c.p.p. disciplina, invece, il cosiddetto “patteggiamento ristretto” o “tradizionale”, quello a cui ha fatto ricorso Toti, che si differenzia da quello allargato innanzitutto per il presupposto dell’entità della pena. Con il patteggiamento ristretto l’imputato e il pubblico ministero possono accordarsi su una pena detentiva che, tenuto conto delle circostanze e diminuita fino a un terzo, non superi i due anni (sola o congiunta a una pena pecuniaria). In sintesi: fino a due anni di reclusione c’è il patteggiamento tradizionale; da due anni e un giorno a cinque anni c’è il patteggiamento allargato. Dai due anni e un mese del patteggiamento di Toti vanno tolti i quasi tre mesi trascorsi agli arresti domiciliari.

In più il patteggiamento ristretto, diversamente da quello allargato, non è soggetto né a limiti oggettivi né a limiti soggettivi: è possibile per qualsiasi reato e per qualsiasi tipo di imputato.

Le caratteristiche del patteggiamento

Il rito alternativo del patteggiamento è qualificabile come: “deflativo”, perché rispetto allo schema generale del procedimento di primo grado (le indagini preliminari, l’udienza preliminare e il giudizio dibattimentale) mira a evitare la fase del dibattimento; “consensuale”, perché richiede l’accordo tra la pubblica accusa e l’imputato; “premiale”, perché riconosce a quest’ultimo una serie di benefici come contropartita alla sua decisione di rinunciare a difendersi in dibattimento.

Per il patteggiamento ristretto, oltre alla sanzione ridotta fino a un terzo, sono previsti vantaggi che comprendono: il non dover pagare le spese processuali; l’esonero da pene accessorie e misure di sicurezza (esclusa la confisca obbligatoria); la non menzione nel certificato di casellario giudiziale (più comunemente chiamata “fedina penale”); e l’inefficacia della sentenza di patteggiamento nei giudizi civili, amministrativi o di altro tipo. In più, sempre per le pene inferiori a due anni, se l’imputato non commette un altro delitto (entro cinque anni) o una contravvenzione (entro due anni) della stessa indole, il reato si estingue e cessa ogni effetto penale.

Per il patteggiamento allargato, invece, i benefici sono circoscritti alla riduzione della pena.

Ammissione di colpevolezza o no?

Veniamo adesso al cuore della questione, ossia se chiunque patteggi – come ha fatto Toti – ammetta di fatto di essere colpevole dei reati per cui ha patteggiato.

In base all’articolo 445 c.p.p., la sentenza di patteggiamento (sia tradizionale sia allargato) «è equiparata a una pronuncia di condanna». Ma un conto è questa equiparazione, che vale per una serie di fini, mentre è esclusa per fini diversi. Altro conto, invece, è attribuire alla sentenza di patteggiamento il valore di riconoscimento implicito di colpevolezza da parte dell’imputato.

Da un lato, la relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale, pubblicata nel 1988 dal Ministero della Giustizia, afferma che la valutazione da parte del giudice di una richiesta di patteggiamento non richiede «un positivo accertamento della responsabilità penale». Dall’altro lato, sul suo sito ufficiale, nella voce del glossario dedicata al “Patteggiamento”, lo stesso Ministero della Giustizia afferma che un «presupposto del patteggiamento è l’implicita ammissione di colpevolezza da parte dell’imputato».

La questione è dibattuta: alcune sentenze ribadiscono il principio secondo cui il presupposto del patteggiamento è l’ammissione anche implicita di colpevolezza; altre sentenze sostengono che dalla rinuncia dell’imputato a contestare le accuse sulla propria responsabilità non si può far discendere la prova del riconoscimento di tale responsabilità.

Secondo una parte della dottrina giuridica, se la sentenza di patteggiamento non fosse fondata sul presupposto dell’implicita dichiarazione di colpevolezza da parte dell’imputato, l’istituto contrasterebbe con i principi costituzionali. Una sanzione penale – anche detentiva e di non trascurabile durata, con il patteggiamento allargato – sarebbe comminata infatti a un soggetto solo perché egli lo richiede, quindi senza che vi sia il benché minima accertamento della sua responsabilità. 

La mancanza di una conclusione univoca sulla valenza del patteggiamento dipende dal fatto che nelle norme che disciplinano questo istituto nel nostro ordinamento non c’è alcun riferimento all’ammissione di colpevolezza da parte dell’imputato. In altre parole, il codice di procedura penale non impone all’imputato di riconoscere la propria responsabilità nel momento in cui chiede al giudice l’applicazione di una pena concordata con il pubblico ministero, ossia nel momento in cui chiede di patteggiare. Pertanto, quando opta per il patteggiamento, l’imputato si limita ad accettare di fatto di subire una condanna per colpevolezza, ma non ammette di essere colpevole.

Solo i “colpevoli” patteggiano?

In passato la Corte Costituzionale ha affermato e ribadito in diverse sentenze che nel patteggiamento «l’imputato è posto di fronte a una alternativa che investe principalmente il suo diritto di difesa: concordare la pena e uscire rapidamente dal processo» oppure «esercitare la facoltà di contestare l’accusa». Secondo la Corte Costituzionale, «il sistema è costruito in modo che l’imputato possa determinarsi alla sua scelta con piena consapevolezza delle conseguenze giuridiche derivanti dall’applicazione della pena su richiesta, così da poterne adeguatamente ponderare i benefici e gli svantaggi». Dunque, sulla base di questa lettura, il patteggiamento è soprattutto il risultato di un’analisi di costi e di benefici, che va oltre l’eventuale colpevolezza dell’imputato. In altre parole, l’eventuale colpevolezza spesso non è l’unico fattore – o il fattore decisivo – nella scelta tra patteggiare o andare a processo. 

L’associazione Antigone, che si occupa della tutela dei diritti e delle garanzie nel sistema penale e penitenziario, ha fatto notare che imputati appartenenti a categorie più deboli, soprattutto dal punto di vista sociale ed economico, potrebbero «preferire il rito alternativo anche al prezzo della rinuncia ad alcune garanzie del dibattimento» dato che non sono in condizione di permettersi economicamente «attività difensive complesse o perizie tecniche di alto livello». Altri imputati, magari più facoltosi, potrebbero essere indotti a scegliere il patteggiamento per i “premi” a esso connessi. Va considerato pure che, patteggiando, l’imputato accorcia il periodo di attesa della sentenza, particolarmente oneroso a causa dei tempi della giustizia italiana e potenzialmente dannoso per l’immagine di un personaggio pubblico. Quindi, si può decidere di patteggiare non solo perché si è colpevoli, ma anche per una serie di altri motivi.

Il patteggiamento consente anche allo Stato di risparmiare tempo e risorse. Per questo motivo la riforma della Giustizia promossa dall’ex ministra della Giustizia Marta Cartabia, proprio per ridurre la durata dei processi penali, ha modificato le regole sul patteggiamento per favorirne il ricorso. In particolare, ha esteso la materia negoziabile tra le parti, anche a pene accessorie e alla confisca facoltativa, e ha ridotto gli effetti extra-penali della sentenza di patteggiamento, così che essa, come prevedeva la legge delega approvata nel 2021 dal Parlamento, non abbia «efficacia di giudicato nel giudizio disciplinare e in altri casi».

I possibili esiti della richiesta di patteggiamento

L’istanza di patteggiamento può essere presentata già durante la fase delle indagini preliminari, oppure prima della presentazione delle conclusioni in udienza preliminare, oppure prima della dichiarazione di apertura del dibattimento. Per emettere una sentenza di patteggiamento il giudice deve verificare che non sussistano i presupposti per emettere una sentenza di proscioglimento (articolo 129 c.p.p.); che la qualificazione giuridica data dalle parti al fatto sia corretta; che sia corretta l’applicazione e la comparazione di circostanze aggravanti e attenuanti; e infine che la pena su cui le parti si siano accordate sia congrua (articolo 444 c.p.p.).

Un primo epilogo della richiesta di patteggiamento può essere il riconoscimento da parte del giudice di causa di proscioglimento, con emissione di una sentenza in tal senso. 

Un secondo esito possibile è la restituzione degli atti al pubblico ministero per la mancanza di un presupposto legalmente previsto; per una qualificazione del fatto o per un bilanciamento delle circostanze non corretti; o per la richiesta di una pena non congrua. Il giudice non ha il potere di cambiare i contenuti dell’accordo formalizzato dalle parti, ma può solo accogliere o rigettare la richiesta. Le parti possono sottoporre un nuovo accordo, emendato nel caso dai vizi riscontrati. 

Il terzo epilogo consiste nell’emissione della sentenza di patteggiamento, scrivendo nel dispositivo (ossia la parte finale della sentenza) che «vi è stata la richiesta delle parti».

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